Dialogo sul futuro dell’Europa

Francesco Saraceno e Pietro Reichlin si confrontano su alcune questioni cruciali per il futuro dell’Unione Europea: la prospettiva dell’Unione federale; la riforma delle regole fiscali; i cambiamenti annunciati dalla BCE sulla sua strategia; l’introduzione di un salario minimo. Le domande alle quali rispondono sono le stesse che sono state loro rivolte in occasione del Dialogo del ciclo ‘A pensarci bene’ che si è tenuto a Roma lo scorso 8 dicembre.

Pietro Reichlin e Francesco Saraceno, lo scorso 8 dicembre sono stati protagonisti di un Dialogo del ciclo ‘A pensarci bene’. Qui riassumono per il Menabò le loro risposte alle 4 domande oggetto del Dialogo.

Le scelte della UE per fronteggiare l’emergenza pandemica attraverso il NGEU potrebbero favorire lo sviluppo di una permanent fiscal capacity Europea. Considerate tale prospettiva probabile e desiderabile? Più in generale si può considerare desiderabile e probabile la prospettiva di realizzare un’Unione federale europea?

Pietro Reichlin

La crisi finanziaria del 2008 e la pandemia del 2018 hanno aperto gli occhi dei politici europei sulla necessità di apportare alcuni correttivi essenziali per la stabilità dell’UE. Il problema di fondo, ben noto agli esperti prima della crisi dei debiti sovrani, è che, in un’unione monetaria, i vincoli sui parametri fiscali non sono credibili se non esiste un meccanismo centrale di assorbimento degli shocks che colpiscono i singoli paesi. Come parziale riconoscimento di questo problema, dopo la crisi, è stato consentito alla BCE di svolgere la funzione di compratore di ultima istanza (sui mercati secondari) dei debiti sovrani, è stata creata un’agenzia finanziaria pubblica (il MES) con il compito di spegnere sul nascere gli attacchi speculativi degli investitori ai danni dei debiti sovrani, è stato reso più flessibile il Patto di stabilità e Crescita (PSC) (poi temporaneamente soppresso) e, infine, è stato varato il NGE, un imponente programma di investimenti pubblici (composto da trasferimenti e prestiti) per il valore complessivo di 750 miliardi che costringe, per la prima volta, il governo europeo a emettere un debito temporaneo, da rimborsare tra trent’anni. Oggi esiste un consenso diffuso sul fatto che i debiti sovrani dei paesi europei non siano più in balia della speculazione e che il PSC sarà applicato in una forma flessibile. È chiaro a tutti, però, che questi cambiamenti non sono sufficienti. Il processo di integrazione economica e finanziaria è ancora incompleto, ma non c’è unanimità sulla direzione da prendere.

Aumentare ulteriormente la capacità fiscale a disposizione della Commissione Europea è coerente con un disegno “federalista” che io certamente condivido. Molti suggeriscono che il bilancio fiscale europeo dovrebbe avere una dimensione che consenta di fare politiche di stabilizzazione del ciclo come avviene negli USA. Ma esistono almeno due ostacoli che rendono difficile la realizzazione di questo disegno. Il primo è la mancanza di una legittimità politica delle istituzioni europee e il secondo è la difformità delle condizioni di partenza (la “legacy”). L’assenza di legittimità politica implica che gli stati membri (i suoi cittadini e governi) potrebbero non riconoscere come realmente vincolanti le norme comunitarie, perché emanate da una tecnocrazia non legittimata dalla volontà popolare. La legacy è rappresentata dai debiti finanziari e dai difetti istituzionali di ogni stato membro, che rendono difficile la fiducia reciproca e la creazione di un sistema di condivisione dei rischi. Ad esempio, i cittadini di un paese X sono legittimamente restii a condividere i rischi con un paese Y se quest’ultimo ha un debito pubblico elevato, un sistema bancario fortemente esposto ai rischi di questo stesso debito, un sistema di ammortizzatori sociali inefficiente, una maggiore difficoltà a ricavare gettito fiscale nelle situazioni in cui è necessario contribuire al bilancio comunitario e, più in generale, un sistema istituzionale caratterizzato da esecutivi deboli e divisi.

Oggi il budget europeo rappresenta circa l’1% del Pil dell’UE. Per arrivare a una capacità fiscale significativa occorrerebbe aumentare questo gettito di molti punti percentuali. Questo obiettivo è, per il momento, difficilmente raggiungibile. Il primo problema è che il gettito fiscale medio nei paesi UE è già molto elevato (vicino al 50% del PIL), e, quindi, la creazione di un budget UE sarebbe di tipo sostitutivo: de-finanziare alcuni programmi sociali nazionali e devolverli al centro. Questo ha un costo politico notevole, perché significa esautorare i parlamenti nazionali di molte funzioni per cederle a un’autorità sovranazionale. Il secondo problema è che questa devoluzione verso il centro richiede la creazione di modelli istituzionali comuni. Ad esempio, dobbiamo avere un sistema di ammortizzatori sociali e un grado di progressività impositiva di tipo italiano, tedesco o spagnolo? Il terzo problema è che la creazione di un debito comune implica inevitabilmente trasferimenti impliciti permanenti verso i paesi che crescono meno, che sono più rischiosi e che hanno un debito pregresso più elevato, e questo sarebbe difficilmente accettato dai paesi del Nord Europa. È possibile che la creazione di un debito comune possa generare vantaggi per tutta l’area Euro (riduzione dei rischi di crisi finanziarie, maggiore liquidità), ma questi vantaggi sono incerti. Infine, la creazione di un importante budget europeo porta inevitabilmente verso un modello politico federale. Questo modello, per quanto auspicabile, implica forti vincoli alla spesa e ai disavanzi dei paesi membri, come avviene nei paesi avanzati con costituzione federale. Quindi la creazione di una “fiscal capacity” europea dovrebbe essere accompagnata da una revisione dell’impalcatura istituzionale dell’UE e da una maggiore rigidità dei vincoli fiscali a cui sono soggetti gli stati, incluso il patto di stabilità. Ciò è la conseguenza inevitabile del fatto che la messa in comune di risorse pubbliche accentua l’azzardo morale.

In assenza di una disponibilità alla realizzazione di un vero e proprio processo di integrazione politica, occorre soppesare i vantaggi e i costi di una maggiore capacità fiscale della Commissione Europea. Nel corso della crisi dell’Eurozona, la caduta del PIL dei paesi periferici è stata contenuta dagli stabilizzatori automatici e i disavanzi fiscali nazionali, oltre che dagli aiuti del MES e della BCE. Non è evidente che la sostituzione delle politiche di stabilizzazione nazionali con quelle UE possa migliorare la situazione. Temo che la devoluzione al centro della politica di stabilizzazione ci porti su un terreno incognito in cui sarà più difficile contrattare le politiche di stimolo.

Francesco Saraceno

Per rispondere a questa domanda bisogna iniziare da tre premesse:

  1. In primo luogo, le due crisi “epocali” che si sono succedute in poco più di dieci anni hanno rimesso al centro della scena la politica di bilancio. E questo si lega sia alle manovre keynesiane anticicliche, in situazioni di tassi di interesse bassi e di impotenza delle banche centrali, o agli investimenti nella crescita e nella trasformazione richiesta dalla transizione ecologica e digitale. Il consenso su questo tema è cambiato e oggi gli economisti convinti che la politica di bilancio non dovrebbe far parte della cassetta degli attrezzi del policy maker sono una minoranza.
  2. Le regole per la governance macroeconomica riflettono il consenso precrisi, mentre oggi sono unanimemente considerate obsolete. Occorre che la nuova governance preveda un ruolo per la politica di bilancio. Questa potrà essere creata a livello centrale, con la creazione di una capacità di tassazione e di spesa europea; oppure, può essere creata con regole che diano più margini di manovra agli Stati nazionali.
  3. La terza premessa è che il Next Generation EU (NGEU) non è momento “Hamiltoniano”, l’atto di nascita di un’Europa compiutamente federale. In primo luogo, perché la mutualizzazione del debito riguarda solo il NGEU e quindi è limitata nello scopo e nel tempo. Inoltre, l’indebitamento comune non finanzia investimenti europei, ma piani nazionali che la Commissione coordina tramite le linee guida e le condizionalità. Siamo insomma molto lontani da un sia pure embrionale tesoro federale europeo.

Una volta fatte queste premesse, possiamo rispondere alla domanda. Una capacità di bilancio centrale sarebbe più efficace di politiche che rimangono nazionali, sia nel regolare il ciclo economico (con le politiche che vengono definite classiche), sia nell’investire per la crescita e per la trasformazione strutturale dell’economia. Basti vedere come gli Stati Uniti hanno reagito alle due crisi degli ultimi anni senza dover affrontare tutti i problemi che ha affrontato l’eurozona. Inoltre, l’instabilità, le speculazioni contro il debito sovrano e il rischio di comportamenti opportunistici da parte dei governi nazionali, tanto temuti dai paesi “frugali”, si ridurrebbero notevolmente se l’eurozona si dotasse di un bilancio comune. Infine, una capacità di bilancio centrale costituirebbe anche un importantissimo passo avanti nell’integrazione europea.

Tuttavia, la creazione di una capacità di bilancio centrale in un sistema che non è compiutamente federale non è compito agevole. Infatti, la politica di bilancio è un atto squisitamente politico, e quindi deve sempre essere accompagnata da meccanismi di responsabilità di fronte agli elettori. Sarebbe inaccettabile che i governi nazionali fossero chiamati dagli elettori a rispondere di atti del “ministero dell’economia federale” rispetto ai quali non hanno potuto esprimersi ed esercitare una qualche influenza; no taxation without representation, insomma. Una capacità di bilancio centrale in un sistema di governo che rimane fondamentalmente intergovernativo dovrebbe dunque essere creata con molta attenzione, facendo attenzione ai checks and balances. Consiglio e Parlamento europeo dovrebbero poter interagire con il “ministro dell’economia” (anche se questo implicherebbe qualche macchinosità), per dare legittimità democratica alla sua azione. Diverso, e preferibile sia dal punto di vista dell’efficacia macroeconomica che della semplicità istituzionale, sarebbe un deciso passo avanti verso un’Unione politica; ma si tratta di una soluzione che oggi non ha nessuna praticabilità politica e che è dunque inutile discutere.

Il dibattito sulle regole fiscali europee sta entrando nel vivo. Qual è la vostra opinione sulle effettive possibilità di riforma del Patto di Stabilità e Crescita (PSC) e quale sarebbe a vostro avviso la riforma desiderabile?

Francesco Saraceno

Per consentire ai paesi membri di far fronte alla pandemia, nel marzo 2020 la Commissione ha sospeso il Patto di Stabilità fino a tutto il 2022. Qualche settimana prima, tuttavia, aveva avviato un processo di consultazione sulla riforma del Patto motivato da una valutazione sorprendentemente severa: negli scorsi anni, particolarmente durante la crisi del debito sovrano, il patto di stabilità ha contribuito a penalizzare gli investimenti e ha portato a politiche di bilancio pro-cicliche. Il dibattito di queste settimane fa parte di quel progetto di consultazione e dovrebbe portare, entro la fine dell’anno, ad una proposta di riforma della Commissione. È quindi fortemente improbabile che il Patto nella sua forma attuale torni a mordere. Questo, da un lato, per un’ovvia ragione contingente: con il debito pubblico che è esploso quasi ovunque (per la zona euro, nel 2021 si è attestato al 100%, quindici punti in più del livello del 2019), è assolutamente impossibile immaginare che a partire dal 2023 si possa chiedere ai paesi europei di ridurre il debito al 60% in 20 anni come stipulato dal Patto. Ma al di là dell’eredità della pandemia, dall’altro lato, occorre che le nuove regole consentano ai paesi europei di utilizzare la politica di bilancio, che, come si diceva sopra, è tornata a far parte della cassetta degli attrezzi del policy maker.

Un errore da evitare è quello di farsi condizionare dalla situazione contingente (debito alle stelle, fine dei programmi di acquisti delle banche centrali, inflazione) nel definire regole che ci accompagneranno per molti anni ancora. La sostenibilità delle finanze pubbliche è ovviamente fondamentale, tra l’altro per consentire l’uso della politica di bilancio. Tuttavia, in primo luogo, nel medio-lungo periodo è probabile che le tendenze deflazioniste dell’economia tornino a dominare, comprimendo i tassi d’interesse; in secondo luogo, il dibattito sulla migliore strategia per la gestione del debito, presente e futuro (ci sono molte soluzioni sul tavolo), dovrebbe rimanere distinta dalla discussione su regole che garantiscano libertà di azione per i governi senza mettere in pericolo la disciplina e la stabilità dell’Unione. Per questo proposte come quella degli economisti del MES di elevare l’obiettivo del debito dal 60% al 100% sembrano inadeguate.

Il dibattito sulla riforma del Patto si intreccia a doppio filo con quello sugli investimenti pubblici; questi sono negli anni scorsi stati le prime vittime dei programmi di austerità, consolidando una tendenza alla diminuzione che può essere fatta risalire all’inizio degli anni Ottanta. Quindi, anche senza considerare i colossali bisogni legati alla transizione ecologica e digitale, è per tutti i paesi europei cruciale che le nuove regole riescano in un modo o nell’altro a proteggere l’investimento pubblico da possibili futuri programmi di consolidamento di bilancio. È probabile che la Commissione finisca per proporre una “regola d’oro verde”, che scomputi dal deficit gli investimenti in transizione ecologica e digitalizzazione; tale proposta, tuttavia, pur costituendo un importante passo avanti rispetto allo status quo, non darebbe ai paesi membri abbastanza margine per politiche anticicliche e per sostenere la crescita. Inoltre, la pandemia ha mostrato come l’investimento non debba essere inteso in senso puramente contabile, ma definito in termini funzionali, in modo tale da coprire quelle spese che accrescono il capitale sociale; settori come la sanità, l’istruzione, le politiche di coesione territoriale possono essere più importanti per crescita e resilienza dell’economia di rotatorie e aeroporti. Si potrebbe immaginare di generalizzare il “metodo Next Generation EU”: si definirebbero periodicamente, tramite un processo democratico e in base alle necessità del momento, le categorie di spesa considerate prioritarie per crescita e sostenibilità da escludere dal Patto. Alla Commissione sarebbe poi affidato il compito di stilare le linee guida e di verificare la corrispondenza delle spese effettuate con quelle autorizzate.

Pietro Reichlin

Con il ritorno alla normalità post pandemica sarà inevitabile ristabilire il PSC (anche se rivisto) e alleggerire la dominanza fiscale sulla politica monetaria della BCE per consentirle di svolgere il ruolo primario di stabilizzazione dei prezzi. Tutto ciò significa che i governi europei dovranno formulare programmi concreti e credibili di consolidamento fiscale. È evidente che questa transizione potrebbe avere un impatto negativo sui rischi sovrani dei paesi più indebitati. Ad esempio, il debito pubblico italiano si attesta oggi oltre il 150% del PIL, e gli spread sono compressi dagli acquisti della BCE. Un piano di rientro del debito in linea con le raccomandazioni pre-covid sarebbe difficilmente sopportabile per l’economia del paese e la mancata osservanza dei vincoli definiti dal PSC potrebbe accendere la speculazione. Questo problema è, per ora, demandato al MES che, tuttavia, dispone di una capacità di fuoco limitata e può intervenire solo quando i rischi di default sono concreti. Una combinazione tra la funzione deterrente (nei confronti dei mercati) del MES e la gradualità nel processo di alleggerimento del peso dei debiti sovrani negli attivi della BCE e delle banche nazionali sarà inevitabile. In un recente contributo, Giavazzi, Guerrieri, Lorenzoni e Weymuller hanno proposto di creare un’agenzia con il compito di mutualizzare i debiti sovrani generati dal Covid. Il meccanismo implica una condivisione dei rischi sovrani e qualche redistribuzione fiscale a danno dei paesi del nord Europa. Tuttavia, la proposta riguarda una quota del debito pubblico italiano non superiore al 15% del PIL, il che la rende più accettabile, ma anche meno efficace.

In ogni caso, il PSC dovrebbe essere certamente riformato. Esso è necessario per contenere i rischi di insolvenza degli Stati, ma anche per garantire la “qualità” del nostro debito pubblico (cioè ridurre gli interessi che paghiamo). Tuttavia, deve essere basato su obiettivi realistici, essere semplice e non dovrebbe ostacolare la crescita. Imporre obiettivi eccessivamente ambiziosi per i criteri di convergenza fiscale è controproducente. Infatti, il PSC non è stato mai rispettato alla lettera ed è stato violato anche da altri paesi. Ciò si deve a un misto di cause: mancanza di realismo e anche debolezza politica dei governi, che spesso mancano di visione e sono incapaci di resistere alle pressioni sociali anche nelle fasi espansive del ciclo. Per quanto riguarda il realismo, occorre riconoscere che l’obiettivo di un debito al 60% del PIL non è raggiungibile e, probabilmente, non è neanche un obiettivo desiderabile. Quindi il rientro dal debito (indubbiamente troppo elevato) deve essere fatto con maggiore gradualità e verso livelli più tollerabili. Probabilmente non uniformi ma condizionali alla situazione di ogni paese. La revisione dei parametri di Maastricht richiede, tuttavia, l’unanimità di consensi, mentre sembra più semplice allungare i tempi della convergenza. Per quanto riguarda la semplicità, occorre rivedere il criterio del deficit strutturale e i criteri di definizione dell’output gap. Queste misure sono state introdotte con intenzioni lodevoli: consentire ai paesi di derogare dai vincoli in recessione. Alcuni hanno proposto di passare a semplici vincoli di spesa sul medio-lungo periodo, consentendo scostamenti temporanei e cercando di riconoscere le situazioni in cui gli scostamenti sono dovuti a cause che non sono sotto il controllo dei governi.

Nel mese di luglio di quest’anno, la BCE ha completato il processo di revisione della strategia di politica monetaria dell’Eurosistema, introducendo un obiettivo simmetrico sul tasso d’inflazione e manifestando forte attenzione per le implicazioni dei cambiamenti climatici, della digitalizzazione e della globalizzazione sulla politica monetaria. Come leggete questi cambiamenti alla luce del complesso quadro macroeconomico attuale?

Pietro Reichlin

Li leggo molto favorevolmente. La politica monetaria della BCE è progressivamente diventata più espansiva, e questo può favorire i paesi debitori. Il riconoscimento dei cambiamenti climatici come fonte di nuovi rischi mi sembra importante, anche se occorre sempre ricordare che la BCE rimane un’istituzione non politica, di tecnocrati, la cui legittimità deriva dalla neutralità dei suoi interventi. E’ un terreno scivoloso, perché la politica monetaria ha sempre effetti distributivi, ma la BCE non risponde agli elettori. Quindi le questioni legate ai cambiamenti climatici che possono interessare la BCE non devono riguardare il quanto e il come della transizione verde. Per quanto riguarda la digitalizzazione, è chiaro che questo processo porta a un cambiamento dell’efficacia della trasmissione monetaria, perché, in principio, può limitare il ruolo delle banche.

Francesco Saraceno

Fin dalla fine degli anni Novanta molti economisti hanno sottolineato come la strategia della BCE di perseguire un obiettivo di inflazione “vicina ma al di sotto del 2%” fosse strutturalmente deflattiva: la politica monetaria era sempre pronta a frenare ad ogni segno di surriscaldamento, ma molto meno reattiva in caso di rallentamento. L’adozione di un obiettivo simmetrico dovrebbe contribuire, insieme alla nuova consapevolezza dell’importanza di coordinare le politiche monetaria e di bilancio, ad eliminare o almeno a ridurre questo bias deflazionistico.

Anche l’annunciata intenzione di sostenere la transizione ecologica e digitale abbandonando la neutralità di mercato (l’esclusiva attenzione alla stabilità dei prezzi e alla sostenibilità finanziaria nell’orientare i programmi di acquisto di titoli) deve essere accolta con favore. Tuttavia, occorre che la Bce faccia attenzione nel definire le modalità di intervento: il rischio è che si dia degli obiettivi che dipendono da molti fattori indipendenti dalla sua azione e che essa non è in grado di controllare. Questo rischia di danneggiare la sua credibilità e di rendere più difficile il chiamarla a render conto delle sue azioni.

Qual è la vostra opinione sulla questione del salario minimo a livello europeo e sul coinvolgimento delle istituzioni europee sul tema del reddito minimo garantito?

Francesco Saraceno

Gli scarti salariali sempre più importanti, tra i paesi europei come all’interno di essi, pongono in primo luogo un problema ormai ineludibile di giustizia sociale; in secondo luogo, un problema di deflazione interna nel (vano) tentativo di recuperare competitività; infine, un problema di compressione dei redditi e quindi della domanda interna, che rende più fragile e dipendente dalla congiuntura mondiale la crescita.

Per tutte queste ragioni, legate tra loro, un coordinamento delle politiche salariali a livello europeo appare non solo legittimo, ma soprattutto necessario. La direttiva sul salario minimo recentemente approvata dal Parlamento europeo costituisce principalmente un invito ai paesi europei ad adeguare i salari minimi (che esistono n 21 paesi su 27) a certi standard uguali per tutti, con l’obiettivo di definire criteri comuni per salari equi e standard di vita decenti. È importante sottolineare che la discussione sul salario minimo non prevede un salario minimo uguale per tutti i paesi, ma lo definisce in proporzione al livello delle retribuzioni di ogni paese: almeno il 50% del salario medio e il 60% del salario mediano del paese in questione (oggi in soli quattro paesi è così). In assenza di salario minimo, la direttiva invita a sviluppare la contrattazione collettiva che tende a sostenere i salari meno elevati. Si tratta di un tentativo di indirizzo, non prescrittivo, che riconosce la competenza degli Stati membri in ambito di materie sociali e mercati del lavoro.

Se dal punto di vista della giustizia sociale il ruolo di salari minimi europei è evidente, i benefici si farebbero sentire anche dal punto di vista della stabilità macroeconomica. Che sia tramite l’adeguamento dei salari minimi o tramite l’estensione della contrattazione collettiva, l’aumento generalizzato delle remunerazioni meno elevate consentirebbe di ostacolare la corsa alle svalutazioni competitive che in un’unione monetaria in assenza di tassi di cambio non può che venire dalla compressione di prezzi e salari. La ricerca della competitività dovrebbe farsi sulla qualità, sull’innovazione, sulla produttività, e non sulla compressione dei costi salariali. Salari più alti, inoltre, consentirebbero di sostenere la domanda interna e mantenere le economie europee su un sentiero di crescita equilibrato e non dipendente dalle esportazioni.

Pietro Reichlin

Il salario minimo è una misura importante (a livello nazionale) per cercare di eliminare il fenomeno dei lavoratori poveri e l’eccesso di potere contrattuale delle imprese in alcuni mercati. Ma occorre fare molta attenzione. L’UE è un’area economica molto eterogenea, con salari orari molto diversi e una forte diversità del costo della vita. Un salario minimo “accettabile” per la Svezia sarebbe probabilmente molto superiore al salario mediano della Grecia o delle regioni del Mezzogiorno d’Italia. Adeguarsi agli standard del Nord Europa rischia di creare un deserto industriale nell’Europa mediterranea, o una fuga verso il lavoro nero. Attualmente, anche escludendo il Lussemburgo e i paesi dell’Est-Europa, il salario minimo più basso nell’UE è circa pari al 43% di quello più alto. Quindi, io sono favorevole all’introduzione di un salario minimo nazionale piuttosto che europeo, che rifletta le condizioni economiche locali. Per quanto riguarda il reddito minimo garantito, sono nettamente contrario a questa idea sia a livello europeo che nazionale. Trovo che sia una misura eccessivamente costosa e fondamentalmente iniqua (perché non condizionata alle reali esigenze degli individui, alla loro condizione) che potrebbe destabilizzare il nostro sistema di protezione sociale.

 

 

 

 

 

 

Schede e storico autori