Di padre in figlio: il regresso generazionale secondo McKinsey

Eleonora Romano illustra la metodologia e presenta i principali risultati che emergono dal recente Rapporto McKinsey sulla caduta dei redditi e le crescenti disuguaglianze che hanno caratterizzato le economie avanzate negli ultimi decenni. Romano si sofferma in particolare su una tesi centrale del Rapporto, cioè che in molti paesi si è ormai affermata la tendenza del reddito dei figli a cadere al di sotto di quello dei padri, e sostiene che la metodologia utilizzata non è la più appropriata per sostenere questa tesi

La certezza che i figli avrebbero goduto di redditi superiori a quelli dei propri genitori ha accompagnato diverse generazioni, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra. Negli anni più recenti questa certezza ha iniziato a vacillare, al punto che si è giunti a parlare di “tradimento del futuro”. Il recente rapporto McKinsey (“Poorer than their parents? Flat or falling incomes in advanced economies”) si propone di fornire, con riferimento ai paesi avanzati, una stima di questo “tradimento” e più precisamente della quota di famiglie nelle quali i figli stanno peggio dei genitori. In questa Scheda presenterò i punti principali dello studio e,soprattutto, mi chiederò in che misura esso aiuti a comprendere quanti figli stiano peggio dei propri genitori.

Il rapporto McKinsey intende offrire un approccio alternativo all’analisi dell’evoluzione della disuguaglianza nelle economie avanzate negli ultimi due decenni, spostando l’attenzione dai cosiddetti top earners, cui sono stati dedicati molti studi, ai quantili della distribuzione dei redditi per i quali si rileva una stagnazione o riduzione confrontando i redditi di individui diversi che in epoche diverse si trovano nella stessa posizione sulla scala dei redditi (data una distribuzione di valori ordinati in modo non decrescente, il quantile è un valore che lascia al di sopra, o al di sotto, una determinata percentuale di valori; ad esempio, il primo decile è il quantile corrispondente al primo dei nove valori che dividono la distribuzione in dieci parti di frequenza uguale).In tal modo, è possibile stabilire, ad esempio,se un individuo che appartiene al secondo decile nel 2014, sia più povero o più ricco di un individuo che apparteneva al secondo decile nel 2005.Si potrebbe, così,analizzare cosa accade nel tempo lungo tutta la distribuzione dei redditi e confrontare non solo i diversi quantili di reddito in un dato momento ma anche gli stessi quantili in momenti diversi.

Più nello specifico, il rapporto propone tre approcci per lo studio dell’evoluzione dei redditi e delle disuguaglianze. Il primo consiste nell’analisi delle variazioni dei redditi corrispondenti ai diversi quantili (decili, quintili o percentili) negli ultimi due decenni in 25 paesi avanzati che hanno una popolazione di 800 milioni di abitanti e un PIL superiore al 50% di quello globale. La rilevazione è stata condotta, però in modo diretto soltanto in 6 di essi (Francia, Italia, Paesi Bassi, Svezia, Regno Unito, Stati Uniti); negli altri 19 i dati sono stati costruiti per estrapolazione. Il secondo approccio si riferisce all’analisi condotta su un dataset dettagliato di microdati disponibili per Francia, Italia e Stati Uniti (circa 350.000 individui in totale), che permette di distinguere le classi di reddito in base all’età e al livello di istruzione. Il terzo approccio, infine, riguarda lo studio delle percezioni soggettive dell’evoluzione dei redditi individuali, ottenute attraverso un’indagine che ha coinvolto circa 6.000 persone in Francia, Regno Unito e Stati Uniti.

Nell’ambito del primo approccio, i risultati suggeriscono che nel 2014 il 65-70% delle famiglie nelle 25 economie avanzate considerate si trovava in quantili di reddito per i quali il reddito reale di mercato (da lavoro e da capitale) era rimasto uguale o era diminuito rispetto a quello del 2005. In altre parole, più della metà delle famiglie nel 2014 guadagnava un reddito uguale o addirittura inferiore rispetto a quello di famiglie simili (nel senso di trovarsi nello stesso quantile) nel 2005. Questa percentuale risulta particolarmente alta se confrontata con il corrispondente dato nel periodo 1995-2003, che era pari al 2%. In termini di redditi disponibili, la stagnazione/riduzione registrata per il 2014 rispetto al 2005 risulta attenuata; infatti,la percentuale di famiglie interessate dal fenomeno è pari al 20-25%. Guardando ai singoli paesi, ad un estremo c’è l’Italia, con redditi in caduta per il 97% delle famiglie, e all’estremo opposto c’è la Svezia,dove la corrispondente percentuale è il 20%. La variabilità tra paesi è ancora più alta nel caso dei redditi disponibili, come conseguenza della diversità nelle istituzioni che regolano il mercato del lavoro e delle diverse politiche adottate in risposta alla crisi. Nello specifico, l’intervallo di variazione della percentuale di quantili di reddito che hanno registrato una caduta o una stagnazione tra il 2005 e il 2016 presenta all’estremo superiore l’Italia (100%) e all’estremo inferiore la Svezia, affiancata dagli Stati Uniti (meno del 2%).

Il secondo approccio seguito nel rapporto McKinsey ha confermato una caduta generalizzata dei redditi da lavoro lungo tutta la distribuzione dei redditi tra il 2002 e il 2012, ma ha consentito di portare alla luce i segmenti della popolazione più vulnerabili, differenziando in base all’età e al livello di istruzione. In particolare,in tutti e tre i paesi considerati è emerso che i lavoratori meno istruiti, soprattutto quando più giovani, sono stati quelli maggiormente colpiti dalla caduta dei redditi. In effetti, la recessione e la lenta ripresa che hanno caratterizzato gli anni post crisi hanno prodotto alti livelli di disoccupazione giovanile.

Con il terzo approccio, la ricerca McKinsey ha tentato infine di stabilire se vi siano connessioni tra le percezioni relative all’evoluzione dei redditi familiari e i redditi effettivi delle famiglie. Gli individui intervistati sono stati chiamati ad esprimersi sulla propria posizione finanziaria corrente rispetto a quella passata, a quella dei loro amici o vicini e a quella dei propri genitori (alla stessa età). Inoltre, essi hanno fornito informazioni relative alle proprie aspettative per il futuro e sulla loro visione del commercio internazionale e dell’immigrazione. Nonostante la variabilità tra paesi, i risultati dell’indagine suggeriscono un’equa distribuzione tra coloro che ritengono che i propri redditi non siano aumentati rispetto al passato e coloro che ritengono il contrario (30-40%). Come prevedibile, chi ritiene che i propri redditi si siano ridotti mostra un atteggiamento verso il futuro più pessimistico. Inoltre, le aspettative sul futuro sembrano condizionare la visione del mondo degli individui. In particolare, un’aspettativa negativa sul futuro si associa generalmente con una visione negativa del commercio e dell’immigrazione, vale a dire con posizioni nazionaliste e di chiusura verso gli scambi commerciali e l’integrazione degli stranieri.

Con riferimento alle spiegazioni dell’evidenza empirica emersa nelle analisi condotte, il rapporto McKinsey mette in luce, oltre al grande impatto della recessione che ha fatto seguito alla crisi globale iniziata nel 2008, alcuni fattori di lungo periodo relativi all’evoluzione demografica e agli sviluppi del mercato del lavoro. In generale, la crisi finanziaria globale del 2008 ha portato ad una contrazione del PIL, con conseguente aumento della disoccupazione, un rallentamento della crescita della produttività ed una riduzione del reddito mediano. In questo contesto, la crescita dei redditi delle famiglie è stata ostacolata anche da alcuni cambiamenti demografici di lungo periodo, quali la riduzione della dimensione del nucleo familiare e del numero di adulti in età lavorativa che lo compongono, conseguenze a loro volta dei cambiamenti nella struttura familiare e dei bassi tassi di fertilità.

Per quanto riguarda il mercato del lavoro, la dinamica decrescente dei redditi delle famiglie è invece da ricollegare alla riduzione della quota dei salari sul reddito complessivo connessa al progressivo scollamento tra produttività e salari.Per quanto riguarda la distribuzione diseguale della quota salari tra i diversi quantili di reddito, gli autori del rapporto McKinsey fanno riferimento alle spiegazioni delle disuguaglianza che hanno dominato la letteratura negli ultimi decenni. In primo luogo, alla crescente domanda di lavoratori skilled a scapito dei lavoratori low-skilled indotta dalla rivoluzione tecnologica, che ha condotto a salari più alti per i primi (skill-biasedtecnicalchange). In secondo luogo, si richiama la più recente tendenza alla polarizzazione, ovvero alla riduzione dei salari dei lavoratori con qualifiche medie (meno richiesti perché sostituiti dalle tecnologie informatiche) affiancata da un aumento dei salari dei lavoratori ad alta qualifica e da una sostanziale costanza nei livelli dei salari dei lavoratori a bassa qualifica. Come ulteriore elemento, si ricorda l’impatto che la diffusione di tipologie contrattuali part-time, temporanee e sempre più flessibili può avere in termini di diseguaglianze tra i lavoratori.Infine, nel Rapporto si sottolinea il ruolo determinante di tasse e trasferimenti nell’arginare o addirittura contrastare la tendenza alla stagnazione o riduzione dei redditi di mercato in alcune economie avanzate tra il 2005 e il 2014 (in particolare Stati Uniti, Francia, Regno Unito).

Le indicazioni di policy sono dichiaratamente finalizzate a stimolare la discussione piuttosto che a fornire soluzioni definitive. In particolare, si suggerisce di adottare misure volte al miglioramento del business environment per l’adozione delle best practices esistenti e di innovazioni che consentano di stimolare la crescita economica e si richiama l’attenzione sulla necessità di introdurre misure a favore degli individui maggiormente colpiti dalla caduta dei redditi di mercato (lavoratori low-skilled, anziani, donne), anche attraverso la definizione di misure fiscali e politiche di welfare. Da ultimo, si sottolinea anche il ruolo fondamentale del settore privato nel creare occupazione e nel promuovere sinergie con il settore pubblico al fine di trovare soluzioni al problema della caduta dei redditi e all’acuirsi delle disuguaglianze.

Nelle conclusioni , basandosi su questa ricca analisi, si manifesta preoccupazione per il futuro delle giovani generazioni,in particolar modo nel nostro paese. Occorre tuttavia ricordare che le conclusioni sull’andamento dei redditi dei figli rispetto a quelle dei padri sono ottenute analizzando l’evoluzione dei quantili di reddito nel tempo e non dei redditi dei singoli individui. Non si tratta, quindi, di uno studio longitudinale che consentirebbe di esaminare con più precisione le variazioni intergenerazionali (quelle effettive tra padri e figli) nei livelli di reddito e il grado di mobilità sociale. Sotto questo specifico e molto rilevante aspetto i risultati del rapporto devono essere accolti con estrema cautela, più di quanta sembrano averne i suoi autori.Inoltre, potrebbe essere interessante estendere l’oggetto dello studio proposto ad altre dimensioni del benessere degli individui, inserendo il problema nel più ampio quadro del well-being multidimensionale e analizzando la correlazione delle dimensioni non monetarie del benessere con il reddito, al fine di mettere in luce l’eventuale esistenza di meccanismi di compensazione. Si pensi ad esempio ai servizi non monetari (in-kind benefits), alle relazioni sociali, al tempo libero, alla qualità dell’ambiente. Tale più ampia visione potrebbe consentire una più completa valutazione di quanto il contesto attuale sia più o meno favorevole rispetto a quello che ha accolto le generazioni precedenti.

 

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