Debito pubblico, BCE e UE: il presente (e il futuro) alla luce del passato – Seconda parte

Gianluigi Nocella completa l’analisi, iniziata sullo scorso numero del Menabò, dell’impatto che la gestione della crisi a livello europeo potrà avere sulla finanza pubblica. Nocella sostiene, in particolare, che il dibattito sugli strumenti da attivare a livello UE risente delle persistenti contrapposizioni Nord-Sud sulla condivisione del rischio, a loro volta riflesso della polarizzazione delle preferenze politiche nei diversi paesi, e dubita che il pacchetto di iniziative in discussione sarà adeguato alle proporzioni di questa crisi.

Nella prima parte di questo articolo abbiamo ragionato su alcune delle implicazioni dell’emergenza COVID-19 sulla finanza pubblica italiana, guardando in particolare all’evoluzione del debito pubblico e alla sua gestione nel breve e medio-termine. Gli interventi straordinari messi in atto dalla BCE stanno certamente avendo un ruolo importante, ma devono fare i conti con i limiti strumentali, statutari e politici che vincolano la politica monetaria, nell’Eurozona ben più significativamente che nelle altre economie avanzate. In questo contesto, una risposta “di bilancio” unitaria a livello europeo proporzionata all’entità della sfida sarebbe comunque un fattore molto importante. Tuttavia, essa passa necessariamente dalla creazione di strumenti di condivisione del rischio di dimensioni adeguate, non essendo omogenee né l’intensità dello shock né le condizioni economico-finanziarie in cui i diversi paesi membri si trovano ad affrontarlo; su questo secondo aspetto pesa l’approccio con cui è stata affrontata la Grande recessione, che nei fatti ha favorito un’ulteriore divergenza tra paesi centrali e periferici del continente, esasperando anche il confronto politico. Di questa esasperazione è figlio l’aspro confronto che si sta sviluppando proprio sugli strumenti comuni da adottare in questo passaggio storico, che riguarda esattamente il grado di condivisione del rischio determinato dalla loro attivazione, quindi le garanzie da fornire (in termini di condizioni da rispettare, quindi di vincoli alle politiche future) per accedervi.

Il dibattito italiano si è finora concentrato principalmente sulla linea di credito messa a disposizione dal Meccanismo europeo di stabilità (MES) per finanziare (a tassi molto contenuti) le spese sanitarie dirette e indirette determinate dall’emergenza. Eppure, date le attuali previsioni di ricorso al mercato (un fabbisogno intorno ai 200 miliardi nel 2020 e di ben oltre 100 nel 2021, da sommare al rinnovo del debito in scadenza in ciascun anno, che supera abbondantemente i 300 miliardi) l’importanza attribuita alle somme messe a disposizione dal MES (35 miliardi circa, per l’Italia) sembra francamente eccessiva, indipendentemente dalle condizioni (non di prezzo) per accedere al credito.

Tale strumento, infatti, costituendo comunque ulteriore debito per il paese beneficiario (peraltro concesso da un’istituzione multilaterale, che probabilmente sarebbe considerata un creditore privilegiato) limita i suoi benefici al risparmio che si presume consentirebbe in termini di spesa per interessi: rispetto ai tassi attuali, il costo della linea sarebbe più contenuto di circa l’1,5%, determinando un risparmio di circa 500 milioni l’anno ipotizzando un completo assorbimento delle risorse (il che presuppone, in base al criterio delle spese sanitarie “dirette e indirette”, che si individuino nei recenti interventi importi sufficienti).

Tuttavia, non si può escludere a priori un effetto stigma, soprattutto se l’Italia fosse l’unico paese (di dimensioni rilevanti) ad accedere alla linea e ad utilizzarla integralmente e in tempi rapidi: dati i livelli di ricorso al mercato attesi nei prossimi mesi, sarebbe sufficiente che tale effetto si limitasse a far crescere i nostri tassi di interesse dello 0,1% per compensare i benefici del ricorso al MES già in un anno.

Su quest’ultimo aspetto, alcuni commentatori – forse un po’ frettolosamente – hanno indicato in Cipro un “caso significativo” a dimostrazione del fatto che lo strumento in oggetto non darebbe origine ad alcun effetto stigma: a fine maggio, infatti, il governo cipriota ha annunciato l’intenzione di ricorrere alla nuova linea attivata dal MES e, ciononostante, negli stessi giorni (e nelle settimane successive), la curva dei rendimenti si è riavvicinata a quella tedesca, in particolare nella porzione a medio-lungo termine.

Un punto cruciale è, però, che il debito di Cipro – pari a circa il 100% del Pil – ammonta a poco più di 20 miliardi (più o meno l’ammontare raccolto con l’emissione di BTP-Italia realizzata in quello stesso frangente) e il calo dei rendimenti è iniziato prima dell’annuncio (seppur meno vistosamente, dal 10 maggio circa), anche grazie ad altri favorevoli fattori concomitanti (i passi in avanti sul Recovery fund, il miglioramento della situazione sanitaria e la graduale ripartenza delle attività nella gran parte d’Europa). Inoltre, il paese ha già ricevuto, nel recente passato, assistenza dal MES (per 6,3 miliardi, poco meno di un terzo del suo Pil 2019) e da altre istituzioni multilaterali (BEI e CEB): se è vero che il programma si è concluso nel 2016 (con le ultime erogazioni di risorse), non si può non tenere presente che sono già attivi (e lo sarebbero comunque rimasti fino alla totale estinzione del debito già contratto, nel 2031) gli stessi meccanismi di sorveglianza “speciale” (quali l’Early warnign system e l’ Enhanced Surveillance) che sono associati alla linea Pandemic crisis support. Infine, il debito cipriota a 10 anni in circolazione ammonta attualmente a circa 1 miliardo: in una fase in cui gli investitori istituzionali hanno molta liquidità a disposizione e i listini sono contraddistinti da una volatilità piuttosto marcata, basta davvero poco a determinare variazioni significative dei rendimenti (perciò degli spread) di titoli con un mercato così piccolo. In questo quadro, quindi, è davvero difficile definire “significativo” il caso di Cipro per inferire alcunché circa gli effetti di un ricorso al MES nel caso dell’Italia.

Anche il SURE e il fondo di garanzia BEI, per quanto benvenute, rappresentano iniziative di scarso impatto rispetto alle dimensioni del problema da affrontare e, trattandosi comunque di strumenti di debito (presumibilmente pubblico nel primo caso, privato nel secondo) garantiti da risorse nazionali, non aggiungono molto dal punto di vista della condivisione del rischio. Peraltro, i tempi tecnici per rendere operativi tali strumenti lasciano immaginare che le risorse non saranno disponibili a breve (soprattutto per quanto riguarda il SURE).

Un discorso diverso potrebbe riguardare il cosiddetto Recovery fund proposto dalla Commissione a fine maggio su impulso franco-tedesco, che prevede di integrare nel prossimo bilancio UE (2021-2027) somme per 750 miliardi destinate a favorire la ripresa, una parte importante delle quali consisterebbe in trasferimenti (433 miliardi, mentre la parte restante si articolerebbe in 67 miliardi di garanzie e 250 di prestiti). L’utilizzo di tali risorse sarebbe concordato con la Commissione attraverso la presentazione di un “piano per la ripresa e la resilienza”, contenente un programma di riforme da monitorare nel tempo e da rendere coerente con gli obiettivi macro-finanziari fissati nell’ambito del Semestre europeo. Va notato che, anche in questo caso, l’effettivo afflusso delle risorse provenienti dal bilancio UE potrebbe richiedere tempi piuttosto lunghi: la stessa Commissione prevede che il 75% circa delle risorse verrà erogato dopo il 2022. Inoltre, sebbene sia impossibile un calcolo attendibile ed esaustivo delle risorse che ciascun paese riceverà al netto dei contributi dovuti al bilancio UE, autorevoli osservatori hanno fatto notare che, in base alle informazioni disponibili, per l’Italia i trasferimenti netti potrebbero limitarsi a circa un punto di Pil, una cifra piuttosto esigua rispetto all’impatto dell’emergenza sull’economia italiana.

Va infine rilevato un punto molto importante: finora nulla è stato detto circa quello che sarà – una volta disattivata la general escape clause del PSC – il quadro di sorveglianza e coordinamento delle finanze pubbliche dell’UE in cui dovranno muoversi i paesi membri negli anni a venire, né come verrà gestita la normalizzazione di altre “eccezioni” attualmente concesse a livello comunitario (soprattutto per ciò che riguarda la regolamentazione macro-prudenziale del settore bancario e quella sulla concorrenza). Da quando è entrata a regime nel 2015, l’Italia non è mai riuscita a rispettare la cosiddetta regola del debito – che, partendo da un livello prossimo al 135% del Pil, avrebbe richiesto miglioramenti strutturali dei saldi di finanza pubblica molto rilevanti, in un contesto di sostanziale stagnazione – esponendosi quindi al rischio di apertura di una nuova PDE. Ciò ha reso particolarmente intenso – per non dire teso – il dialogo con le istituzioni europee e non ha di certo contribuito a rassicurare i mercati, con tutto ciò che ne consegue. È del tutto evidente che non si può sperare in niente di meglio per il futuro prossimo, dati i livelli di debito previsti da quest’anno in poi.

Sapere quali saranno le regole vigenti in futuro è dunque fondamentale per favorire una programmazione di medio-lungo periodo da parte dei governi e per dare prospettive concrete a tutti gli operatori di mercato che si trovano oggi a dover compiere scelte non indipendenti da tali regole: è il caso, ad esempio, di tutti gli operatori finanziari che oggi stanno vedendo crescere la loro esposizione (diretta e indiretta, attraverso l’enorme espansione delle garanzie pubbliche) verso i governi dell’Eurozona. Non va dimenticato, inoltre, che l’utilizzo degli strumenti UE sopra citati impegna esplicitamente i paesi che vi faranno ricorso a consolidare, in futuro, la propria posizione di finanza pubblica in base alle regole fiscali vigenti nell’Unione. Nel caso del MES, ad esempio, questa clausola rientra tra le (poche) condizioni previste.

Per concludere, l’emergenza COVID rappresenta una sfida di politica economica di proporzioni finora sconosciute, e l’Europa si trova ad affrontarla con un assetto istituzionale che, in condizioni del genere, mostra tutte le sue debolezze. L’Italia ha al suo interno risorse importanti per affrontare anche questo difficile passaggio, a cui però arriva notevolmente indebolita dagli strascichi derivanti da una pessima risposta alla passata recessione, il che rende ancora più complicato gestire gli sviluppi di quella attuale dal punto di vista delle prospettive di finanza pubblica. Se sotto diversi aspetti vanno registrati dei passi in avanti rispetto al passato, vari segnali mostrano che, in particolare nell’Eurozona, le posizioni dialettiche rispetto a come debba evolvere tale assetto istituzionale per consentire l’attraversamento del pericoloso guado in cui ci si trova non si sono affatto avvicinate con gli anni. Tutto ciò è un riflesso delle difficoltà sempre più evidenti che i leader nazionali incontrano nel coniugare un sufficiente consenso interno con un autentico europeismo: ne sono prova l’acceso confronto sul Recovery fund, gli “errori di comunicazione” in certe – cruciali – conferenze stampa e, nel suo piccolo, la scenetta del premier olandese Mark Rutte che rassicura due suoi concittadini: “Non daremo i nostri soldi agli Italiani e agli Spagnoli!”.

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