Diritto delle religioni e pandemia. Dalla crisi all’opportunità

Francesca Oliosi riflette sull’elasticità dei diritti religiosi, che disciplinano la vita dei fedeli all’interno delle confessioni di appartenenza. Diversamente da quanto si è soliti pensare, anche i precetti e gli ordinamenti religiosi, in quanto diritti, evolvono e si adattano. Utilizzando come paradigma dell’evoluzione la modifica dell’approccio rispetto cd. gender gap e come esempio di adattamento delle confessioni l’attuale emergenza sanitaria, Oliosi sostiene che l’attuale crisi può rivelarsi anche un’ottima opportunità.

Ne «L’uomo senza qualità» di Robert Musil, il protagonista del romanzo – Ulrich – grazie agli auspici del suo influente padre entra a far parte della cosiddetta «Azione Parallela», un gruppo impegnato a studiare i più adeguati preparativi per celebrare il settantesimo anniversario dell’ascesa al trono dell’imperatore Francesco Giuseppe, che avrebbero dovuto aver luogo nel 1918. L’Autore sceglie con sarcasmo questo «non evento» (il 1918 è l’anno che passerà alla storia per la fine del primo conflitto mondiale e per il collasso dell’Impero austro-ungarico), accentuando l’ironia che, a posteriori, caratterizza la dettagliata descrizione dei lavori della Parallelaktion: il grande sforzo dei migliori intellettuali del tempo, infatti, risulterà del tutto inutile. A ben vedere l’intera trama del libro, dove il protagonista è, appunto, l’uomo senza qualità (anzi, per meglio dire, con tutte le qualità del Novecento), ruota proprio intorno ai preparativi della festa: pagine su pagine sono dedicate alla descrizione di trovate brillanti ed elaborazioni entusiastiche, come paradigma di cosa succede quando studiosi “sganciati dalla realtà” si impegnano ad elaborare idee o nel perseguire fini che, di fatto, sono destinati a rimanere velleitari e non saranno in alcun modo utili.

In questo preciso momento storico, nel quale la pandemia da Covid-19 ha stravolto fin nella quotidianità le esistenze di ognuno, politica e istituzioni sembrano lontanissime dall’accogliere istanze connesse all’appartenenza religiosa rimaste pendenti (e disattese) ormai da troppo tempo. Le questioni economiche e politiche collegate alla crisi da pandemia sembrano i veri temi attuali, concreti, utili. La tentazione nella quale si può cadere è così quella di ritenere che accostarsi al «diritto delle religioni» sia, ora più che mai, del tutto velleitario, un po’ come mettere in atto una nuova «Azione Parallela», che si focalizza su concetti o definizioni che, esattamente come le celebrazioni per Francesco Giuseppe nel 1918, non verranno mai utilizzati.

In realtà, come tutte le crisi, anche quella che ha caratterizzato gli ultimi tempi – e, per quanto è dato ipotizzare oggi, caratterizzerà ancora a lungo quelli a venire – può essere foriera di grandi opportunità: l’attuale assetto sociale dimostra come mai come in questo momento storico sembra necessario ripensare il rapporto con le religioni, non soltanto nei confronti di stati e istituzioni nazionali e sovranazionali, ma anche nei confronti dei singoli che sono sì cittadini, ma anche molto spesso (e ancor prima) fedeli.

Se la geografia religiosa dà conto della presenza (sul territorio italiano ed europeo) di una varietà di organizzazioni confessionali e di soggetti (individuali e collettivi) che portano avanti gli interessi dei fedeli all’interno dell’agorà pubblica, uno sguardo attento al dato giuridico non può che rilevare un certo affanno del diritto nell’adeguarsi alla nuova società multiculturale. Un affanno dovuto, certo, alla caduta del monismo intorno a cui è nato tutto il costituzionalismo occidentale, ma aggravato da prese di posizione spesso miopi, ancorché diffuse e politicamente “appaganti”. A fronte di intere campagne politiche che solo in opposizione alle nuove religioni – che poi tanto nuove non sono-, sono saldamente ancorate all’appartenenza confessionale storicamente tradizionale, viene da chiedersi se davvero esista un margine per riconsiderare il diritto delle religioni come strumento e non come ostacolo alla ricostruzione di una società che, nel rispetto delle differenze, riesca ad essere profondamente e realmente democratica, solidale e ora come non mai unita nell’attuare tutte quelle pratiche e nell’accettare quelle limitazioni che solo se prese insieme possono arginare la diffusione del virus SARS-coV2.

La risposta è sì, assolutamente: mai come in questo momento di crisi il diritto delle religioni può dimostrare come, grazie anche alla sua elasticità, può fungere da strumento.

Quando si sente parlare di religione, si è soliti pensare ad un sistema fisso ed immutabile, basato su un tipo di diritto (come quello divino) del tutto impermeabile a ciò che lo circonda. Niente di più falso: non si tratta di leggi che, per usare le parole di Antigone, sono «leggi non scritte, e innate, degli dèi. Non sono d’oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero né di dove».

Anche se di matrice divina, pure i diritti religiosi sono solo apparentemente immutabili e immutati: sono pur sempre diritti e, per definizione, per quanto la provenienza possa essere de super, vengono rivelati (per chi crede) o comunque anche solo positivizzati (per chi non crede) dall’uomo. D’altro canto, applicando il principio del rasoio di Occam, se un ordinamento giuridico vive fin quando risponde ai bisogni del corpo sociale che esso regola e se questo corpo sociale è in costante evoluzione, sarebbe assai problematico spiegare la sopravvivenza plurimillenaria di ordinamenti giuridici religiosi che – proprio perché statici e non modificabili- avrebbero dovuto essere da tempo travolti dalle trasformazioni sociali intervenute all’interno delle rispettive comunità di riferimento. (S. Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi, 2008).

L’unica spiegazione possibile, dunque, è che i diritti delle religioni evolvono e si adattano: due concetti, questi, non del tutto omogenei se si considera che l’evoluzione implica un lento cammino (talvolta impercettibile) che concilia la sacralità di un diritto perfetto e completo (come il suo Legislatore) alla necessità di dare soluzioni adeguate a problemi che non sono affrontati (almeno esplicitamente) dalla legge divina, mentre l’adattamento implica risposte pronte e reattive a precisi momenti storici.

Come esempio perfetto dell’evoluzione dei diritti religiosi si può portare la questione della discriminazione di genere dovuta, anche, all’appartenenza confessionale: dopo secoli passati a dare dei Testi sacri e del diritto divino un’interpretazione del tutto a sfavore della donna, in misura e modalità diversa tutte le confessioni religiose (seppure con gradazioni ovviamente diverse) si sono adeguate allo sviluppo di una cultura che ha maturato nei secoli il concetto di pari dignità dei due generi (E. Camassa – a cura di- Donne e appartenenze confessionali, 2018). Certo, se rispetto all’evoluzione della società i diritti secolari arrivano con un ritardo fisiologico che solo in un secondo momento fa sì che registrino e disciplinino una determinata esigenza sociale, i diritti religiosi sopraggiungono ancora dopo, allorquando la discrasia tra la posizione di un credente all’interno dell’organizzazione religiosa rispetto a quella che riveste come cives nella società assume connotati così diversi da non essere più in alcun modo conciliabile. La posizione giuridica della donna è in questo senso paradigmatica: nei Paesi Occidentali la discrasia tra la legge di Dio, il diritto naturale e l’autonomia delle formazioni religiose ha provocato crescenti interrogativi circa la sostenibilità a lungo termine di questo sistema a due velocità, mentre nei Paesi musulmani, dove lo statuto della donna resta debole, le istanze sociali hanno portato solo in parte alla revisione dell’interpretazione dei Testi sacri e del diritto divino.

Allo stesso tempo, risulta evidente come alla velocità (ma anche all’omogeneità) dell’evoluzione dei diritti religiosi concorra altresì l’organizzazione interna della confessione stessa: tanto più una confessione è strutturata in una gerarchia rigida e accentrata (basti pensare a quella cattolica), tanto più la modifica della posizione del magistero su determinate tematiche sarà lenta, seppur omogenea. Specularmente, se una confessione è priva di un clero gerarchico e universalmente riconosciuto (in questo senso l’islam è emblematico) tanto più sarà facile che recepisca più velocemente (seppur non in tutta la sua estensione territoriale) determinate istanze sociali. Basti pensare che proprio all’interno della religione musulmana (in particolare nei Paesi del Nord Europa) si sono registrate aperture notevoli con riferimento all’intero mondo LGBTQI, con la nascita delle cosiddette moschee inclusive, all’interno delle quali le “imamesse” spesso guidano la preghiera (F. Oliosi, Appartenenza religiosa e appartenenza di genere nell’Islam, tra interpretazioni classiche ed istanze moderne, 2018).

Se la questione di genere può offrire quindi un ottimo spunto di riflessione sulla seppur lenta evoluzione dei diritti religiosi rispetto alle istanze sociali, l’attuale pandemia da Covid offre invece un ottimo esempio di “adattamento” dei diritti religiosi a particolari momenti storici. L’emergenza sanitaria degli ultimi mesi ha spinto tutte le religioni (la cattolica in primis) a rivedere le celebrazioni, derogare i precetti, elaborare modalità del tutto nuove per accostarsi ai riti e alle festività: dalla Pasqua cristiana al capodanno ebraico, dal ʿīd al-fiṭr (la festa di fine ramadan) alle celebrazioni ortodosse, le religioni non solo si sono adeguate ad una situazione nella quale la dimensione collettiva e corale della religione poteva essere assai pericolosa perché foriera di massicci contagi, ma hanno quasi sempre osservato in maniera assai attenta le indicazioni date dalle autorità statali in merito, osservando il principio di leale collaborazione che non sempre è facile rinvenire nei rapporti tra le autorità civili e quelle religiose (per un focus,: http://www.diresom.net riguardo a Religion, Law and Covid-19 Emergency, dove vengono raccolti documenti e commenti di studiosi sul rapporto tra i diritti religiosi e l’emergenza da Coronavirus).

In un momento storico in cui l’unione di intenti ma il distanziamento delle vite è l’unica via davvero efficace per frenare la diffusione di una pandemia di tale portata, i diritti delle religioni hanno mostrato la loro capacità di adattarsi ma anche, con la loro presenza capillare e il loro messaggio seguito dalle più disparate classi sociali, di farsi interlocutori credibili e portatori ascoltati di messaggi di prevenzione socio-sanitaria, per tutte quelle categorie che, forse, non sarebbero state così persuase della serietà del momento che stiamo vivendo.

In questa società multietnica, frammentata in tante identità diverse, divisa tra istanze di riconoscimento e necessità di tutela, talvolta dilaniata da conflitti proprio in ragione dell’appartenenza confessionale, religioni e Stati sono stati in grado di interloquire e dialogare nell’intento di perseguire un comune obiettivo.

Per questo è importante proprio ora approfondire, conoscere, esaminare i diritti religiosi: non si tratta di uno sforzo velleitario da «Azione Parallela», ma può essere – finalmente – l’opportunità per intravedere quali risultati si possono raggiungere allora quando si riesca ad intraprendere un proficuo dialogo (che possa diventare anche un mutuo soccorso) tra la sfera temporale e quella spirituale di tutti quegli individui che non sono solo cives all’interno della società ma anche fidelis nelle religioni d’appartenenza.

Perché è vero, la crisi dovuta alla pandemia è di portata globale ed è a tutto tondo (economica, sanitaria, sociale, assistenziale) ma, come diceva Kennedy, “scritta in cinese la parola crisi è composta di due caratteri. Uno rappresenta il pericolo e l’altro rappresenta l’opportunità”. Forse, per Stati e religioni, è giunto il momento di cogliere l’opportunità, e creare la via per il dialogo.

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