Dal calo della popolazione al suo aumento. Una riflessione sulle implicazioni della revisione dei trend demografici

Angelo Marano muove dall’osservazione che contrariamente a quanto previsto negli anni ’90, la popolazione residente in Italia non è in calo ma in crescita, anche se rimane il problema dell’invecchiamento. Marano sottolinea che questi errori derivano dalla sottostima della natalità, della longevità e, soprattutto, dei flussi migratori e argomenta che sulla base di previsioni rivelatesi ex post lontane dalla realtà sono state adottate politiche piuttosto severe, soprattutto in ambito pensionistico

Nella seconda metà degli anni ’90 la popolazione residente in Italia era di poco inferiore a 57 milioni e tutte le proiezioni demografiche prevedevano una sua drastica diminuzione. Nel 1995 la Ragioneria generale (RGS) stimava che sarebbe calata a 45,8 milioni nel 2044; l’anno successivo l’Istat parlava di 46,9 milioni nel 2050; la previsione “Europop” del 1999 di Eurostat era appena più elevata, 48,1 milioni, mentre secondo l’aggiornamento del 2000 delle World Population Prospects delle Nazioni Unite (UN) essa sarebbe stata di 43 milioni nel 2050 (Tabella 1, Figura 1).

Un quindicennio dopo è, invece, unanime la previsione che la popolazione subirà un significativo aumento da qui al 2050. Secondo la proiezione dell’Istat del 2011 essa arriverà a 63,5 milioni, mentre secondo quella di Eurostat del 2013 sarà di 67,1 milioni. Più “cauta” è la revisione dell’ONU del 2013, secondo la quale la popolazione nel 2050 sarà “soltanto” di 60 milioni, comunque ben 17 milioni in più rispetto alla previsione del 2000.

Anche il confronto fra il dato previsto per il 2015 e quello effettivo del 2014 mostra scostamenti rilevanti: nelle loro proiezioni condotte fra il 1995 e il 2000, RGS, Istat, Eurostat e ONU prevedevano per il 2015 una popolazione pari, rispettivamente, a 56,2, 57,0, 56,8 e 55,2 milioni. Il dato ufficiale del 2014 è, invece, 60,8 milioni con un “errore” di previsione compreso fra i 3,8 e i 5,6 milioni su un orizzonte di 15-20 anni.

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La ventilata riduzione della popolazione residente in Italia non si è dunque verificata e, verosimilmente, non si verificherà neanche in futuro: la popolazione è invece aumentata e dovrebbe crescere ulteriormente. Ciò pone alcuni interrogativi. Difformità così ampie fra proiezioni e dati effettivi riguardano solo l’Italia o anche altri paesi? Quali ne sono le cause e quali conseguenze derivano per le previsioni di invecchiamento della popolazione? Questi errori di previsione spingono, inoltre, a riflettere sulla rilevanza che la demografia ha avuto nelle scelte di politica economica, specialmente in campo pensionistico. Infatti, gli scenari previsivi di lungo periodo della spesa pensionistica, sanitaria e per l’istruzione a livello nazionale ed europeo si costruiscono sulle previsioni demografiche e le proiezioni (in particolare quelle elaborate alla fine degli anni ’90) hanno avuto un impatto rilevantissimo sulle policy realizzate in Italia e altrove.

La risposta al primo interrogativo è che gli “errori” e le modifiche delle previsioni appaiono rilevanti anche per altri paesi. Confrontando il dato previsto da Eurostat nel 1999 per il 2015 col dato effettivo del 2014, emerge un errore di previsione del 4,2% per il complesso della UE15, con valori massimi del 9% per il Lussemburgo e, addirittura, del 14,4% per la Spagna, dove la differenza tra valore effettivo e previsione, in un quindicennio, è stata di oltre 7 milioni di individui. Guardando alle differenze fra le previsioni per il 2050 effettuate da Eurostat nel 1999 e nel 2013, risulta che per la UE15 nel suo insieme la popolazione prevista è aumentata del 15,3%, ma l’aumento è compreso fra il 20% e il 30% per cinque paesi (Regno Unito, Austria, Spagna, Svezia e Italia), e tra il 30% e il 43% per altri due (Belgio e Lussemburgo), mentre per il Portogallo si è avuta una diminuzione di oltre il 20%. Come per l’Italia, anche per la UE15 quella che nel 1999 sembrava una prospettiva di graduale riduzione della popolazione (da 385 a 364 milioni fra il 2015 e il 2050) si è trasformata, dopo un quindicennio, in una prospettiva di crescita (da 402 a 430 milioni).

Quali sono le cause di scostamenti così ampi? Se l’invecchiamento delle coorti viventi è un elemento sostanzialmente deterministico (un ventenne oggi fra vent’anni avrà quarant’anni), i tre parametri chiave per le proiezioni (la natalità, la mortalità – ovvero la speranza di vita – e i flussi migratori) sono oggetto di inferenza statistica e vanno stimati. Le procedure di stima sono generalmente basate sui trend passati, ma ciò può risultare insufficiente, dato che tutti e tre i parametri dipendono anche dalle politiche e dall’evoluzione della condizioni economico-sociali e politiche in un determinato paese e nei paesi esteri.

Tornando all’Italia, nella sostanza (Tabella 1) le prime previsioni demografiche assumevano un andamento della natalità eccessivamente cauto anche in un contesto di forte calo delle nascite. La speranza di vita è già aumentata ben oltre le previsioni iniziali, con un effetto più sostanziale sulle dimensioni della popolazione. Per la parte principale, però, le differenze riscontrate sono attribuibili a saldi migratori di dimensioni del tutto impreviste. Il dato italiano mostra, considerando la media sui cinque anni precedenti, una crescita enorme del flusso migratorio netto, che, da valori attorno a 40-50.000 unità annue fino al 2000, si è portato repentinamente su valori compresi fra i 250.000 e i 390.000 immigrati netti all’anno. In pratica, secondo i dati Istat, nel periodo 2005-2014 il flusso netto complessivo di nuova immigrazione sarebbe stato positivo per più di 3 milioni di unità. Evidentemente, tale dinamica ha completamente spiazzato non soltanto le previsioni di fine anni ’90, secondo cui i flussi netti sarebbero stati compresi fra 50 e 60.000 unità annue, ma anche quelle formulate fino al 2006, che sono arrivate ad ipotizzare flussi massimi nell’ordine delle 150.000 unità annue. Di fatto, l’Italia, con un flusso netto cumulato al 2050 che dovrebbe arrivare a 16 milioni, sarebbe il paese europeo con il maggior impatto in valore assoluto dei flussi migratori.

Ma allora, oltre alla riduzione della popolazione, va considerato un abbaglio anche la tendenza all’invecchiamento, che tanta preoccupazione ha suscitato, determinando, in buona parte, il segno delle riforme del welfare italiano ed europeo negli ultimi quindici anni? In realtà, se gli effetti della sottostima di tutti e tre i parametri (fecondità, longevità, flussi migratori) nelle prime previsioni demografiche si sommano l’uno all’altro nel calcolo della dimensione della popolazione residente, amplificando l’errore, ai fini dell’invecchiamento, invece, gli effetti non sono univoci e sono in grado solo di attenuare, ma non di invertire, la tendenza verso un forte aumento dell’età media della popolazione italiana. Come mostra la Figura 2, tutte le proiezioni considerate sono concordi nel prevedere entro il 2050 un quasi raddoppio del tasso di dipendenza degli anziani, cioè il rapporto fra il numero di ultrasessantacinquenni e il numero di persone in età lavorativa (20-64 anni), dal 35% del 2000 al 66-68% nel 2050. Fanno eccezione le due ultime proiezioni Eurostat, che fissano il tasso di dipendenza nel 2050 al 63% e al 58% rispettivamente, 3-5 punti e 8-10 punti più in basso rispetto alle altre previsioni, una differenza che, se non permette di escludere un problema di invecchiamento, ne modifica significativamente le proporzioni.

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I valori delle proiezioni demografiche che abbiamo considerato fanno riferimento agli scenari centrali degli esercizi di previsione. Ognuno di essi, in realtà, segnala esplicitamente l’incertezza dei risultati, che aumenta sostanzialmente con l’estendersi dell’orizzonte temporale considerato, e analizza anche scenari alternativi rispetto a quello base. Tuttavia, la tendenza è verso la costruzione di uno scenario attorno al quale tutto ruota, perché gli scenari alternativi derivano da quello di base, modificando le ipotesi o tutte in modo simmetrico oppure una ad una, singolarmente. Ciò conferisce un’apparenza di centralità alle stime dello scenario base, laddove, tuttavia, esse risentono sia del peso attribuito ai trend passati, sia delle assunzioni, alcune volte necessariamente arbitrarie, formulate dal ricercatore. In questo modo, malgrado le avvertenze, si finisce per avallare una lettura dei dati fortemente sbilanciata a favore dello scenario base. Nel 2002 l’Istat scriveva: “Lo scenario centrale è stato costruito sulla base di ipotesi ritenute le più probabili nel momento stesso in cui queste venivano adottate. Pertanto, i risultati delle previsioni (…) costituiscono una buona base di partenza per i policymakers che, nel predisporre i loro programmi d’intervento, necessitino di conoscere la futura consistenza della popolazione con un ampio livello di fiducia”.

Le previsioni demografiche formulate dalla metà degli anni ’90 in Italia e dal 2001 a livello comunitario hanno avuto un impatto di policy enorme: in Italia hanno fatto apparire indiscutibile l’urgenza di interventi di riforma del sistema previdenziale; a livello europeo, hanno imposto all’attenzione generale il problema delle conseguenze dell’invecchiamento per le finanze pubbliche, portando la Commissione ad estendere progressivamente il monitoraggio del Patto di stabilità e crescita anche alle prospettive future della finanza pubblica e della spesa per il welfare. Ne sono scaturite riforme molto forti, peraltro in parte condivisibili, ma che hanno interiorizzato fortemente e acriticamente un dato demografico rivelatosi, almeno in parte, fuorviante. Di fatto, ragionare oggi di politiche pensionistiche implica per l’Italia confrontarsi con previsioni che indicano al 2050 una popolazione di almeno 10-15 milioni individui in più rispetto a quanto previsto al momento della riforma.

A titolo esemplificativo, consideriamo le previsioni di spesa pensionistica e la relativa “gobba” che tanto ha influenzato il dibattito e le riforme italiane a cavallo del secolo. Le previsioni elaborate negli anni ’90 e nei primi anni 2000 risultano significativamente diverse se ipotizziamo saldi migratori maggiori di quelli considerati negli scenari centrali, sia pur ancora largamente inferiori rispetto a quelli effettivi. La figura 3 presenta, nel grafico di sinistra, le proiezioni di spesa pensionistica del 1996 della RGS, basate sulla proiezioni demografiche dalla stessa formulate l’anno prima, nell’ipotesi centrale di un saldo migratorio di 50.000 unità annue (Ministero del Tesoro – RGS Tendenze demografiche e spesa pensionistica. Alcuni possibili scenari, 1996) e nell’ipotesi alternativa di 150.000 unità annue. Il grafico di destra presenta, invece, le proiezioni elaborate da Massimiliano Tancioni sullo scenario demografico centrale Istat 2001 (un saldo migratorio pari a 200-250.000 unità annue) e sull’ipotesi alternativa di un flusso migratorio più alto di 40-60.000 unità l’anno (M. Tancioni in Rapporto sullo stato sociale 2007, a cura di F.R. Pizzuti, Utet).. Emerge chiaramente come le previsioni di spesa pensionistica sarebbero risultate sostanzialmente più basse se fossero stati considerati saldi migratori più vicini a quelli effettivi.

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Queste evidenze suggeriscono una conclusione di valenza generale. Malgrado le riforme pensionistiche siano state quasi esclusivamente volte al contenimento della spesa e gli sviluppi demografici effettivi si siano rivelati tali da assicurare significativi risparmi di spesa rispetto agli andamenti previsti, l’andamento della spesa pensionistica in Italia è ancora percepito come problematico. Ma questo deve essere ascritto non più agli effetti dell’invecchiamento o alle mancate riforme, bensì al fatto che i risparmi originati da immigrazione e riforme sono stati compensati, o più che compensati, da altri elementi, in particolare il crollo del Pil a causa della crisi, l’insufficiente sviluppo della produttività e l’aumento della disoccupazione. Di fatto, se ancora vi è un problema di spesa pensionistica in Italia, questo va ricondotto interamente al più generale problema dell’incapacità di sviluppo dell’economia italiana.

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* Le considerazioni esposte sono prettamente personali. L’articolo riprende alcuni spunti che tratto più approfonditamente nel saggio Previsioni demografiche e riforme pensionistiche. Un ripensamento dopo quindici anni, di prossima pubblicazione sulla “Rivista delle politiche sociali” (n. 1.2015).

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