Diseguaglianza economica e emissioni nocive: quale relazione?

Giulia Valenti indaga il rapporto tra disuguaglianze di reddito ed emissioni di carbonio, con lo scopo di stabilire se i due obiettivi di sviluppo sostenibile - “azione per il clima” e “riduzione delle disuguaglianze” - siano congiuntamente raggiungibili. Per perseguire questo scopo Valenti prima ripercorre i principali risultati ottenuti dalla ricerca economica fino ad oggi e successivamente presenta i risultati di un’analisi empirica condotta su un panel di 177 paesi osservati negli anni compresi tra il 1990 e il 2017.

In ambito di economia ambientale, la letteratura si è finora interessata soprattutto all’impatto sull’ambiente esercitato dalla crescita economica, così privilegiando un’ottica di analisi incentrata sull’efficienza.

Di recente, tuttavia, soprattutto alla luce delle nuove complessità dispiegate dal cambiamento climatico, sta crescendo l’attenzione verso lo studio del legame tra questioni ambientali e disuguaglianze economiche e sociali, ovvero verso tematiche che guardino anche alle ricadute in termini di equità.

Il cambiamento climatico apre numerose e controverse questioni, non solo sulle responsabilità per ciò che sta accadendo, ma anche sugli scenari futuri che si presenteranno o sono già parzialmente apparsi; le conseguenze non colpiscono, infatti, omogeneamente i paesi e, all’interno di questi, i diversi individui.

Nelle negoziazioni sul clima, susseguitesi negli ultimi venticinque anni attraverso le Conference of Parties (COP), il concetto di equità si è imposto da subito come elemento chiave delle trattative: come si decide chi ha il diritto di emettere gas serra e quanto? Le emissioni prodotte dalle attività umane sono state ampiamente riconosciute come principali responsabili dell’aumento delle temperature, e, dunque, delle connesse conseguenze. Tuttavia, non tutti i paesi hanno beneficiato nella stessa misura della crescita economica e non tutti gli individui hanno tratto vantaggio da questo sproporzionato accumulo di emissioni. Le responsabilità del cambiamento climatico sono chiaramente differenziate, ma le conseguenze non ricadono necessariamente su chi ha maggiori responsabilità.  Per questo motivo, già dal 1992 a Rio di Janeiro è stato formalizzato il principio di “Common but Differentiated Responsibilities” poi ampliato dall’aggiunta “and Respective Capabilities”, stabilendo un criterio nella riduzione delle emissioni che tenga conto non solo delle diverse responsabilità storiche, ma anche della diversa condizione e capacità dei paesi di adattarsi ai mutamenti che ne derivano.

La complessità del legame tra disuguaglianza e cambiamento climatico si amplia ulteriormente se si guarda alla distribuzione del “privilegio di emettere” all’interno di una stessa società, o nel tempo, tra generazioni diverse. Per tale ragione è necessario comprendere se questi due fenomeni interagiscono tra loro e attraverso quali meccanismi.

La figura 1, basata su una ricostruzione da parte di Oxfam dei dati relativi al consumo domestico nel 2007, fra paesi, e all’interno di ognuno di essi, mostra una profonda disparità nel livello di emissioni pro capite, crescente all’aumentare del reddito. Nonostante l’andamento sia simile per tutti i paesi presi in esame, osserviamo che le disparità tra essi, in termini assoluti, sono molto consistenti. Anche nei quintili più bassi il livello di emissioni registrato negli Stati Uniti è superiore a quello massimo registrato in molti altri paesi, in particolare  Cina e India. Va inoltre sottolineato che il 20 per cento più ricco del mondo ha un livello di emissioni pro capite di poco superiore a quelle del 20 per cento più povero negli USA.

 

L’importanza del legame fra cambiamento climatico e diseguaglianze va indagato anche alla luce degli obiettivi di sviluppo sostenibile stabiliti dall’ONU, da perseguire entro il 2030. Fra tali obiettivi rientrano infatti l’“azione per il clima” e la “riduzione delle disuguaglianze”. In quale direzione, se esiste, va dunque il legame fra diseguaglianza e emissioni nocive per l’ambiente?

Dal punto di vista teorico non emerge una risposta unanime: entrambe le direzioni del legame sono supportate e motivate facendo ricorso a diverse tipologie di processi.

La principale teoria a sostegno dell’esistenza di un trade-off tra riduzione delle disuguaglianze e riduzione delle emissioni di CO2 – ovvero l’impossibilità di perseguire congiuntamente la riduzione delle disuguaglianze e quella delle emissioni, poiché se una variabile diminuisce l’altra aumenta –, ricorre al concetto di marginal propensity to emit, MPE, (Ravallion, Heil e Jalan, Carbon emissions and income inequality, 2000): non tutti gli individui hanno la stessa propensione marginale ad emettere, e in particolare, questa è decrescente nel reddito. Avremo dunque che un euro in più dato a un soggetto povero avrà un impatto più deleterio – in termini di emissioni – di un euro aggiuntivo a favore di un ricco.  Ne consegue che, a parità di reddito medio all’interno di una società, redistribuire risorse da individui più facoltosi ad altri meno abbienti, conduce a un aumento delle emissioni pro-capite.

In linea con questa teoria si colloca la visione di Grunewald et al. (The trade-off between income inequality and carbondioxide emissions, 2017) relativa all’accesso all’energia: un aumento della disuguaglianza, in particolar modo in paesi a minor sviluppo, ha come probabile conseguenza un aumento nel livello di povertà; in termini energetici ciò implica un maggior numero di individui fuori dalla carbon economy, ossia un più ampio gruppo di soggetti per cui il livello di emissioni imputabili è prossimo allo zero.

Esistono altri processi tramite cui il livello di diseguaglianza in una certa società può avere ripercussioni sul livello di emissioni. La teoria della classe agiata, proposta da Veblen (The theory of the leisure class, 1965), si basa sul concetto di emulazione nei consumi. Estendendo tale noto meccanismo alle emissioni, prevediamo che in due società, a parità di reddito medio, l’andamento osservato sarà diverso, condizionatamente al grado di disuguaglianza presente. In quella caratterizzata da maggiori disparità economiche, ogni classe consumerà di più, rispetto all’altra società più equa; ciò è dovuto all’aumento di consumi, nella prima, che sono spinti in alto dalla volontà di imitare gli standard di vita della classe immediatamente superiore. Più gli individui delle varie classi economiche sono lontani tra loro in termini di reddito, più ognuno di essi consumerà di più di quello che avrebbe fatto nella situazione caratterizzata da minore disuguaglianza, in cui per ciascuno il punto di riferimento da emulare risulterà più prossimo. In termini di propensione marginale a emettere, ne deriva una maggiore quantità di emissioni, per ogni individuo, quanto più diseguale è la società.

J.K. Boyce (Inequality as a cause of environmental degradation, 1994,) considera come canale di trasmissione tra disuguaglianza di redditi ed emissioni, l’abilità a cooperare e coordinarsi. Il cambiamento climatico e il problema della riduzione delle emissioni sono definiti nella teoria dei giochi come un problema di azione collettiva: la scelta socialmente preferibile è quella di cooperare e intraprendere una riduzione delle emissioni, però le singole parti hanno interessi individuali per cui non sono motivate ad agire per prime. La conseguenza è il raggiungimento di un livello di degrado ambientale, o di emissioni, superiore a quello socialmente ottimo. Per tale ragione le società più egualitarie – con istituzioni più forti, una maggiore abilità nell’intraprendere scelte condivise e implementare politiche risolutive – saranno caratterizzate da un livello di emissioni minore, escludendo quindi la presenza del trade off. Boyce guarda a questo meccanismo ponendo particolare attenzione alle dinamiche di equilibrio tra individui più e meno potenti: i primi infatti hanno non solo la possibilità di rendere attuali le scelte che preferiscono, ma anche di riversare le relative conseguenze su altri segmenti della società. In aggiunta Boyce considera che, in società meno eque, il tasso di preferenza intertemporale è più alto: ossia l’attenzione per le conseguenze future è, nelle scelte individuali, meno rilevante della preoccupazione odierna; ciò conduce a un più alto livello di degrado ambientale. Tale tendenza può essere motivata, nel caso delle classi sociali a basso reddito, da una maggiore urgenza nel soddisfare bisogni di prima necessità; mentre, per le classi più agiate, il tasso di preferenza può essere profondamente condizionato dal livello di democrazia, stabilità politica e grado di disuguaglianza; si immagini ad esempio il caso di un elitè dittatoriale che vuole sfruttare il più ampiamente e velocemente possibile, le risorse su cui ha il controllo.

Guardando agli effetti del progresso tecnologico, è chiaro che le innovazioni dovrebbero portare con sé un miglioramento nella generazione di emissioni, con riduzione dell’impatto ambientale. Ma il collegamento tra sviluppo scientifico e qualità ambientale non è necessariamente diretto, e anzi può essere influenzato proprio dal livello di disuguaglianza in una determinata società. Basti pensare, come sottolineato da Vona e Patriarca (2011), che le tecnologie più efficienti si diffondono con maggiori difficoltà in contesti più disuguali, dato che poche persone possono effettivamente accedervi, nell’impossibilità di sostenere il costo, inizialmente troppo elevato.

Partendo da questo contesto teorico, ho condotto un’analisi su un panel relativo a 177 paesi osservati dal 1990 al 2017. Analisi simili, ma con dati e metodologie diverse, sono state condotte da Ravallion, Heil e Jalan (Carbon emissions and income inequality, 2000,) e Grunewald, Klasen, Martínez-Zarzoso e Muris (The trade-off between income inequality and carbon dioxide emissions, 2017).

L’analisi è condotta usando come variabile dipendente le emissioni pro capite, imputate ai diversi paesi sia seguendo lo schema di consumo, sia quello di produzione; nel primo caso l’analisi include 117 paesi, mentre nel secondo 152, a causa di alcune lacune nei dati. La misura di disuguaglianza adottata, ossia la principale variabile dipendente analizzata, è l’indice di Gini; sarebbe interessante però estendere l’analisi ad altre misure di disuguaglianza, in particolar modo ad alcune in grado di catturare più efficacemente gli effetti relativi a cambiamenti nelle due estremità della distribuzione di reddito.

I risultati che ho raggiunto sono in linea con quelli trovati nei due lavori sopracitati. Da tutte e tre le analisi empiriche emerge che l’effetto del livello di disuguaglianza sull’ammontare di emissioni di carbonio dipende dal reddito medio del paese. Infatti, nonostante la relazione individuata sia caratterizzata dalla presenza di trade off – ossia l’impossibilità di perseguire congiuntamente la riduzione delle disuguaglianze e quella delle emissioni – quest’ultimo diventa meno vincolante, per livelli di reddito progressivamente più alti, fino a dissolversi completamente, permettendo infine una relazione positiva tra emissioni e disuguaglianza.

Come è mostrato dalla figura 2, il segno dell’effetto marginale del logaritmo dell’indice di Gini sul logaritmo delle emissioni pro capite, varia a seconda del livello del PIL del paese. Osserviamo infatti che, per un livello di PIL pro capite pari a 361 dollari (PPP), un aumento di un punto percentuale del Gini genera una riduzione delle emissioni di 1,6 punti percentuali; è il caso del Burkina Faso, Burundi, Repubblica Centrafricana, Etiopia, Liberia, Malawi, Mozambico, Myanmar, Niger, Rwanda, Sierra Leone e Uganda. L’aumento di un punto di Gini è invece associato a un aumento di 0,61 punti nelle emissioni per i paesi ad alto reddito, ovvero per quelli con PIL pro capite intorno a 53,591 dollari (PPP), come nel caso di Brunei, Hong Kong, Irlanda, Kuwait, Lussemburgo, Norvegia, Qatar, Singapore, Svizzera, Emirati Arabi Uniti e USA.

Per spiegare questo risultato è possibile appellarsi ai meccanismi teorici discussi in precedenza: la MPE e la relativa uscita dalla carbon economy, o la difficoltà di implementare nuove tecnologie, giustificano l’aumento delle emissioni al ridursi delle disuguaglianze economiche. Per alti livelli di reddito, però, questi meccanismi diventano meno rilevanti; ne subentrano altri, come il livello di democrazia, o l’emulazione nei consumi, che portano a un’inversione di tendenza, determinando una relazione negativa tra i due obiettivi di sviluppo sostenibile.

Questo risultato appare preoccupante. Come è possibile, soprattutto nei paesi in via di sviluppo,  perseguire crescita economica, riduzione delle disuguaglianze e  riduzione, o almeno non aumento, delle emissioni? È necessario interrogarsi più accuratamente su quali tipi di politiche, volte al raggiungimento congiunto di tali obiettivi, sia più opportuno adottare tenendo conto dei trade off; ma, in modo più radicale, ci si può anche chiedere se non siano necessari interventi radicali in grado di annullare il  trade off anche per livelli di reddito più bassi.

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