Di fragile costituzione: riflessioni sullo stato attuale dell’Unione Monetaria Europea in una prospettiva storica

Paolo Paesani ricorda che spesso le unioni monetarie nascono come soluzione a un problema contingente che coinvolge nazioni diverse, integrate sul piano commerciale e finanziario. Per questo, sostiene Paesani, i benefici dell’unione monetaria sono immediatamente percepiti, diversamente dai suoi costi. Si può così determinare un’indebita accelerazione nel processo di creazione dell’unione monetaria e ciò contribuisce a spiegare perchè gli avvertimenti sulle fragilità strutturali dell’UME siano stati ignorati, fino a giungere all’attuale crisi.

L’ottimismo che aveva accompagnato i primi anni dell’Unione Monetaria Europea si sta dissolvendo rapidamente. La crescita stentata, la disoccupazione, l’instabilità finanziaria, i timori di deflazione minano la fiducia di molti cittadini nei confronti dell’euro. La vicenda greca, e l’acrimonia che la accompagna, sono segnali eclatanti di una crisi profonda su cui è utile riflettere in prospettiva storica.

In un saggio pubblicato nel 2007, Paul De Grauwe, economista tra i più esperti di questioni monetarie europee, metteva in guardia  contro il rischio che all’interno dell’UME si generassero forze centrifughe capaci di minarne le fondamenta. Nel lungo periodo, l’ampliamento e l’integrazione dei mercati, favorite dalla moneta unica, promuovono, a loro volta, l’agglomerazione delle attività produttive attraverso lo sfruttamento di economie di scala e di scopo. Le attività economiche si concentrano in alcune regioni dell’unione e ne abbandonano altre. Ciò determina squilibri crescenti, in termini di reddito e occupazione, e potenziali conflitti. Alcune parti dell’unione restano indietro, compare il dualismo strutturale tra regioni, all’interno della stessa nazione e tra nazioni all’interno dell’unione. La mobilità della forza lavoro, gli investimenti, la redistribuzione delle risorse all’interno dell’area (ad esempio la politica dei fondi strutturali), il progresso tecnologico (componente crescente dei servizi nelle nuove tecnologie), l’ammodernamento delle economie più arretrate interne all’unione attenuano gli squilibri di lungo periodo, senza necessariamente risolverli.

Un secondo meccanismo che può minare dall’interno la tenuta di un’unione monetaria è legato ai flussi di capitale a breve termine. L’unificazione valutaria comporta la scomparsa del rischio di cambio, l’integrazione dei mercati finanziari nazionali, la convergenza dei tassi d’interesse. I capitali si spostano verso le regioni più dinamiche dell’unione, alla ricerca dei rendimenti elevati. L’afflusso di capitali spinge verso l’alto il prezzo delle attività reali e finanziarie, favorendo il surriscaldamento dell’economia, senza che la politica monetaria comune a tutta l’unione possa intervenire a correggere lo squilibrio. Il paese che riceve capitali dall’estero vede aumentare il suo tasso di crescita di pari passo con la sua fragilità finanziaria. Il cambio reale si apprezza e la competitività diminuisce. Giunto al culmine dell’espansione, il ciclo finanziario s’inverte. I prezzi delle attività, cresciuti rapidamente, si riducono bruscamente, con perdite ingenti per gli acquirenti nazionali e stranieri. La crescita cede il posto alla recessione, la disoccupazione aumenta, l’inflazione si attenua. Una regolamentazione adeguata del sistema bancario e finanziario e la creazione di meccanismi di ripartizione del rischio all’interno dell’unione e di forme concrete e efficaci di coordinamento della politica economica costituiscono i rimedi migliori contro questa evenienza.

Leggendo oggi gli avvertimenti lanciati da De Grauwe (e da altri, tra cui Charles Wyplosz) non si può fare a meno di porsi alcune domande. Se i rischi d’implosione dell’UME erano noti ben prima che la crisi si manifestasse perché le autorità europee non sono intervenute a disinnescarli per tempo? Perché i governi spagnolo, irlandese, lettone (tanto per citare alcuni esempi) non sono intervenuti a frenare l’espansione incontrollata dei rispettivi settori immobiliare e creditizio, la cui implosione ha precipitato quelle economie nel caos? Perché la Grecia ha deciso di entrare nell’UME nonostante il suo evidente deficit di competitività? E perché nessuno ha sollevato obiezioni? Perché le banche tedesche e francesi hanno continuato a acquistare i titoli emessi dai paesi dell’Europa meridionale, accontentandosi di un rendimento di poco superiore a quello dei titoli emessi nei propri paesi, nonostante i rischi evidenti. Perché le autorità europee hanno consentito l’accumulazione di squilibri crescenti all’interno dell’area dell’euro?

Rispondere in maniera compiuta a questi interrogativi richiederebbe molto più spazio di quanto queste brevi riflessioni consentano. Per questo, mi limiterò ad alcune osservazioni generali sulla fragilità strutturale delle unioni monetarie tra paesi sovrani con la speranza che siano utili per rispondere agli interrogativi testé sollevati. Nell’affrontare questo compito, confronterò l’attuale esperienza dell’UME con quella di alcune unioni monetarie del passato, utilizzando come riferimento una raccolta di studi sull’integrazione monetaria europea pubblicata nel 2007 a cura di Philip L. Cottrell, Gérassismos Notaras e Gabriel Tortella, per i tipi dell’editore inglese Ashgate, con il titolo “Dalla Tetradracma ateniese all’Euro”.

Come suggerisce il titolo della raccolta, le regioni e le nazioni d’Europa hanno sperimentato forme diverse di unificazione monetaria fin dagli albori della loro storia. Limitandoci agli ultimi duecento anni possiamo citare, a questo proposito: l’Unione Monetaria Tedesca, inaugurata nel 1837 a complemento dello Zollverein; l’Unione Monetaria Latina, costituita da Francia, Italia, Svizzera e Belgio nel 1865 e sciolta nel 1927; l’Unione Monetaria Scandinava, costituita da Svezia, Danimarca e Norvegia fra il 1872 e il 1914; il Sistema Monetario Europeo (SME) in vigore tra il 1979 e l’avvio dell’UME. Sullo sfondo, il Gold Standard internazionale, fondato sulla sterlina inglese e sull’egemonia britannica, e il Gold Exchange Standard creato a Bretton Woods nel 1944, sotto l’egida del dollaro e degli Stati Uniti. Dal confronto fra questi episodi e l’UME, che rappresenta comunque un unicum nel suo genere, emergono alcune considerazioni utili a comprendere lo stato attuale dell’integrazione monetaria europea e la sua fragilità strutturale.

L’approccio tradizionale all’analisi delle unioni valutarie si fonda sul confronto tra i benefici e i costi che un paese sostiene nel momento in cui decide di rinunciare alla propria sovranità monetaria in favore dell’integrazione con altri paesi. Come ricorda, fra gli altri, Giorgio Rodano (G. Rodano “Uscire dall’euro si può? E’ auspicabile?”), i costi principali derivanti dall’adesione a un’unione monetaria riguardano la perdita dell’autonomia nella gestione della politica monetaria e la perdita dello strumento del cambio. La politica monetaria viene affidata alla banca centrale dell’unione ed è esercitata nell’interesse comune. Il tasso di cambio tra la valuta dell’unione e le altre è fisso o flessibile, ma in ogni caso al di fuori della disponibilità dei singoli paesi. A questi costi se ne aggiungono altri, legati agli aspetti materiali dell’unificazione monetaria (ad esempio, unificazione della monetazione, sostituzione delle valute nazionali con la valuta comune) e all’aggiustamento preventivo da parte dei paesi aderenti.

Tra i vantaggi, possiamo elencare la riduzione dei costi di transazione (ad esempio, i costi di acquisto delle valute estere), che favorisce la trasparenza del sistema dei prezzi e l’integrazione dei mercati, la riduzione dell’incertezza degli scambi, con annessa riduzione dei costi di copertura dal rischio di cambio, la riduzione dei tassi d’interesse nominali e reali (che stimola investimenti e consumi), l’internalizzazione e l’allargamento dello spazio degli scambi (per ogni paese molte transazioni con l’estero diventano transazioni interne con un generale allentamento del vincolo esterno) e la centralizzazione delle riserve valutarie e della loro gestione.

Al di là di questo elenco e dell’analisi dei fattori che aumentano le probabilità di tenuta di un’unione monetaria (mobilità dei fattori, flessibilità dei prezzi e dei salari, diversificazione della struttura economica dei paesi membri, uniformità dei cicli economici, compatibilità delle preferenze e delle istituzioni, coordinamento delle politiche fiscali), è importante sottolineare due aspetti che contribuiscono a spiegare la fragilità strutturale delle unioni monetarie tra paesi sovrani.

Spesso le unioni monetarie di questo genere nascono come soluzione a un problema contingente che riguarda nazioni diverse, integrate sul piano commerciale e finanziario: l’incompatibilità fra unificazione doganale e disordine monetario nel caso dell’Unione Monetaria Tedesca, il problema del prezzo crescente dell’argento (in termini di oro) nel caso dell’Unione Monetaria Latina, l’esigenza di uniformare la monetazione, distanziandosi (per motivi geopolitici) dai modelli monetari inglese, francese e tedesco, nel caso dell’unione Monetaria Scandinava, l’esigenza di creare uno spazio europeo di stabilità nella temperie valutaria degli anni Settanta nel caso dello SME, l’esigenza di riequilibrare i rapporti di forza all’interno dell’Unione Europea, arginando il potere economico di una Germania riunificata, nel caso dell’UME.

La possibilità di risolvere un problema pressante, attraverso la costituzione di un’unione monetaria, contribuisce a far sì che i benefici siano percepiti prima e con più forza dei costi. Questo fatto, unito alla possibilità di sfruttare i vantaggi finanziari derivanti dell’integrazione monetaria (accesso facilitato ai mercati internazionali, tassi di interesse più bassi), può determinare un’accelerazione nel processo di creazione dell’unione monetaria, al di là della sua effettiva sostenibilità nel medio-lungo periodo, e una sua espansione eccessiva.

Motivi geopolitici, ragioni di prestigio internazionale, la percezione dei costi associati a una possibile esclusione, fiducia nella possibilità che l’adesione all’unione monetaria favorisca la soluzione di problemi interni di lunga durata (ad esempio, elevata inflazione, squilibri fiscali, arretratezza del sistema produttivo) agiscono nella stessa direzione, attirando verso l’unione nazioni via via sempre più deboli. L’esempio del Gold standard internazionale è emblematico a questo proposito (si veda il saggio di Pablo Martin-Acena nel volume prima citato).

Se l’unione monetaria si compie nel quadro di un’unione politica stabile è possibile che ciò non diventi un problema grazie all’introduzione di meccanismi di compensazione interni all’unione tra chi guadagna di più e chi resta indietro. Se però i paesi aderenti, conservando la propria sovranità, non si adattano rapidamente ai vincoli derivanti dalla partecipazione all’unione ecco apparire le forze centrifughe. Sono esempi in tale senso la mancanza di coordinamento fra le politiche monetarie dei paesi scandinavi durante la Prima guerra mondiale, l’inadeguatezza dello Stato italiano nell’affrontare i suoi problemi fiscali dopo l’unificazione, la riluttanza della Germania a rivalutare il marco e a far aumentare il livello dei prezzi tedeschi a seguito dell’unificazione nei primi anni 1990, il ritardo dei paesi periferici nell’introdurre riforme strutturali coerenti con una permanenza sostenibile all’interno dell’unione di riferimento.

Al momento di scrivere queste note, non è chiaro quale sarà il destino della Grecia e dell’intera Unione Monetaria Europea. La vicenda greca ha fatto emergere le linee di faglia e le debolezze strutturali di un processo di unificazione vittima del proprio successo iniziale. Che l’UME non funzioni è acclarato, che sopravviva a questi giorni convulsi dipenderà dai governi e delle istituzioni europee. Che le fate sagge, evocate da Keynes nel brindisi sul futuro di Bretton Woods, veglino sulle loro decisioni.

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