Dialogo sopra i due massimi sistemi (economici) del mondo

Francesco Farina legge alcuni libri recenti alla luce della domanda: come emendare i sistemi capitalistici dai limiti (ormai molto evidenti) dell’approccio dominante? Salvati e Gilmore ritengono sufficiente passare dal “liberalismo senza vincoli” a quello “ inclusivo”. Gallegati individua le radici del neoliberismo nell’impianto ingannevole del modello teorico dell'economia. Boitani indaga le vie attraverso cui il libero mercato crea diseguaglianza. Infine, lo stesso Farina sostiene che occorre incentrare l'analisi non sul PIL aggregato ma sulla distribuzione del reddito, avendo come obiettivo non il benessere sociale ma la coesione sociale.

Un secolo fa c’erano due visioni del mondo che si chiamavano liberale e socialista. Oggi ritornano a confrontarsi su una scena molto mutata. Cercherò di comparare alcuni libri di economia pubblicati quest’anno, valutandoli alla luce di una domanda che mi pare “imparziale” rispetto alla loro diversa collocazione ideologica: come si possono emendare i sistemi capitalistici dai limiti (ormai molto evidenti) dell’approccio dominante, il neoliberismo? Va ammesso, non si tratta di una domanda di poco conto. Fino ai fatidici anni ’80 del secolo scorso, una domanda sui “massimi sistemi” sarebbe stata considerata o come “poco scientifica”, o inutilmente escatologica, al limite della fatuità. I tempi complicati che viviamo non ci consentono più di rifuggire dal porcela.

Nel loro libro, Liberalismo inclusivo. Un futuro possibile per il nostro angolo di mondo (Feltrinelli, 2021), Michele Salvati e Norberto Gilmore (pseudonimo di un alto funzionario) espongono una proposta politica rivolta a superare il “liberalismo senza vincoli” (unfettered) per passare al “liberalismo inclusivo” (calato, embedded, nella società). In un’appassionata perorazione a difesa del liberalismo, gli autori sostengono che la crisi finanziaria del 2008, e l’insufficiente risposta alla crisi pandemica, non avrebbero svelato i limiti del liberalismo, ma piuttosto rafforzato la necessità di fare fronte all’”accrescimento delle diseguaglianze (…), dinamica che è in parte il risultato dei processi di globalizzazione, in parte è dovuta alla perdita di potere contrattuale dei sindacati, in parte è il frutto dell’innovazione tecnologica (…)” (p.97). Nell’Introduzione, Salvati e Gilmore dichiarano di non voler fondere liberalismo e socialdemocrazia: “L’espressione ‘liberalismo inclusivo’ si riferisce (…) al compromesso fra aspetti socialisti e liberali, visto però dall’interno del pensiero liberale (corsivo degli autori)” (p.16). Leggere tutto il dibattito politico degli ultimi due secoli in base all’idea di un “contratto sociale fra liberi e eguali” significa di fatto indebolire, fino alla negazione, una potente categoria interpretativa del capitalismo – il “conflitto sociale” – che un grande pensatore liberale come Ralph Dahrendorf non aveva paura di porre al centro dell’analisi delle moderne democrazie.

Nel libro si sente la mancanza di una articolata analisi dei ceti che dovrebbero sostenere nel discorso pubblico – e nelle urne – il nuovo “compromesso democratico” proposto dagli autori (en passant, va detto che con quest’espressione Adam Przeworski si riferì all’alleanza “progressista” fra classe media e ceti popolari nel corso dei Trente Glorieuses). Gli autori osservano: “Invece di prendere atto che la crisi finanziaria globale mina alle fondamenta l’egemonia neoliberista (…) una parte consistente della socialdemocrazia europea, in particolare nel Centro e nel Nord Europa, tratta la Grande Recessione come una sorta di crisi ciclica, solo un po’ più profonda (p.82)”. Non è certo difficile concordare con questo giudizio: i governi europei – accettando l’austerità, termine che però nel libro non compare mai – hanno fattivamente e colpevolmente contribuito alla sopravvivenza del “liberalismo senza vincoli”.

Tuttavia, nella narrativa degli autori sembra quasi che l’unfettered liberalism non abbia avuto padri. Sono stati gli imprenditori e la finanza ad imporre ai governi la svolta verso politiche che hanno finito per abbattere la quota dei salari sul reddito nazionale e divaricato le retribuzioni fra top incomes e lavoratori low-skill precipitati verso la povertà. I ceti conservatori vengono chiamati in causa soltanto nei capitoli conclusivi, nei quali si delinea la costruzione del “liberalismo inclusivo”. Salvati e Gilmore si dichiarano a favore di politiche anti-trust e di accordi internazionali che riducano l’attrazione degli operatori finanziari per i “paradisi fiscali”.

Al contempo, però, gli autori mettono ben in guardia i partiti progressisti europei dall’elaborare piattaforme di politica economica troppo “avanzate”, a cominciare dalla tassazione della ricchezza. Le proposte del penultimo volume di Piketty, Capital et idéologie, vengono respinte: agli autori appare infatti “sorprendente” il “disdegno di Piketty” per “le ripercussioni” di una riforma dei diritti di proprietà (p.100). Pur riconoscendo che “la mobilità sociale si è indubbiamente ridotta” (p.104), gli autori ritengono improponibile una riedizione della democrazia economica dei Trente Glorieuses. Viene allora da chiedersi: dov’è il carattere inclusivo del “liberalismo inclusivo”? Non sarà che il Leviatano da cui dobbiamo difenderci non è lo Stato, ma piuttosto il capitalismo selvaggio, il neoliberismo ancora tutto da superare?

Per le idee in cui si crede, si tende spesso a rivendicare l’”oggettività” come sicuro attributo. In Salvati e Gilmore, la pretesa di oggettività per l’interpretazione dell’”accrescimento delle diseguaglianze” si sostanzia nell’opinione che la globalizzazione che ha divaricato la diseguaglianza fra Nord e Sud del mondo (a beneficio delle élite dei paesi avanzati), e l’incontrollato impatto del progresso tecnico su posti di lavoro e salario, non siano il frutto di poteri economici unfettered ma siano piovuti dal cielo sulla terra. La stessa aspirazione all’”oggettività” – questa volta, ”oggettività scientifica” – viene denunciata da Mauro Gallegati in una serrata critica del modello economico della teoria ortodossa. Il suo Il mercato rende liberi, e altre bugie del neoliberismo (Luiss University Press, 2021) smaschera gli inconsistenti presupposti teorici dell’approccio neoliberista: “L’economia mainstream pone al centro della sua indagine un individuo astratto, un atomo isolato, che esiste a parte degli altri e agisce indipendentemente da questi (…). L’ipotesi del massimo-minimo (costo e utilità) deriva dalla fisica classica ed è funzionale solo a ridurre il comportamento degli agenti a quello – senza strategie o apprendimento – degli atomi. L’uso di un espediente analitico debole e fuorviante come l’’agente rappresentativo’ “ha permesso di trasformare una scienza sociale come l’economia in una quantitativa” (pp.20-21). Mentre “la fisica classica crede nel principio olistico che il comportamento aggregato dei mercati può essere ricondotto a quello delle componenti elementari” (p.41), “nelle scienze sociali la questione è più complicata (…): il tipo di teoria economica che è noto al partecipante nell’economia ha un effetto sull’economia (Morgenstern, 1972) (p.42)”. Il modello di EEG presume che le domande e le offerte siano poste in equilibrio grazie alla “mano invisibile” dei movimenti dei prezzi. Nei mercati della realtà, invece, il sistema economico non converge per nulla all’equilibrio attraverso la flessibilità dei prezzi. Un’eterogenea moltitudine di agenti produce movimenti che non sono convergenti ma erratici, perché dovuti a una complessa dinamica endogena, invece che alla reazione razionale di agenti con capacità previsiva infinita a fenomeni o politiche esogene. I limiti dell’analisi di EEG discendono dall’avere ipotizzato la reciproca autonomia fra gli agenti, invece della loro interconnessione, soltanto dalla quale può discendere un’analisi verosimile e convincente del mercato.

Andrea Boitani (L’illusione liberista. Critica dell’ideologia di mercato, Laterza, 2021) e Francesco Farina (Lo Stato sociale. Storia, politica, economia, Luiss University Press, 2021) restituiscono all’unfettered liberalism il nome che economisti come Sen, Stiglitz e Krugman, gli hanno dato: neoliberismo. È questa visione ad avere ispirato due pilastri del “paradigma dominante”: 1. l’”austerità”, avviata negli anni ’80 e ‘90 con la deregolamentazione del mercato del lavoro e il ridimensionamento del Welfare, e sfociata nell’idea che la ripresa dopo la crisi finanziaria – nonostante non lo Stato ma le banche l’avessero prodotta – avrebbe dovuto consistere nel taglio della spesa pubblica (secondo la teoria dell’”austerità espansiva”, al contrario di quanto pensava Keynes, occorre meno – non più – intervento pubblico). 2. la teoria dello “sgocciolamento” (il trickle-down): un abbassamento della tassazione, nell’avvantaggiare i ricchi, accelera l’attività di investimento, producendo una crescita del PIL che, nello “sgocciolare” verso tutti i membri della società, riduce le diseguaglianze.

Nessuno dei due esiti “di successo” previsti si è però avverato: una volta che ancora più austerità è stata messa al servizio dello “sgocciolamento”, la crisi si è aggravata. Boitani, che ha presentato il suo libro nell’ultimo Menabò, osserva che il teorema della ‘mano invisibile’ “ignora la distribuzione del reddito e della ricchezza cui gli esiti di mercato danno luogo” (p.9); inoltre, “siamo proprio sicuri che il ‘mercato del lavoro’, lasciato a se stesso, sia il regno della libertà per tutti in ogni luogo e in ogni tempo” (p.10). Il prezzo della “svolta neoliberista” è che la diseguaglianza, non venendo combattuta, si aggrava: “(t)anto maggiore la diseguaglianza (…) tanto più alto è il rischio, per chi si trova al di sotto di tale soglia, di cadere nella povertà assoluta” (p.74).

Il mio libro sullo Stato sociale prende le mosse non dal mercato ma dalla società. L’obiettivo è quello di allargare lo sguardo dell’economista all’enorme eterogeneità delle “circostanze” individuali, a partire dal contesto famigliare e sociale in cui si cresce. Le due cifre costitutive della realtà odierna sono l’individualismo (l’anima del liberalismo) e l’interdipendenza sistemica (ciascun soggetto, a causa della complessità delle interazioni sociali viene spesso esposto, senza sua responsabilità, ad esternalità negative procurate da altri). Affinché questi due cardini delle moderne società avanzate possano coesistere, la democrazia politica deve essere accompagnata dalla “mano visibile” dello Stato sociale. Il modello dell’EEG, pensato per il solo obiettivo dell’efficienza e non anche dell’equità, nell’ignorare la presenza del Welfare, risulta poco pregnante. L’analisi sviluppata nel volume spiega come all’obiettivo del massimo benessere vada sostituito quello della coesione sociale. La visione dell’economia ortodossa, fondata sul PIL aggregato, va superata ponendo al centro dell’analisi il contrasto delle diseguaglianze in tre fondamentali momenti del processo economico: prima del mercato (con la ridistribuzione della ricchezza e l’offerta gratuita dei beni meritori); nel mercato (con la regolamentazione dei mercati); e dopo il mercato (correggendo con la ridistribuzione del reddito la diseguaglianza che il mercato tende continuamente a ricreare).

Il problema di fondo è una “forma del gioco” del capitalismo che favorisce la tendenza del mercato a sottomettere a sé la società. A tale scopo, non basta sostituire – come fa Acemoglu – le istituzioni “estrattive” con quelle “inclusive”. Questo non risolve ad esempio uno dei problemi di fondo dell’attuale assetto del capitalismo, lo short-termism, il movente del profitto a breve termine che fa sì che il sistema delle imprese non si ponga il problema né della disoccupazione conseguente all’automazione, né delle crisi finanziarie favorite dal “fallimento del mercato” rappresentato dalle asimmetrie informative. Ad una “forma del gioco” orientata non ai bisogni della società ma agli interessi dei manager e degli operatori finanziari deve subentrare sia una governance dell’impresa rivolta al coinvolgimento dei lavoratori, sia la compartecipazione pubblico-privato negli investimenti innovativi, superando così il problema per l’impresa privata di una redditività che matura solo nel lungo termine. La tesi del libro è che il compito dello Stato sociale è promuovere l’eguaglianza di opportunità. Questo non vuol però soltanto dire una legislazione diretta a riconoscere diritti sociali sul piano formale, ma interventi profondi, a cominciare da una sanità pubblica e da una istruzione pubblica effettivamente rivolte a permettere ai ceti deboli di acquisire le capabilities teorizzate da Amartya Sen. Per restituire ai bisogni della società gli spazi occupati dal mercato con l’avvento del neoliberismo, lo Stato sociale deve ricorrere a politiche di “universalismo differenziato”: l’eguale diritto di tutti al benessere implica che i benefici siano più ampi per le persone più “svantaggiate”.

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