Dalla Riforma alla Crisi: gli abbandoni universitari in Italia

Emanuela Ghignoni si occupa del fenomeno dell'abbandono degli studi universitari, esaminando in particolare la diminuzione di quel fenomeno verificatasi di recente, durante gli anni della Grande Recessione. Ghignoni si interroga sulla cause di questa diminuzione e verifica che essa sembra dipendere non dalla minore convenienza ad abbandonare gli studi a causa della crisi, ma dalla riduzione di iscritti che provengono dalle famiglie più povere, che sono a maggior rischio di abbandono precoce degli studi

Il fenomeno degli abbandoni universitari prima del completamento degli studi è un problema endemico dell’università italiana, in parte responsabile della scarsa diffusione di titoli di studio universitari nella popolazione rispetto agli altri paesi europei (e non).

Gli studi socio-economici sono concordi nell’evidenziare che le probabilità di conseguimento della laurea, anche una volta che ci sia iscritti all’università, risentano delle condizioni delle famiglie di origine: chi proviene da un contesto socio-economico meno favorevole sarebbe dunque svantaggiato. E, fra i paesi sviluppati, l’Italia appare uno di quelli in cui è più forte il legame fra carriere scolastiche dei figli e background familiare.

Nel nostro paese, già all’inizio del 20° secolo la percentuale di studenti che lasciava l’università prima dell’ottenimento della Laurea si aggirava tra il 30 e il 40%. Tuttavia, in quel periodo, l’incidenza degli abbandoni precoci non differiva a seconda della classe sociale di provenienza degli studenti. Tale apparente eguaglianza di opportunità educative dipendeva però, con ogni probabilità, dal fatto che il numero di individui provenienti dalle classi sociali svantaggiate che si iscrivevano all’università era molto basso: è pertanto ragionevole supporre che si trattasse di individui particolarmente motivati e dotati di talento.

Dopo la seconda guerra mondiale i tassi di iscrizione all’università sono aumentati rapidamente fra le classi sociali elevate e molto meno rapidamente fra le classi sociali più basse. L’aumento delle iscrizioni ha portato dentro l’università studenti mediamente meno “abili” e motivati e, quindi, a maggior rischio di abbandono. La percentuale di abbandoni, infatti, è cresciuta con il passare degli anni, ma, mentre l’incidenza degli abbandoni fra gli studenti provenienti dalle classi sociali elevate è rimasta pressoché costante dagli inizi del 20° secolo fino ai giorni nostri, il rischio di abbandono fra gli studenti universitari provenienti dalle famiglie più svantaggiate è aumentata rapidamente.

Prima di discutere del legame fra caratteristiche del background familiare e rischi di abbandono universitario, è opportuno presentare alcuni dati sulla consistenza del fenomeno del drop out universitario in Italia.

Attualmente, l’Istat calcola che la percentuale di immatricolati che arrivano alla laurea (4 anni dopo l’immatricolazione) non raggiunge il 50%. Riguardo a tale statistica non si dispone, però, di serie storiche affidabili. Elementi interessanti emergono però se si osserva il trend della percentuale di mancate re-iscrizioni tra il primo ed il secondo anno del corso di laurea (figura 1): tale percentuale si è mantenuta costante intorno al 20% dalla fine degli anni ’90 fino al 2007, per poi diminuire fino al 15% circa nel 2012 (ultimo anno a disposizione). La Riforma Universitaria implementata nel 2001 (D.M. 509/1999) non è dunque riuscita a scalfire il problema degli abbandoni, se non in modo trascurabile e transitorio, mentre, a prima vista, sembra che dove non è riuscita la Riforma sia riuscita la crisi: a partire dall’anno accademico 20072008 si registra infatti una decisa e costante riduzione della percentuale di mancate re-iscrizioni.

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La teoria economica ci insegna che un periodo di recessione economica può avere effetti di segno opposto sulle scelte di istruzione degli individui. Da un lato, la riduzione dei redditi delle famiglie, conseguente alla crisi, può creare vincoli economici tali da indurre alcuni individui ad abbandonare gli studi. Dall’altro lato, il peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro giovanile riduce i “costi opportunità” dello studio (ovvero la convenienza a abbandonare gli studi per conseguire immediatamente un reddito da lavoro) e può incentivare gli individui ad andare avanti nel percorso universitario fino a che un’eventuale ripresa economica non migliori le prospettive di trovare lavoro.

La più semplice (e diffusa) interpretazione del recente calo degli abbandoni universitari messo in luce dalla figura 1 si basa sulla riduzione dei “costi opportunità”: date le scarse possibilità di trovare lavoro durante una severa recessione economica, diviene razionale continuare a studiare. Ma questa interpretazione, come tutte le spiegazioni semplici, rischia di essere fortemente fuorviante.

In realtà, per valutare correttamente l’andamento degli abbandoni, bisogna valutare contestualmente anche il trend delle immatricolazioni all’università. In Italia si è infatti registrato un crollo delle immatricolazioni ben prima dell’emergere dell’attuale crisi economica. In dieci anni il numero degli immatricolati è sceso da 338.482 (2003-2004) a 280.144 (2011-2012), con un calo di 58.000 studenti (-17%), come se in un decennio – quantifica il Cun – “fosse scomparso un ateneo come la Statale di Milano” (figura 2). E la riduzione degli immatricolati non è dipesa da una pura dinamica demografica, ovvero dalla contrazione della popolazione diciannovenne, che negli ultimi 30 anni si è ridotta del 40% (-389.000 ragazzi e ragazze): la figura 2 mostra infatti anche i tassi di passaggio dal diploma all’università (che non risentono della dimensione delle generazioni confrontate) – ovvero il rapporto fra gli immatricolati in un anno accademico e i diplomati nell’anno scolastico precedente – che risultano in caduta libera dall’A.A. 2003-2004 e attualmente sono inferiori al 60%. Il calo degli immatricolati è ancora più grave nelle zone più svantaggiate del paese: nemmeno la metà dei diplomati del 2011 si è iscritto all’università nell’A.A. successivo nelle regioni meridionali e insulari (figura 3).

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I dati disponibili mostrano inoltre che il crollo delle immatricolazioni è stato tutt’altro che neutrale per quanto riguarda la classe sociale di origine degli studenti. Da alcune elaborazioni sui dati campionari dell’Indagine sui percorsi di studio e di lavoro dei diplomati condotta dall’ISTAT nel 2007 e nel 2011 risulta infatti che e tra gli studenti immatricolati, la percentuale di individui provenienti da famiglie della “borghesia” è salita dal 26% nell’A.A 2004-2005 al 32% nell’A.A. 2007-2008, mentre la percentuale di immatricolati provenienti dalla “classe media” è crollata dal 20% a meno del 15% durante lo stesso periodo (tabella 1). Questi dati, oltre a mettere in luce il rischio che l’università italiana diventi sempre più “classista” spiegano, almeno in parte, la riduzione dei tassi di abbandono evidenziata dai dati ufficiali negli ultimi anni.

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Ulteriori elaborazioni sui dati delle Indagini Istat segnalano una riduzione (molto contenuta) del tasso di abbandono tra coloro che si sono iscritti nell’A.A. 2004-2005 (16%) e coloro che si sono iscritti nell’A.A. 2007-2008 (15,5%). Considerando che questi ultimi, a differenza degli immatricolati nel 2004-2005, hanno preso le proprie decisioni riguardo al proseguimento o meno degli studi universitari durante la crisi, si potrebbe pensare che la riduzione del tasso di abbandono (-0,5 punti percentuali) dipenda dalla riduzione dei costi opportunità dello studio dovuta all’aumento dei tassi di disoccupazione giovanile durante la recessione.

Però, come si è visto, ben prima della crisi economica è iniziata una crisi delle immatricolazioni che ha riguardato soprattutto chi proviene da classi sociali meno avvantaggiate. E, come detto, dai primi anni del dopoguerra, la classe sociale della famiglia di origine influenza fortemente la probabilità di abbandono degli studi universitari.

E’ quindi presumibile che un campione di immatricolati caratterizzato da una provenienza familiare mediamente “migliore”, come quello che si sta osservando in Italia negli anni più recenti, sia caratterizzato anche da un tasso aggregato di abbandono minore. Ma non basta. Non solo la composizione del campione di immatricolati è cambiata a tutto vantaggio delle classi sociali più abbienti, ma anche i comportamenti degli individui nelle scelte di abbandono degli studi sono cambiati, a svantaggio delle classi sociali più basse, negli ultimi anni. Il differenziale nella probabilità di prosecuzione degli studi tra uno studente appartenente alla borghesia e uno studente appartenente alla classe media è infatti aumentato di 3 punti percentuali passando dal campione di immatricolati nel 2004-2005 al campione di immatricolati nel 2007-2008.

Analisi condotte mediante tecniche di scomposizione segnalano che, se le caratteristiche di background degli studenti immatricolati nel 2007-2008 fossero rimaste le stesse del campione di immatricolati nel 2004-2005, il tasso di abbandono universitario sarebbe risultato del 18,2% in luogo del 15,5%. Al contrario, se gli iscritti nel 2007-2008 si fossero comportati come gli immatricolati nell’A.A. 2004-2005, il tasso di abbandono nel secondo periodo sarebbe stato del 13,3% (Tabella 2). Ciò significa che se il background socio-economico degli immatricolati all’università non fosse “migliorato” prima della crisi, durante la recessione avremmo osservato un aumento anziché una diminuzione del tasso aggregato di abbandono degli studi universitari.

In questo contesto, aspettarsi che la recente crisi economica possa avere un effetto positivo sull’accumulazione di capitale umano tramite una riduzione dei costi opportunità dello studio si rivela fortemente illusorio. Al contrario, il crescente impatto del background socio-economico della famiglia di origine sulla probabilità di abbandono precoce degli studi universitari suggerisce che il sistema di politiche di sostegno allo studio a favore di studenti (meritevoli e) svantaggiati è, allo stato attuale, largamente insufficiente e andrebbe potenziato, soprattutto nei periodi di recessione economica.

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