Crisi finanziaria: crisi sociale

E’ difficoltoso in pochi capoversi  affrontare la crisi economica in atto, ma è doveroso almeno tentare di delinearne i tratti principali, per prendere coscienza come cittadini della sua gravità non solo economica, ma anche sociale, culturale e persino morale. Sempre più incessante è l’esigenza di ricominciare a chiederci dove stiamo andando, quali sono i progetti dell’umanità per il suo futuro: è nei momenti di crisi che parole come “sviluppo umano”, “bene comune”, “dignità dell’uomo”, “giusta retribuzione”, si manifestano, anche ai più distratti e indifferenti, in tutta la loro concretezza. La lezione di Paolo Sylos Labini, che già nel 2003 nel suo “Le prospettive dell’economia mondiale”[1] formulava previsioni pessimistiche sui futuri andamenti economici degli Stati Uniti d’America e del resto del mondo, è il principale riferimento delle seguenti riflessioni.

La crisi americana è una crisi strutturale e mondiale. I suoi effetti iniziali si sviluppano all’interno del settore finanziario, ma le sua cause partono dal sistema produttivo e i suoi effetti di medio-lungo periodo riguardano l’economia reale e quindi la società intera. E’ una crisi nella quale emerge tutta la fallacia di un’economia dominata dal libero mercato che, lasciato a se stesso, porta inefficienza ed iniquità. Dai primi anni ’90 ci sono state numerosi innovazioni di tipo tecnologico, basti pensare all’elettronica, all’informatica e alle telecomunicazioni, che hanno comportato  crescenti guadagni di produttività e risparmi di costi. In mercati caratterizzati dalla concorrenza le imprese utilizzano i frutti dell’innovazione per divenire più competitive, potendo permettersi di ridurre i prezzi; se le innovazioni tecnologiche permettono di ridurre i costi del 20%, si potrà diminuire il prezzo di circa lo stesso ammontare, così presumibilmente si riuscirà a catturare un numero maggiore di consumatori. Ma dagli anni ’90 si è assistito ad un rafforzamento del potere di mercato delle grandi imprese con un irrigidimento delle posizioni oligopolistiche: poche imprese controllano il mercato impedendo in modo concordato riduzioni di prezzi, grazie alla presenza di barriere di vario tipo (tecnologiche, commerciali e finanziarie) che rendono impossibile l’entrata di nuove imprese e quindi impediscono lo svolgersi di una sana concorrenza.

D’altra parte un altro aspetto caratterizza l’economia americana dagli inizi degli anni ’90: il progressivo indebolimento dei sindacati, con il conseguente arretramento delle condizioni dei lavoratori in termini di qualità del lavoro e di retribuzioni reali. Per questo le grandi imprese americane, non essendo insediate né dalla concorrenza né della pressione sindacale, hanno ritenuto opportuno trasformare i frutti delle innovazioni in profitti ed in stipendi per i manager.

Dal punto di vista sociale, vi è stata una crescente sperequazione non solo tra lavoro e capitale ma anche tra lavoratori dipendenti e grandi manager strapagati, ed in generale un incremento della distanza tra ricchi e poveri. Dal punto di vista economico, si è innescato un processo perverso di crescente finanziarizzazione dell’economia: da una parte si è sviluppato in modo vigoroso il settore finanziario per convogliare i risparmi dei “ricchi” verso nuove opportunità di guadagno, in quanto il calo dei consumi dovuto alla perdita di potere d’acquisto dei lavoratori rendeva meno redditizi gli investimenti “reali”, d’altra parte, proprio per evitare il crollo di quest’ultimi, si sono incentivati i consumi attraverso l’indebitamento delle famiglie. Inoltre, soprattutto negli ultimi anni, le politiche hanno aiutato tale processo fondamentalmente attraverso una fiscalità favorevole ai “ricchi”, una spesa pubblica con priorità di tipo militari più che sociali, ed una politica monetaria sempre pronta ad iniettare liquidità nel settore finanziario con spirito poco critico e molto servile.

E’ all’interno di questo quadro, che hanno preso vita  speculazioni immobiliari, strumenti finanziari innovativi sempre più complessi, società “d’avventura”. La finanza non è  più al servizio dello sviluppo economico, distribuendo la ricchezza tra risparmiatori e investitori, bensì è divenuta serva dell’accrescimento del profitto fine a se stesso. In effetti le banche hanno incentrato le loro attività sugli investimenti finanziari più che sull’intermediazione tra depositanti e imprenditori e quest’ultima è stata stravolta, perché la stretta interazione tra banche e società finanziarie satelliti ha comportato una prima trasformazione del prestito bancario in titolo finanziario ed una seconda trasformazione in un altro titolo finanziario più complesso. In sintesi  si stravolge la natura dell’operazione: da “finanziario-economica” a “finanziario-speculativa”. Ciò ha causato un incremento potenziale di guadagno accompagnato da un incremento del rischio sempre meno gestibile e trasparente; se il rischio inizialmente era legato all’attività (conosciuta) dell’imprenditore (conosciuto) che prendeva un prestito e i cui interessi convergevano con la banca, alla fine il rischio dipendeva da giochi d’azzardo (sconosciuti) eseguiti da un rete intrecciata di società poco trasparenti che, a prescindere dal buon fine dell’operazione, guadagnavano  comunque sulla commissione (certa). Infine l’altro elemento critico è stato il conflitto di interessi dei soggetti che da una parte valutano il rischio del titolo e dall’altra guadagnano dalla vendita dello stesso sul mercato. Ad Agosto 2007, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la difficoltà di pagamento di coloro che avevano acceso un mutuo e a catena sono “crollati” i titoli finanziari ad essi legati dal quella indistricabile rete di prodotti finanziari. A settembre 2008 con il fallimento della Lehman Brothers il vaso si è rotto!

Agli inizi degli anni ’90 la nuova macchina finanziaria nata per dare sbocco agli ingenti profitti dovuti alle innovazioni ha col tempo incrementato il suo bisogno di benzina per alimentarsi, e questa è stata fornita non solo dallo Stato ma anche dai lavoratori dipendenti attraverso la partecipazione ai fondi pensione, gli indebitamenti presso le finanziarie per non modificare le abitudini di consumo e i  mutui facili. Insomma questa crisi non è né americana né finanziaria ma è una crisi strutturale e mondiale: ha il suo cuore nella struttura interna del capitalismo selvaggio oggi dominante ed il suo raggio di azione nel mondo, perché gli Stati Uniti sono la locomotiva che trascina e dirige l’economia mondiale.

Da quanto detto si comprende come i legami tra finanza ed economia siano strettissimi: la prima conduce la seconda dove vuole ed in questo momento verso luoghi poco ameni. La crisi comporta spirali negative, eventi che si cumulano  a partire dalle società finanziarie, passando per le banche e terminando nelle imprese: fallimenti finanziari si traducono in licenziamenti, crolli di consumi, e di conseguenza di investimenti e di nuovo di fallimenti finanziari; nel momento di massima richiesta di prestiti da parte delle imprese  per risollevarsi corrisponde il minimo della disponibilità a prestare da parte delle banche. Solo l’intervento dello Stato può spezzare questi circoli viziosi che trascinano l’economia verso il basso, non solo però offrendo risorse pubbliche per sanare le ferite, ma attraverso riforme strutturali che coinvolgano i mercati dei beni, del lavoro e del credito, per ricondurre l’economia all’interno di binari sani e solidi che riportino la finanza al servizio dello sviluppo economico e questo al servizio dello sviluppo umano. Come questa crisi insegna, queste parole non sono vuote, ma ricche di significato politico e culturale.

Tutti i paesi subiscono e subiranno contraccolpi importanti, basti considerare che una colonna portante su cui si regge il mercato finanziario americano è costituita da notevoli quantità di capitali esteri derivanti dall’Europa  e soprattutto dai paesi emergenti. In particolare la crisi si rifletterà sui paesi poveri attraverso tre canali. Primo: nell’ambito creditizio, il crollo dei titoli finanziari comporta  direttamente o indirettamente la diminuzione del patrimonio anche delle banche in quelle aree ed inoltre le banche estere in sofferenza di liquidità, vista la crisi, riducono la loro propensione al rischio e tutto ciò  conduce ad una significativa stretta del credito internazionale. Secondo: il crollo dei prezzi delle materie prime dovuto allo scoppio delle  bolle speculative si traduce in riduzione del valore delle esportazioni dei paesi più poveri, ancora più grave poiché  le loro economie dipendono fortemente dal saldo della bilancia commerciale (esportazioni meno importazioni). Terzo: con la crisi generalizzata i paesi ricchi si chiudono maggiormente su se stessi, riducendo gli aiuti internazionali e mutando le mete del loro svago e quindi si ridimensiona la voce turismo che, ad esempio, per alcuni paesi africani rappresenta un’importante fonte di ricchezza.

Don Sturzo asseriva che l’economia senza etica è “diseconomia”, ossia lo sviluppo economico deve essere sostenuto da una base valoriale forte e condivisa altrimenti gli egoismi senza scrupoli dei singoli si trasformano alla lunga in fallimenti collettivi, come sta accadendo. Ma né l’Italia nè, purtroppo, l’Europa offrono oggi le condizioni per ricostruire una tale base: per il logoramento dei valori che l’Italia patisce e per l’incapacità dell’Unione di costruire una comunità di cittadini europei.

[1] SYLOS LABINI P. (2003a) ‘Le prospettive dell’economia mondiale’, Moneta e Credito, n.223, pp. 267 95. Vedi anche, RONCAGLIA A. (2010), Economisti che sbagliano. Le radici culturali della crisi. Roma-Bari, Laterza, in attesa di pubblicazione e CORSI M. e GUARINI G. e (2010) “Financial crises and cyclic development according to the approach of Paolo Sylos Labini”, Journal of Applied Economic Sciences, in attesa di pubblicazione.

 


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