Dentro il lavoro: qualità del lavoro, pratiche organizzative e risultati d’impresa

Tiziana Canal e Valentina Gualtieri analizzano i dati provenienti dalla IV indagine sulla qualità del lavoro dell’Inapp rivolta ai datori di lavoro per verificare l’esistenza di una relazione tra pratiche organizzative partecipative, performance d’impresa e propensione all’innovazione. Canal e Gualtieri mostrano che l’adozione di modelli di organizzazione del lavoro che coinvolgono e valorizzano il lavoratore non garantisce soltanto una maggiore qualità del lavoro, ma presenta anche vantaggi per i datori di lavoro.

Assumere il lavoro come oggetto di studio impone di non limitare l’analisi alla sola quantificazione dei volumi occupazionali, ma rende necessaria la qualificazione del lavoro stesso, tramite l’esame di un concetto complesso, articolato e in rapida trasformazione. L’analisi dal lato della domanda di lavoro nella sua interezza deve occuparsi, allo stesso tempo, non solo di aspetti legati alle performance aziendali, ma anche dei processi e dei modelli organizzativi adottati per giungere ai risultati programmati.

La riduzione delle ore lavorate e la crescita dei livelli di disoccupazione registrata a partire dal 2009 – connessi alla crisi economica – ha, di fatto, indirizzato l’attenzione dell’analisi empirica sul lavoro a questioni legate al mercato e alla regolazione congiunturale dell’input di lavoro. Lo spettro analitico sull’offerta di lavoro si è ridotto quasi esclusivamente a considerare l’aumento della disoccupazione, o a esaminare solo alcune componenti che caratterizzano l’occupazione, quali il salario, le forme contrattuali e le ore lavorate, trascurando aspetti relativi alla qualità del lavoro. Parallelamente, gli studi sulla domanda di lavoro hanno considerato quasi esclusivamente indicatori che riguardano la demografia e la struttura delle imprese, il costo dei fattori e i risultati economici, trascurando analisi sui modelli organizzativi, che pur influiscono nella determinazione di sistemi efficienti.

Dopo quattro anni di ripresa della crescita e dell’occupazione, occorre integrare il campo di analisi, formulando domande di ricerca dirette non solo a comprendere quali strumenti adottare per aumentare il numero di occupati, ma volte a capire in che modo la qualità del lavoro e i modelli organizzativi adottati dalle imprese possano orientare l’intero sistema verso una crescita solida e strutturale.

In questo quadro, la domanda che ci si è posti è relativa alla verifica dell’esistenza di un legame tra specifici modelli organizzativi all’interno delle sedi di lavoro, da un lato, e risultati d’impresa e propensione all’innovazione dall’altro. I modelli di organizzazione del lavoro cui si fa riferimento sono relativi a pratiche che si caratterizzano per la valorizzazione e il coinvolgimento dei lavoratori, associate generalmente a livelli elevati di qualità del lavoro. La tesi alla base dello studio prevede che l’adozione di tali modelli (di seguito per brevità denominati POP, Pratiche Organizzative Partecipative) abbia ricadute positive in termini di performance dell’azienda e sia legata alla propensione delle imprese ad innovare.

La definizione dei modelli organizzativi partecipativi riguarda un insieme congiunto di pratiche che comportano una partecipazione dei lavoratori nella definizione del processo produttivo e delle strategie aziendali. In tale contesto l’attenzione viene spostata dal lavoro come fattore di produzione, al lavoratore, che diviene una vitale fonte di creatività. Si tratta nel complesso di comportamenti attuati dai datori di lavoro che prevedono un ruolo attivo dei lavoratori nei processi decisionali, un investimento sui lavoratori per aumentare il livello di competenze ed evitarne l’obsolescenza e un’attenzione nella valutazione dell’operato dei lavoratori che non guarda solo ai risultati raggiunti (fatturato o volume della produzione, utili, valore aggiunto, bilancio), ma anche alle prestazioni (competenze, comportamenti e modalità di svolgimento della prestazione). Tali pratiche sono associate, da un lato, alla garanzia di un lavoro dignitoso e, dall’altro, lasciano ipotizzare un investimento in capitale umano di largo respiro da parte dei datori, che utilizzano l’organizzazione aziendale partecipativa a supporto di risultati presenti e di prospettive future.

Di seguito, si presentano alcune evidenze ricavate dalla IV indagine Inapp sulla qualità del lavoro in Italia, realizzata nel 2015. La base informativa dal lato delle imprese si riferisce all’universo delle unità locali attive, operanti in tutti i settori dell’economia a esclusione del settore pubblico e di quello agricolo; sono esclusi anche gli imprenditori individuali, i liberi professionisti, i lavoratori autonomi e le unità locali senza addetti. Le informazioni ricavate dal questionario consentono di determinare se ciascuna unità locale adotti o meno pratiche organizzative partecipative, rilevando, nello specifico: i) se nell’unità locale sono effettuati incontri regolari tra i lavoratori e il loro superiore al fine di condividere le modalità di svolgimento del lavoro; ii) se vi è condivisione delle decisioni tra datori/responsabili e lavoratori; iii) se nella sede sono state realizzate nell’anno precedente iniziative di formazione per i lavoratori; iv) se nella sede la valutazione della performance dei lavoratori non è legata solamente ai risultati, ma anche alle modalità di svolgimento delle prestazioni.

Nel 2015 le unità locali di società di persone e di capitale, con almeno un dipendente, operanti nel settore privato extra agricolo erano circa 1 milione 800 mila. La composizione dimensionale conferma la marcata asimmetria verso le piccole e piccolissime unità: l’88,1% rientra nella classe con al massimo 10 addetti; il restante 11.9% è composto per il 10.2% da unità locali con 11-49 addetti, per l’1.5% da unità locali con 50-249 addetti e per il 0.2% da unità locali con 250 addetti o più. Riguardo alla dislocazione territoriale, in oltre il 54% dei casi, le unità locali si trovano nei territori del Nord (31.3% nel Nord-ovest e 23.5% nel Nord-est), il 22% opera nel Centro e il restante 23% nel Mezzogiorno. Poco meno della metà delle unità locali è attiva nel settore degli “altri servizi” (43.3%), a seguire nell’industria (29.0%) e nel commercio e turismo (27.7%). Il 19% delle unità locali esiste da meno di 8 anni, poco più un quarto ha un età compresa tra gli 8 e i 14 anni, mentre il 23% delle unità locali esiste da almeno 28 anni.

Poco più di un quarto delle unità locali attive nel 2015 (26.8%) adotta pratiche organizzative partecipative (Fig. 1); le unità locali POP sono presenti in misura maggiore nelle regioni del Nord (la quota sale al 30.2% nel Nord Est e al 28.8% nel Nord Ovest) e meno rappresentate nelle regioni del Mezzogiorno (dove l’incidenza scende al 22.3%). Si osserva, inoltre, un’associazione positiva fra l’adozione di pratiche organizzative e il numero di addetti dell’unità locale. Le unità locali POP sono relativamente meno diffuse nel settore del commercio e del turismo (22.0%) e più diffuse negli altri servizi (29.4%). Sono, infine, più numerose fra le unità locali “più giovani”.

Fig. 1 – Composizione delle unità locali secondo l’appartenenza alla categoria POP e per caratteristiche delle unità locali, Anno 2015 (%)

Fonte: elaborazioni su dati Inapp – IV indagine QDL (campione Unità Locali)

 

Gli indicatori sulle performance delle unità locali, in termini finanziari, di produttività del lavoro e in riferimento alla qualità dei prodotti e dei servizi, sono stati ricavati tramite specifiche domande presenti nel questionario. Al rispondente è stato chiesto di valutare i risultati dell’unità locale rispetto alle altre concorrenti, operanti nello stesso settore economico, in relazione, appunto, alla performance finanziaria, alla produttività del lavoro e alla qualità del prodotto, mediante un giudizio qualitativo del tipo “sopra, sotto o nella media”. Nel complesso la maggior parte delle unità locali risponde di avere risultati nella media. Tuttavia, tra le unità locali che si collocano sopra la media si registra una quota significativa di unità POP. Al contrario, le POP sono sottorappresentate tra le unità che mostrano valori degli indicatori di performance sotto la media (Fig. 2).

Fig. 2 – Composizione delle unità locali secondo l’appartenenza alla categoria POP e gli indicatori di performance. Anno 2015 (%)

Fonte: elaborazioni su dati Inapp – IV indagine QDL (campione Unità Locali)

 

Pur senza l’obiettivo di identificare una relazione causale, l’esistenza di un’associazione diretta tra UL POP e performance dell’unità locale è stata valutata mediante una serie di regressioni logistiche, che hanno confermato che, a parità di altre condizioni, le unità locali POP dichiarano con maggior probabilità, rispetto alle altre unità, di avere performance finanziarie, produttività del lavoro e qualità dei prodotti e dei servizi superiori rispetto alle imprese concorrenti dello stesso settore.

Le unità locali che mettono in atto pratiche organizzative partecipative sembrerebbero essere anche più attente all’innovazione rispetto alle restanti unità locali, perché in quota maggiore hanno introdotto nuove tecnologie, prodotti o servizi innovativi o fortemente modificati o cambiamenti sostanziali nel processo di produzione (Fig. 3). Considerando le unità locali POP, infatti, il 34.7% di queste ha dichiarato di aver introdotto nuove tecnologie nel biennio precedente l’intervista (contro il 19.0% delle unità locali non POP), il 35.7% ha dichiarato di avere introdotto prodotti o servizi nuovi o fortemente modificate (per le unità locali non POP il dato si attesta al 23.6%) e il 24.6% ha dichiarato di aver introdotto modifiche sostanziali nel processo di produzione (contro il 14.6% delle unità locali non POP).

 

Fig. 3 – Incidenza delle unità locali che mostrano una elevata attenzione all’innovazione come fattore di competitività per adozione di pratiche organizzative di partecipazione (POP) . Anno 2015 (%)

Fonte: elaborazioni su dati Inapp – IV indagine QDL (campione Unità Locali)

 

In conclusione, l’analisi ha consentito di verificare l’esistenza di una correlazione positiva tra l’utilizzo di specifiche pratiche di organizzazione del lavoro, migliori risultati d’impresa e propensione a innovare. Complessivamente, ciò che sembra emergere è un quadro in cui l’adozione di modelli organizzativi di coinvolgimento e valorizzazione dei lavoratori genera benefici – sia per i lavoratori che per i datori – e s’intreccia con processi d’innovazione tecnologica e gestionale. Tale quadro richiede ulteriori approfondimenti empirici e una particolare attenzione da parte dei policy maker.

Se negli anni passati numerosi provvedimenti hanno svolto un ruolo essenziale per superare lo shock della lunga congiuntura sfavorevole consentendo di contenere i livelli di disoccupazione, nella fase di ripresa per riattivare in modo virtuoso meccanismi di crescita e sviluppo sembrano necessarie misure di carattere strutturale, anche e soprattutto dal lato della domanda di lavoro, che scoraggino strategie di mero contenimento del costo del lavoro ‑riaffermando implicitamente il fallace trade off tra qualità del lavoro e risultati d’impresa–e che accompagnino le imprese in nuovi processi di sviluppo. Interventi sulle imprese in grado di incentivare pratiche organizzative partecipative, ispirate al paradigma di sviluppo proposto in passato da Adriano Olivetti, possono favorire la crescita dell’efficienza e della produttività, coniugando risultati d’impresa e qualità del lavoro.

Al riguardo sono quindi, auspicabili, oltre a politiche innovative già in atto, come ad esempio Industria 4.0, anche veri e propri incentivi e programmi di sostegno alle singole imprese, in termini di consulenza, formazione, knowledge management e assistenza tecnica, al fine di ridisegnare i luoghi e i rapporti di lavoro. D’altro canto, sono sempre più numerosi gli studi che analizzando la relazione fra capitale intellettuale, innovazione tecnologica e innovazione organizzativa evidenziano come investimento in innovazione e modelli produttivi più agili e partecipativi – grazie alla riduzione dei livelli gerarchici, al decentramento delle responsabilità e all’aumento della discrezionalità e dell’autonomia dei lavoratori, supportata da asset tecnologici – possano rappresentare un duplice vantaggio, per il lavoratore e per l’impresa, in una logica win-win.

Occorre, in conclusione, considerare il ruolo attivo sia delle imprese sia dei lavoratori, anche attraverso un maggiore consolidamento di un sistema innovativo di relazioni industriali, con azioni di policy che favoriscano un miglioramento dei luoghi e dei rapporti di lavoro, incidendo positivamente sul rapporto costo-opportunità lavoratori e datori, e non siano solo tese a ridurre i costi del lavoro e di produzione.

* Le opinioni espresse dalle autrici non riflettono necessariamente quelle dell’organizzazione di appartenenza.

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