Crisi o trasformazione della democrazia?

Alessandro Ferrara muove dalla paradossale considerazione che nel momento storico in cui è diventata un orizzonte condiviso da più di metà dell'umanità, la democrazia come regime politico si trova ad operare in condizioni sociali, economiche, culturali inusitatamente inospitali. Dopo aver ricostruito le principali dieci condizioni inospitali con cui la democrazia del XXI secolo dovrà convivere, tra le quali rientra la concentrazione del reddito e della ricchezza, Ferrara si occupa del modo in cui il pensiero liberal-democratico degli ultimi decenni ha risposto a queste sfide.

L’espressione “crisi della democrazia”, di cui sento parlare dai tempi in cui ero studente, mi ha sempre insospettito.  La democrazia non c’era neanche in tutta l’Europa, ad esempio non c’era in Grecia, in Spagna e in Portogallo, né ad Est di Berlino. Non c’era in America Latina, e nel Cile di Allende veniva affogata nel sangue. Ora in queste aree la democrazia è un orizzonte indiscusso: non è più, come per 24 secoli, una fra varie forme di governo, ma la forma di governo legittima per eccellenza, rispetto a cui le altre rappresentano gradi diversi di arbitrio istituzionalizzato. Nessuno pensa che Norvegia, Svezia, Danimarca, Olanda, Spagna o Regno Unito non siano democrazie solo perché hanno un re o una regina. Questa è la prova di come la democrazia sia passata dall’essere un regime alternativo ad altri all’essere un orizzonte imprescindibile. Ciononostante si continua a parlare di “crisi della democrazia”, una tesi che contrasta con l’evidenza di milioni di persone che rischiano la vita per avere la democrazia, ma che soprattutto dirige la nostra attenzione nel punto sbagliato. Una pianta ha bisogno di un suolo accogliente: a parità di dotazione genetica, crescerà rigogliosa in un terreno fertile e appassirà in un terreno arido. La tesi della “crisi della democrazia” risulta fuorviante se ci induce a cercare qualcosa di storto nella pianta democratica e non nel terreno socio-storico ed economico in cui adesso deve crescere. Preferisco quindi parlare di “condizioni inospitali” in cui la democrazia si trova ad operare e di auto-trasformazioni grazie a cui la democrazia può sopravvivere.

Condizioni inospitali, vecchie e nuove, per la democrazia. Una delle migliori ricostruzioni di tali “condizioni inospitali” viene dal costituzionalista americano Frank Michelman. Nel saggio “How Can the People Ever Make the Laws? A Critique of Deliberative Democracy” (1997) le ha così riassunte:

  1. l’immensa estensione del corpo politico, con decine e centinaia di milioni di votanti, il che nullifica l’ “importanza percepita” della propria partecipazione;
  2. la complessità isti­tuzionale, che rende difficile cogliere il rapporto fra il proprio voto e i suoi effetti reali;
  3. la anonimità dei processi di formazione della volontà poli­tica, sempre meno mediati da interazione “in presenza”;
  4. l’irriducibilità del pluralismo culturale.

Completerei la lista con una quinta condizione, concettualmente interna al quadro teorico di Michelman, ovvero la crescente differenziazione della cittadinanza: gli stessi processi migratori che radicalizzano il pluralismo portano le nostre democrazie ad allontanarsi sempre più dalla fictio di un corpo politico coestensivo con i residenti entro un certo territorio e le rendono sempre più simili a quelle antiche, in cui i cittadini decidevano del destino dei tanti non cittadini.  A queste condizioni avverse ne vanno aggiunte altre, non così evidenti negli anni 80 e 90.

In primo luogo, il capitalismo degli ultimi decenni, con cui la democrazia del 21° secolo dovrà convivere, è profondamente diverso da quello postfordista. Il valore del lavoro diminuisce costantemente in Occidente e questa trasformazione ha un impatto che oltrepassa le relazioni capitale-lavoro e la stessa sfera economica. Assistiamo al tramonto del lavoro dipendente come generatore di ricchezza e di prestigio sociale e al tramonto della grande industria fordista: per Detroit il nemico più insidioso non è il sindacato, ma Wall Street. Inoltre, la finanziarizzazione dell’economia squilibra i rapporti di forza a favore di capitale e rendita e ridimensiona redditi, ricchezza e conseguentemente anche influenza politica dei ceti medi che ruotano attorno al lavoro dipendente.

Il riflesso di questa trasformazione sulle prospettive elettorali dei partiti che storicamente hanno rappresentato il lavoro è stato imponente: questi partiti o si sono radicalmente trasformati o hanno subito un dimagrimento più o meno drastico.  Il riflesso sociale è che il lavoro salariato diventa flessibile, precario, malpagato, de-sindacalizzato ed “esternalizzato”. Il reddito dei top-manager, dei professionisti-star, e in genere delle star sportive, artistiche e dello spettacolo raggiunge livelli spettacolari che non hanno paragoni rispetto alla realtà del resto della gente che lavora, come hanno sostenuto molti tra cui Stiglitz nel suo Price of Inequality. Come testimoniano i movimenti che si propongono come rappresentanti del 99% (Indignados, Occupy Wall Street), la diseguaglianza non è mai stata così scandalosamente stridente in una società democratica.

Inoltre la finanza appare più in grado di generare ricchezza che non la produzione e i suoi strumenti divengono sempre più virtuali, disancorati da qualsiasi benchmark misurabile nel “mondo reale”. Al posto dei cicli economici subentrano le “bolle” e le loro esplosioni: prima la bolla delle dot.coms, poi quella immobiliare, alimentata dalla crisi dei mutui subprime cartolarizzati. Ciò in quanto da almeno tre decenni la ricchezza si crea sempre più non solo attraverso l’investimento diretto in produzione e servizi, bensì attraverso la speculazione su mercati. Secondo la stima di Stiglitz all’inizio del XXI secolo negli Stati Uniti il 40% dei profitti derivava dalla finanza (Stiglitz J. in Time for a Visibile Hand  a cura di J.E. Stiglitz et al., Oxford University Press, 2010).  Inoltre, questo mercati sono globali, disancorati da qualsiasi contesto nazionale o regionale, sono divenuti sempre più virtuali e tendono ad esercitare una nuova forma di “potere assoluto” (per un approfondimento di questa nozione si può vedere Ferrara A. in Politica & Società, n. 1/2015). Si tratta di una condizione quanto mai inospitale per la democrazia.

Inoltre, l’accelerazione del tempo societario verticalizza i rapporti sociali e politici. C’è sempre meno tempo per collegialità, deliberazione, consultazione. Partiti, aziende, ma anche ONG che vogliano essere riconoscibili, o redazioni di giornale, devono pronunciarsi, vendere e investire, cogliere occasioni di visibilità, uscire con una notizia prima dei concorrenti, in un mondo in cui il tempo è il “tempo reale” di Internet. Questa necessità profila in modo più pronunciato la riconoscibilità, la discrezionalità e in ultima analisi il potere del leader, del CEO, del responsabile, del direttore di testata. La democrazia non può rallentare il tempo della vita sociale, ma dovrà misurarsi con la sfida di neutralizzarne l’impatto verticalizzante.

Un’ottava condizione inospitale è data dalla crescente incapacità dello Stato nazione “medio” di misurarsi con i flussi migratori, la criminalità organizzata, il terrorismo, il mutamento climatico, la sicurezza internazionale e la conseguente spinta all’aggregazione sovranazionale. L’UE è il battistrada di un processo, replicato da ASEAN, Mercosur, Ecowas, che pone la democrazia di fronte alla necessità di sopravvivere alla dissoluzione del nesso di nazione, apparato statale, mercato nazionale, cultura, lingua e memorie comuni a cui era collegato il suo fiorire nel moderno sistema degli Stati-nazione. Governance è la parola chiave, ma non è ancora chiaro come si possa distinguere fra governance democratica e governance tecnocratica.

Ancora, la sfera pubblica delle società democratiche subisce nuove trasformazioni. L’audience atomizzata dei media generalisti inizia a riaggregarsi sotto l’effetto dei social media, i cui destinatari non sono atomi, ma molecole sociali costituite da individui che si conoscono. Ritornano gli opinion leader che filtrano la comunicazione. Il grande squilibrio fra emittenti concentrate, ad alta intensità di capitale, e riceventi dispersi e passivi comincia ad appianarsi. Però la disponibilità di notizie nella rete sta generando una crisi strutturale del giornalismo di qualità. Il giornale vende notizie ottenibili prima e gratuitamente sulla rete, e da qui il declino delle vendite e la minore appetibilità per il mercato pubblicitario. La democrazia del futuro dovrà fare i conti con una sfera pubblica influenzata da queste trasformazioni.

Infine, l’utilizzo sempre più esteso dei sondaggi per misurare il consenso rispetto all’azione di governo altera gli equilibri democratici. La legittimità “percepita” dell’azione di un governo – un tempo semplicemente collegata all’ultimo risultato elettorale – assume l’andamento altalenante del mercato azionario: esibisce trend ascendenti o discendenti,  cadute e “rimbalzi”. Queste oscillazioni conferiscono credibilità diversa alle politiche  dell’esecutivo e soprattutto inducono gli altri poteri a reagire diversamente, modificando così i checks and balances. Una cosa è la loro risposta all’agire di un governo quando l’esecutivo goda del 65% dei consensi, tutt’altra quando i sondaggi mostrano un calo dei consensi sotto il 50%, il tutto sempre rimanendo per definizione immutato l’ultimo risultato elettorale.

La trasformazione della liberal-democrazia. Se questo è il quadro delle condizioni con cui la democrazia deve misurarsi, quali mosse adattive può essa mettere in campo? La democrazia non ha solo “subìto” trasformazioni ma da 30 anni a questa parte si è anche autoriformata, nella visione che il liberalismo politico di John Rawls è venuto elaborando.

Segnalo una sola operazione autotrasformativa, che riguarda la risposta che possiamo dare oggi alla domanda che aprì in Occidente la conversazione intorno alla politica: cosa distingue l’uso legittimo del potere dall’uso arbitrario della forza? Ascoltiamo la risposta di John Rawls a questa domanda:

“noi esercitiamo il potere politico in modo pienamente corretto solo quando lo esercitiamo in armonia con una costituzione tale che ci si possa ragionevolmente aspettare che tutti i cittadini, in quanto liberi ed eguali, ne accolgano, alla luce di principi e ideali accettabili per la loro comune ragione umana, gli elementi essenziali” (J.Rawls, Liberalismo politico, nuova edizione ampliata, Einaudi 2012, p. 126).

Come tutte le definizioni, questa formulazione parla attraverso il non-detto. La frase “in armonia con una costituzione” contrasta con “in armonia con il volere dell’ultima maggioranza espressa da regolari elezioni”, “in armonia con ciò che il Paese desidera”, “in armonia con le nostre tradizioni politiche”, “in armonia con la Bibbia, il Corano o un altro testo sacro”, non dice nulla di tutto questo. Dice “in armonia con una costituzione”, che dunque – scritta o non scritta – deve esistere. E che possa ragionevolmente ricevere il consenso di tutti i cittadini – non solo di quelli credenti, abbienti, di una certa etnia, di un certo genere, o di un certo orientamento politico. Infine, il consenso nei confronti degli elementi essenziali della costituzione va dato da tutti i cittadini alla luce di principi ed ideali accettabili alla loro comune ragione umana, ovvero per ragioni di principio, etiche, e non prudenziali, quali il timore delle conseguenze politiche del mancato accordo.  Una costituzione accettata per timore della guerra civile può legittimare un cessate il fuoco con le armi sotterrate, ma non l’esercizio del potere in un quadro stabile e duraturo.

Questa definizione del potere legittimo, formulata nel 1993, rappresenta una risposta, da parte della democrazia, ad alcune delle condizioni inospitali di cui abbiamo parlato. Due implicazioni sono a mio avviso essenziali. Primo, Rawls prende atto che nelle condizioni storiche sopra elencate è impensabile valutare la legittimità di un ordinamento politico prendendo come metro la possibili­tà che ogni suo segmento incontri il consenso dei cittadini. Ci saranno sempre aspetti dell’azione di governo, dell’opera­to dei magistrati o dell’attività legislativa del parlamento che un singolo cittadino esperirà come ingiusti nei confronti della sua persona, parte politica o categoria so­ciale.

Al posto del lockeano tacito “consenso dei governati” subentra l’idea, proposta in We the People da Ackerman, che misurare la legittimità di un ordinamento politico in base al suo essere accettato da ogni cittadino ha senso solo per un livello “alto” del diritto e del sistema politico – il livello della costituzione, peraltro presa solo nei suoi aspetti principali – mentre gli atti legislativi, amministrativi e giudiziari di livello “ordinario” si legittimano per mera conformità al quadro costituziona­le.

Secondo, non esiste più la centralità del parlamento. La branca legislativa è solo una fra tre e non dotata di un particolare valore: la sovranità popolare si esprime in egual misura anche nelle altre. Dunque la politica “normale” quale crocevia di interessi e lobby particolariste non va  demonizzata, perché in essa il “popolo” è silente. Il titolare della sovranità non si cura di leggine ad hoc. Si pronuncia solo sulle revisioni o gli emendamenti alla Costituzione, soprattutto in sistemi come quello statunitense in cui la ratifica è prevista sempre.

Riassumendo: alle condizioni del 21° secolo la democrazia può rispondere rivedendo la sua nozione di legittimità e apprendendo a funzionare meglio su scala sovranazionale. Chiudo quindi con una nota di fiducia. Non si sono mai viste condizioni così inospitali per la democrazia, ma la capacità autoriformatrice della democrazia – sopravvissuta al passaggio dalle piccole città-Stato ai grandi stati-nazione della modernità – è maggiore di quella di qualunque altro regime politico.

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