D-Istruzione di massa

Emiliano Mandrone richiamando i recenti, deludenti, dati dell’Invalsi sull’apprendimento degli studenti italiani, sottolinea la decisiva importanza dell’attenzione e delle risorse dedicate ai bambini in età precoce, in particolare a quelli che vivono in condizioni di severa povertà materiale e educativa. Mandrone porta a sostegno della sua tesi varie analisi ed esperienze a livello internazionale dalle quali emergono gli effetti positivi, per i singoli e per la società, di un sistema educativo che preveda misure di compensazione precoce degli svantaggi dovuti al background.

Il Rapporto Invalsi 2019 ci ha turbato: i giovani con un percorso di apprendimento corretto sono solo il 65% in italiano, il 58% in matematica, il 52% in inglese reading e il 35% in listening.

In Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna 1 allievo su 5 “non saprebbe scrivere una email o compilare un modulo alla Posta”. Il Responsabile dell’Invalsi, Roberto Ricci, sullo scorso numero del Menabò rende la questione in termini ancor più crudi “in larga parte del sud ci sono ragazzi che affrontano l’esame di terza media avendo competenze da quinta elementare”. Invece, le brutte performance in inglese sono generalizzate: esiti così modesti rivelano la mancanza di un adeguato corpo docente e una didattica inadeguata.

C’è molta suscettibilità tra insegnanti e genitori quando si parla di scuola, come emerge anche dal contributo di Corsini sull’ultimo Menabò. L’Invalsi è spesso criticato da quanti lo intendono – sentendosi Robin Williams nella prima scena de l’attimo fuggente – come uno strumento di omologazione culturale. Non è così. È piuttosto uno screening di massa per scovare i marcatori di disagio e prevenire disfunzioni insorgenti.

L’Invalsi misura l’accumulazione di capitale umano formale, non esperienze o emozioni. Non c’è traccia di capacità relazionali o di intuizione imprenditoriale, di gusto o sensibilità. L’educazione, invece, comprende tutti quegli stimoli – esempi, esperienze, emozioni, cure, viaggi – che si ricevono dall’ambiente (famiglia e servizi), in particolare nella primissima infanzia.

Queste due componenti (istruzione e ambiente sociale), quando lavorano insieme danno luogo a un moltiplicatore potenziale; in caso di loro mancanza, viceversa, vengono frenati i talenti, come si è già sostenuto sul Menabò. L’allarme sulla povertà educativa riguarda proprio quel potenziale (umano, creativo, lavorativo) non attivato dal contesto in cui si vive.

Si riapre il dibattito sulle disuguaglianze (in)accettabili (Franzini, 2010): il Governo sta predisponendo un Family Act in cui sono previsti più servizi, strumenti di conciliazione e 240€ al mese per figlio. Per spiegare quanto siano urgenti e opportuni questi interventi utilizziamo la Fig.1.

Fig.1 -Equazione di Heckman: rendimento dei programmi di cura prescolare e di istruzione

 

La curva di Heckman (2003) dipende – al netto dell’ambiente familiare, sociale ed economico – dal sistema di assistenza, inclusione e cura, dalla qualità dell’istruzione e del sistema formativo ma, soprattutto, chiarisce che prima si interviene maggiore è l’efficacia del trattamento. Interventi tempestivi, infatti, consentono recuperi prodigiosi.

Negli anni ’70 i progetti Carolina Abecedarian (ABC) e Carolina to Responsive Education (CARE) hanno consentito di studiare gli effetti su popolazioni svantaggiate, valutando (con un disegno di randomizzazione controllata) per trattati (da politiche di sostegno alla famiglia e di istruzione intense: nove ore al giorno per cinque anni) e non trattati (restano a casa o vanno in scuole di modesta qualità). Per le femmine il trattamento ha avuto effetti positivi sul diploma di scuola superiore, sugli anni di istruzione, l’occupazione e il reddito da lavoro da adulti.  I risultati per i maschi mostrano un minor consumo di droghe e pressione sanguigna più bassa ed effetti positivi sull’istruzione, reddito e lavoro. ABC e CARE hanno migliorato le prospettive economiche dei bambini trattati e generato effetti positivi sull’istruzione, occupazione e reddito della madre. Un dollaro speso in programmi di qualità per i bambini svantaggiati ha offerto un ritorno del 13% annuo, senza contare il gettito fiscale prodotto e i costi non sostenuti (droga, crimine…).

Nessuno se il proprio figlio avesse un braccio rotto aspetterebbe per curarlo. Perché un bambino che non legge bene o è distratto o fatica a fare i calcoli non lo si aiuta subito a superare l’ostacolo? Gli esperti possono risolvere molti problemi – d’apprendimento, fisiologici o di contesto sociale – e restituire un individuo sano, sereno e risolto alla scuola, alla comunità e, soprattutto, a se stesso.

Non è facile misurare il child-care in particolare in termini comparati, poiché dipende da dimensioni estremamente eterogenee, osservabili (servizi per l’infanzia e la maternità, accesso e diffusione dei nidi, aiuti economici alle famiglie, congedi e conciliazione) e inosservabili (nonni, famiglia, ambiente), oltre a richiedere disegni di valutazione randomizzati e indagini longitudinali.

Le cure nei primi 24 mesi di vita, uno dei principali indicatori di child-care, sono rilevanti per il futuro dell’individuo, in termini di socializzazione, linguaggio, apprendimento e calcolo. L’OCSE produce uno studio che si chiama, non a caso, Starting Strong! La fig. 2 mostra il ricorso al nido in termini di utilizzo e d’intensità. In Italia, solo il 25% dei bimbi accede al nido per 30 ore settimanali; ciò è dovuto alla bassa disponibilità, all’alto costo e a una certa ritrosia culturale.

 Fig. 2 – Tassi di iscrizione ad asili nido e intensità di utilizzo, incidenza percentuale. Ocse 2017

“La povertà viene da lontano: nel tempo e nello spazio” Brandolini (2019). Chi occupa i piani alti dell’ascensore sociale è già in grado di consigliare i propri figli per il meglio, a scuola come al lavoro. La vita è un piano inclinato, da che lato lo si affronta fa la differenza. Ne erano ben consapevoli nel ’48, tanto da riempire la Costituzione di audaci e illuminati precetti (rimuovere gli ostacoli all’affermazione personale, pari opportunità, diritto allo studio, eguali punti di partenza), spesso disattesi. Tanto che l’attuale distribuzione della ricchezza, la mancanza di una domanda di lavoro qualificato o l’alta collocazione informale rendono la logica meritocratica classista e iniqua.

Il tema è di grande attualità: il premio Nobel 2019 per l’economia è stato assegnato a Banerjee, Duflo e Kremer per un nuovo approccio sperimentale nella lotta alla povertà che consente innumerevoli vantaggi etici ed economici.

La Presidenza finlandese della Ue suggerisce di fare tesoro delle evidenze di queste ricerche e di approntare una child guarantee che sfrutti la relazione positiva tra nidi e fecondità, child-care e capacità, tra pari opportunità e partecipazione femminile, tra insegnanti e poliziotti per ricomporre – whatever it takes! – la spesa sociale ed educativa in favore di interventi precoci e di qualità.

Da tempo, infatti, si è preferito allestire una sorta di teatro anatomico intorno al bisogno, in cui dotti medici e sapienti si sono mossi più per evitare tensioni sociali e gestire il consenso che per equità, preferendo l’assistenza (Rei, RdC) alla vera emancipazione (Costituzione, Art.3).

L’istruzione fa superare le convenzioni più retrive, alimenta il senso civico e quello estetico, allunga la vita, migliora i guadagni e fa compiere scelte consapevoli… Ma soprattutto vanno considerate le esternalità negative che comporta avere una ampia quota della popolazione con un capitale umano modesto. Ogni volta che si prende la strada, la prende anche qualcuno che non ha le tue stesse precauzioni nel bere o nel rispettare la velocità. Ogni volta che qualcuno compie una scelta sbagliata o, in generale, con ripercussioni sulla comunità, produce un onere che tutti saremo chiamati a ripagare. Non si vuol fare eugenetica, selezionare la specie, ma informazione.

Si pensi che solo il 40% degli italiani legge un libro (uno qualunque, anche di ricette) all’anno, al Sud meno del 30%. In Germania, Gran Bretagna, Svezia siamo oltre l’80% (Eurostat). Il 28% degli italiani sono analfabeti funzionali: persone in grado di leggere ma non di capire ciò che leggono.

Ovvero, non sanno di non sapere! E molti politici usano a loro vantaggio tutto ciò.

La scuola italiana per molti versi è eccellente, in particolare se paragonata ai sistemi non universalistici, in cui le scuole migliori sono private, esclusive, selettive. L’idea di scuola bene pubblico è incrinata da alcuni limiti strutturali: l’insegnamento inefficace dell’inglese, il reclutamento dei docenti, una didattica per le materie scientifiche migliorabile, infrastrutture fatiscenti, un corpo docente in affanno e una ricerca sotto-finanziata, inoltre il sistema delle graduatorie dei docenti comporta una discontinua che non dà stabilità all’insegnamento e serenità alle famiglie.

Infine, la poca manutenzione fatta in questi anni sembra essere stata più prodromica alla creazione di studenti ready-to-work che per creare cittadini meglio attrezzati ad una società della conoscenza. Serve equilibrio; molti chiedono alla scuola una preparazione che consenta una rapida collocazione lavorativa, altri vedono l’edificazione di un individuo consapevole il fine del sistema educativo. Pure le famigerate competenze trasversali vengono a volte interpretate in maniera equivoca: ma non si possono barattare soft skill per hard skills. Per fare un ponte serve ragione non sentimento.

Le performance degli individui/imprese/territori dipendono dalla capacità totale dei fattori, cioè dall’efficienza con la quale vengono utilizzati e si alimentano reciprocamente. Estrarre valore da famiglie, imprese o territori, senza investimenti per rigenerarli, non è sviluppo ma depredazione.

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