Dalle “fiscal rules” al “fiscal bargain”

Morales Sloop partendo dall’approvazione della Nota di Aggiornamento al Def torna a discutere le Fiscal rules europee.Dopo aver esaminatoi principali scenari di finanza pubblica stimati nella Nota, Morales Sloop mostra le incongruenze del sistema di governance, che considera un complesso labirinto di regole e tecnicismi sottoposto a frequenti revisioni, e conclude auspicando che siano presto riviste le regole europee (e le tracce che hanno lasciato sulla nostra Costituzione), frutto dell’ormai screditata teoria dell’austerità espansiva.

La recente approvazione della Nota di Aggiornamento al Def (NaDef), e l’imminente presentazione della Legge di Bilancio 2018, consentono di riflettere sui punti di debolezza delle nuove Fiscal rules previste nella governance europea, che, in realtà, sono state al centro di un vivace dibattito fin dalla loro introduzione.

Come è noto, la nuova governance dell’Unione prevede, all’interno del cd semestre europeo, un costante monitoraggio dell’economia e delle finanze pubbliche degli Stati Membri. Lo scopo è verificare che le varie regole (l’obiettivo di medio termine, la regola della spesa, il rapporto tra deficit-Pil e debito-Pil, ecc.) siano rispettate in modo da prevenire scenari in grado di determinare effetti negativi sia per il singolo paese sia per tutti i membri dell’Unione.

Ed è anche noto che l’attuale sistema di controllo assomiglia a un labirinto di regole e tecnicismi che, oltre a limitare la possibilità di un reale dibattito sugli effetti delle manovre di politica economica, risultano non efficaci rispetto agli obiettivi che perseguono. Queste criticità sono state sottolineate anche in un lavoro del 2015 del Fondo Monetario Internazionale in cui viene evidenziata la complessità delle regole di bilancio europee, dovuta al sovrapporsi di diversi e successivi interventi.

In questo articolo, utilizzando le informazioni contenute nella NaDef 2017, mostreremo come il tentativo di assicurare il rispetto delle regole concordate possa risolversi in alcune incongruenze.

L’idea di impedire agli Stati Membri di adottare politiche fiscali avventate è, naturalmente, condivisibile ma, come spesso accade, il passaggio dalla teoria alla pratica può generare, e sta generando, non poche difficoltà.

L’esempio più significativo è osservare il sentiero di avvicinamento al pareggio di bilancio e il contestuale raggiungimento dell’obiettivo di medio termine (MTO), che dovrebbe garantire la tenuta della finanza pubblica al netto delle fasi del ciclo economico.

L’applicazione di questa regola, nella sua breve storia, è stata più volte oggetto di contrattazione e di successivi aggiustamenti diretti a renderla sempre più flessibile.

La debolezza di questo impianto è dovuta principalmente alla stima dell’output gap, ovvero la differenza tra il Pil effettivo e quello potenziale, corrispondente al pieno utilizzo del capitale e del lavoro.

Proprio la stima dell’output gap è stata più volte messa sul banco degli imputati e non ha mai ottenuto un verdetto di assoluzione. Sulla debolezza di questa stima si sono accumulate molte evidenze empiriche, come dimostrano in particolare alcuni focus (Quando il gap si fa incerto: stime alternative del potenziale e dell’output gap nell’economia italiana) dell’Ufficio parlamentare di Bilancio e un precedente contributo pubblicato sul Menabò. .

Come ulteriore conferma, anche la Commissione si è resa disponibile a possibili modifiche al Patto di stabilità e crescita (PSC) e per il 2018, adotterà un cambiamento nelle modalità di valutazione della fase ciclica, che non si baserà più sul solo calcolo dell’output gap ma prenderà in considerazione un set di indicatori più ampio (il grado di utilizzo della capacità produttiva e della forza lavoro, il tasso di disoccupazione di breve e di lungo periodo, l’inflazione, la crescita dei salari e i prezzi delle attività finanziarie).

Per meglio comprendere queste affermazioni è utile guardare più da vicino la NaDEF 2017.

Per il 2017, lo scenario programmatico prevede un indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche pari al 2,1% del Pil, confermando quanto proposto nel Documento di economia e Finanza 2017 (Def 2017). Sulla base del quadro attuale il saldo strutturale è pari al -1,3%. Questa stima include gli interventi correttivi adottati in aprile dal Governo, per garantire un andamento dei saldi di finanza pubblica in linea con quanto raccomandato dalla Commissione Europea. Per il 2018, poi, le stime indicano un saldo strutturale all’1,0% che comporterebbe, così, una correzione di 0,3 punti percentuali rispetto ai 0,8 punti percentuali (pp.). previsti in Aprile, quando l’indebitamento nominale era sempre pari al 2,1% mentre il saldo strutturale era del -1,5%.

Proprio l’entità di questa correzione, ritenuta troppo elevata dal Governo, è stata oggetto di una contrattazione con la Commissione che si è conclusa con l’attuale aggiustamento di 0,3 pp.

Per gli anni successivi, poi, si prevede un graduale miglioramento dei saldi di finanza pubblica e il 2020 è indicato come il nuovo orizzonte temporale in cui approssimare il pareggio di bilancio con un indebitamento nominale e strutturale previsto pari allo 0,2%. La coincidenza tra i due saldi è dovuta all’assenza degli effetti dell’output gap.

Verificare la robustezza di queste previsioni non è affatto semplice; tuttavia, le informazioni disponibili consentono di avanzare alcune considerazioni.

La prima è la conferma di quanto si è già accennato e cioè la difficoltà di avviare un reale dibattitto su scenari alternativi di politica economica in un quadro di regole così complesso.

La seconda, invece, entra più nel merito dell’indebitamento nominale e del Pil. Le recenti informazioni rilasciate dall’Istat, in base ai conti trimestrali del Pil e delle Amministrazioni Pubbliche, indicano che nei primi sei mesi del 2017 l’indebitamento netto è pari al 2,4%. L’obiettivo fissato dal Governo del 2,1% a fine 2017 risulterebbe quindi coerente. Una lettura più attenta dei dati evidenzia però due punti di debolezza.

Il primo è che i dati relativi al secondo trimestre 2017, come specificato in una nota del Comunicato dell’Istat, non includono i circa 4,8 miliardi previsti nelle “Disposizioni urgenti per la liquidazione coatta amministrativa di Banca Popolare di Vicenza S.p.A. e di Veneto Banca S.p.A.” (Decreto Legge 25 giugno 2017, n. 99), poiché è in corso di acquisizione il parere di Eurostat. Di contro, il Governo assicura che queste operazioni, essendo di natura finanziaria, avranno impatto sul debito ma non sul deficit; in particolare nella NaDef si legge che “per quanto riguarda la classificazione statistica di tutte le operazioni qui descritte in termini di saldi di bilancio e debito, nella presente Nota, trattandosi di partite finanziarie, si è ipotizzato un impatto nullo sull’indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche, e pari a 0,6 punti di PIL sullo stock di debito del 2017”. Rimane da verificare quale sarà il responso di Eurostat.

Il secondo punto di debolezza riguarda, invece, la crescita del Pil nominale, variabile che impatta maggiormente sull’andamento della finanza pubblica. Nei primi sei mesi la sua crescita è stata pari all’1,6%; per raggiungere il livello previsto per il 2017 (1716,5 miliardi di euro) negli ultimi sei mesi dell’anno l’incremento medio dovrebbe essere del’2,7%. Sulla base del deflatore indicato nella Nota (0,6%), allora, il Pil reale negli ultimi sei mesi dovrebbe crescere in media del 2,1%, determinando una crescita annua complessiva dell’1,8%. Cioè, ben al di sopra delle più rosee aspettative. È opportuno ricordare, però, che i dati sono soggetti a naturali processi di revisione, quindi in fase di consuntivo gli scenari indicati potrebbero subire variazioni.

Cosa accadrebbe se almeno una delle criticità ora avanzate trovasse riscontro? Dal punto di vista del indebitamento nominale ci attesteremmo su livelli più alti, anche se difficilmente si supererebbe la soglia del 3% oltre la quale si attiva la procedura per deficit eccessivo Cambierebbe, invece, il saldo strutturale, e quindi quanto concordato con la Commissione, a meno di contrattare ulteriori manovre correttive.

Appare, dunque, evidente che siamo di fronte ad un sistema che, invece di limitarsi a monitorare il rispetto delle regole, ne sollecita la continua ri-contrattazione introducendo, così, margini di discrezionalità. Ed è questa una ragione in più per accelerare i tempi nella revisione della governance economica europea introducendo indicatori più semplici, affidabili e meno restrittivi.

Del resto, l’inasprimento delle regole fiscali ha preso le mosse dalla convinzione teorica, affermatasi negli anni Novanta del secolo scorso, che l’austerità espansiva (proposta, fra i primi, da Reinhart e Rogoff, American Economic Review, 2010), ovvero consolidamenti fiscali realizzati attraverso tagli alla spesa pubblica, avrebbero stimolato consumi e investimenti privati. Gli effetti controintuitivi di questa teoria sono basati quasi esclusivamente sul ruolo delle aspettative. È meno controintuitivo, invece, immaginare la difficoltà degli operatori economici nel formulare aspettative coerenti in un quadro così complesso.

La realtà, di fatto, ha smentito questa teoria tanto che la stessa Commissione e il FMI stanno lentamente rivedendo l’enorme fiducia che avevano riposto in essa.

Infine, se proprio dovesse aprirsi una stagione di revisioni delle regole sarebbe auspicabile non dimenticare la nostra Carta Costituzionale, anch’essa vittima delle stesse teorie. Nel 2012, infatti, per effetto del Fiscal Compact è stato introdotto come principio costituzionale .il pareggio di bilancio, “tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”.

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