Dal turbocapitalismo al “socialismo finanziario”?

Le avvertenze della storia.

Stiamo entrando (o, forse, rientrando) in un’epoca di “socialismo finanziario”? Torna (ancora una volta) Keynes? Bush, mentre lascia la Casa Bianca, rivela forse la sua vera natura di erede legittimo di Roosevelt che “inventò” il New Deal?

Queste – e chissà quante altre – sono le domande che sorgono di fronte allo straordinario intervento deciso dall’amministrazione americana nel tentativo di controllare la crisi finanziaria. Come è noto si tratta di un piano da 700 miliardi di dollari, una cifra enorme ma forse insufficiente rispetto allo scopo. Con questa montagna di danaro pubblico si vuole acquistare, e possibilmente rivendere, i titoli “tossici” che le istituzioni finanziarie hanno in portafoglio, per evitare che si trasformino in veicoli di fallimenti e ulteriori difficoltà. I titoli “tossici” sono quelli che risultano collegati – attraverso qualcuno dei sofisticatissimi strumenti finanziari creati dalla fantasia del capitalismo cartaceo – ai mutui “subprime”, i più immediati responsabili della crisi.

Questo intervento segue un incerto percorso, fatto di passi in una direzione (“le banche falliranno e il mercato trionferà”) e in quella opposta (“far fallire le banche sarebbe un errore mortale”) che hanno creato difficoltà a diversi commentatori, soprattutto a quelli che sembrano considerare anche l’occasionale riconoscimento di qualche difetto del mercato e del “modello americano” un pericoloso cedimento.

Questa decisione dell’amministrazione ha spinto non soltanto a rispolverare l’immagine, oramai un po’ trita, della riscoperta di Keynes (cosa che avviene con discreta periodicità, la stessa di alcuni eventi molto gravi, tanto da suscitare il dubbio che si tratti di uno stanco rituale mediatico) ma anche a far nascere in alcuni il sospetto che soltanto alla fine del suo mandato George W. Bush si sia deciso a rivelarsi per quello che realmente sarebbe, il più autentico erede di Franklin Roosevelt, l’uomo del New Deal.

Queste riscoperte e questi accostamenti meritano una rapida riflessione, non tanto per la loro disinvoltura ma soprattutto perché, ragionando sui di essi, si può avanzare qualche riflessione sulla crisi in atto.

L’intervento dell’amministrazione statunitense ha aspetti assai controversi che, ci dicono le cronache di queste ore, moltissimi membri del Congresso non mancano di rilevare. Al di là di quella che sarà la forma finale del provvedimento, è utile richiamare un importante precedente. Siamo alla fine del 1931, a oltre due anni dal crollo di Wall Street e la crisi ha impetuosamente travalicato i confini finanziari per trasformarsi in vera e propria depressione economica. A ripetizione falliscono moltissime delle migliaia di banche che allora costituivano il fragile sistema creditizio americano e il cauto presidente Hoover, pressato dal Governatore della Federal Reserve dell’epoca, prende atto che la sua ricetta per risolvere il problema è fallita. Si trattava, in linea con la filosofia che lo animava, di una soluzione tutta privata e sostanzialmente caritatevole, consistente nel chiedere alle banche maggiori di aiutare quelle più piccole e in difficoltà. Il Governatore Meyer convinse Hoover che occorreva un massiccio intervento pubblico, con danaro pubblico e ampio uso di discrezionalità politica. Nacque così la Reconstruction Finance Corporation che iniziò a operare nel 1932 e, passando attraverso varie stagioni, sopravvisse fine al 1957. Non abbiamo elementi per stabilire se Bush abbia coltivato idee simili a quelle di Hoover prima di capitolare ma è interessante notare che questo nobile (o poco nobile) predecessore del piano da 700 miliardi di dollari sia stato “imposto” dagli eventi (e dagli interessi della comunità finanziaria) a un presidente decisamente liberista, che ha ricevuto critiche severissime dai molti che lo considerano tra i maggiori responsabili (forse l’unico stando a un recente, un po’ ingeneroso, intervento di Alesina sul Sole 24ore) della Grande Depressione. Dunque, la storia dovrebbe consigliarci di accostare Bush a Hoover, non a Roosevelt. Quest’ultimo appena insediato, anche per effetto di un’ulteriore ondata di fallimenti bancari, rafforzò ed estese i compiti dell’RFC nei confronti del sistema creditizio e finanziario e successivamente lo “armò” di potentissime munizioni per permettergli di ampliare il raggio delle sue azioni, che si estesero oltre il sistema finanziario. Insomma, fece quello che la filosofia del New Deal suggeriva di fare. Ma l’RFC nacque prima, senza New Deal. Dunque la storia ci dice che occorre distinguere doverosamente tra interventi pubblici “imposti” dalle necessitò di salvare il salvabile da interventi pubblici che cercano di definire un mondo diverso e, anche, di prevenire le crisi più severe.

L’esperienza della RFC può essere utile anche perché essa illustra alcuni problemi nei quali, molto probabilmente, incorrerà il piano da 700 miliardi. Un aspetto assai controverso dell’esperienza della RFC riguarda l’uso che il governo fece della propria discrezionalità, inizialmente coperta da una segretezza ben presto considerata assai sospetta. Imposta la trasparenza sulla destinazione dei fondi, si appalesò un fenomeno prevedibile e cioè la corsa dei risparmiatori a liberarsi dei depositi tenuti presso le banche oggetto di interventi di salvataggio, con effetti per nulla positivi rispetto al controllo della crisi. Già oggi molti esponenti del Congresso manifestano dubbi sulla segretezza delle operazioni che verranno condotte e, dunque, si può sospettare che la storia si ripeterà. In effetti tra trasparenza, salvataggi pubblici e psicologia dei risparmiatori vi sono rapporti complessi, che non prefigurano un facile buon esito.

Ho già ricordato che, come la storia insegna, impegnare danaro pubblico per salvare il sistema finanziario può essere una necessità che nulla ha a che vedere con l’adesione a una filosofia di funzionamento del sistema economico riconducibile a Keynes o a Roosevelt. A mo’ di battuta, dirò che credere – al di là di eventuali dubbi pentimenti – nel turbocapitalismo, alimentato dalla finanza “efficiente” è cosa ben diversa che credere in una società dinamica ed equa. In particolare, se l’uguaglianza occupasse un posto più alto nella scala dei valori di coloro che reggono le sorti del mondo forse gli eccessi che oggi condanniamo sarebbero più facilmente prevenibili e l’intervento pubblico assumerebbe ben altri connotati. La posizione di Keynes e Roosevelt al riguardo è ben nota. Ma, concludendo, vale la pena di ricordare una tra le tante frasi di Roosevelt che può ravvivare la memoria e, nella sua semplicità, farci da guida: “L’ambizione dei singoli individui di raggiungere un giusto livello di sicurezza deve essere anteposta all’avida ricerca della ricchezza e del potere”.

Schede e storico autori