Crescita occupazionale, lavoro discontinuo e semioccupazione. La crisi del mercato del lavoro è finita o c’è un problema di misurazione?

Leonello Tronti esamina le recenti tendenze dell’occupazione in Italia. Dopo avere osservato che da ottobre del 2013 gli occupati sono aumentati in media annua di più di un milione di unità, Tronti sottolinea che si sono notevolmente ridotte le ore lavorate pro capite per un ammontare corrispondente a un milione e mezzo di occupati in confronto con il 2008 e individua nella semi-occupazione la causa principale di queste tendenze. La sua conclusione è che queste evoluzioni impongono di rivedere la misurazione ufficiale dell’occupazione.

Il mercato del lavoro italiano è fuori dalla crisi? L’occupazione è in crescita da tempo e questo fatto costituisce senz’altro un netto miglioramento in termini quantitativi rispetto al periodo precedente. Nei dati mensili dell’indagine sulle Forze di lavoro dell’Istat, la crescita occupazionale inizia a ottobre 2013 e prosegue quasi ininterrottamente per 49 mesi, fino a novembre 2017, con un incremento complessivo del numero degli occupati del 4,6%: 1 milione e 19 mila unità in più, poco meno di 21 mila occupati aggiuntivi ogni mese. Nel picco di novembre 2017, l’occupazione (persone che dichiarano di aver svolto almeno un’ora di lavoro retribuita nella settimana di riferimento) raggiunge il valore di 23 milioni e 133 mila unità, poco al disotto del picco di aprile 2008 (23 milioni e 171 mila), quando toccò il livello più elevato sinora raggiunto dalla serie storica delle Forze di lavoro Istat (figura 1).

Figura 1 – Occupati (asse sx) e persone in cerca di occupazione (asse dx) – Gennaio 2007-dicembre 2017 (migliaia)

I risultati relativi al numero delle persone occupate appaiono senz’altro positivi, anche se non proprio invidiabili per il tempo impiegato – poco meno di 10 anni – per riassorbire lo shock occupazionale della grande recessione. Ma quali sono le evoluzioni qualitative dell’occupazione? Una prima risposta a questa domanda la si può ottenere dai dati delle ore lavorate diffusi dalla Contabilità nazionale dell’Istat.

La figura 2 mostra come si sono evolute occupazione e ore lavorate – e quindi anche ore per occupato – dal 2008 al 2016, ultimo anno disponibile. Se in media d’anno, nel 2016 gli occupati erano ancora il 2,1% in meno rispetto al 2008, molte più – il 6,6% – erano le ore lavorate mancanti. In altri termini, con la crisi non solo si è ridotta l’occupazione, ma ancor più sono diminuite le ore lavorate pro capite (fino al 2014); tanto che, al livello attuale delle ore lavorate annualmente per occupato, per tornare al volume di ore del 2008 sarebbero necessari 1 milione e 743 mila occupati in più. I dati mensili delle Forze di lavoro visti sopra ci fanno prevedere che il dato annuale 2017 dei Conti nazionali mostrerà che questi gap si sono ulteriormente ridotti, più o meno all’1% per l’occupazione e al 5% per le ore lavorate. Ma se anche fosse così, mancherebbero comunque ancora circa 1 milione e mezzo di occupati per tornare al volume di lavoro impiegato dall’economia 10 anni prima.

 Figura 2 – Occupati, ore lavorate e ore per occupato – Anni 2008-2016 (numeri indice in base 2008=100)

Nell’insieme, la riduzione dell’orario annuo è dovuta a fenomeni diversi, che vanno dall’estensione del part-time all’andamento della Cassa integrazione fino all’aumento della cosiddetta semioccupazione (L. Tronti e R. Gatto, “Measuring the Long Wave. Unemployment, Discouragement and Semi-Employment in Italy, During and After the Crisis”, in Parodi G. and Sciulli D. (eds.), Social Exclusion. Short and Long Term Causes and Consequences, Physica Verlag, Heidelberg, 2012), ovvero alla crescente rilevanza degli impieghi con un contenuto orario annuale ridotto, quali: contratti a tempo determinato, lavori in somministrazione, lavori stagionali, collaborazioni, lavori a chiamata, lavori occasionali, lavoretti nella gig o nella sharing economy, lavori irregolari.

Sotto il profilo qualitativo, quindi, con la crisi si è ridotta la quantità di impieghi standard, a orario pieno e a tempo indeterminato e, corrispondentemente, il mercato del lavoro si è trasformato profondamente. Tra il 2007 e il 2016 i lavoratori impegnati per 41 e più ore la settimana si sono ridotti dal 24,5 al 18,2% del totale. E se quelli con un orario di 40 ore sono rimasti pressoché stabili (dal 36,1 al 36,7%), quelli con orari da 1 a 39 ore settimanali sono invece cresciuti dal 39,4 al 45,1% del totale. In parallelo, i dipendenti a termine sono passati dal 13,2% del totale nel 2007 al 15,4% nel 2017. La Tabella 1 mostra l’evoluzione dei segmenti occupazionali a orario ridotto tra il 2008, anno di picco occupazionale prima della crisi, il 2013, anno di massimo calo dell’occupazione e il 2017. L’entità complessiva di questi segmenti passa da 7,5 milioni nel 2008 a 9,7 milioni nel 2017, con un incremento di 2 milioni e 200 mila unità (29,5%). L’aumento è particolarmente consistente per i dipendenti con contratto di lavoro a tempo indeterminato e orario part-time (840 mila in più).

Tabella 1 – Tipologie di lavoro a orario ridotto – Anni 2008, 2013 e 2017

Il carattere temporaneo degli impieghi di segmenti crescenti dell’occupazione fa sì che tra le due condizioni di occupato e disoccupato, mutualmente esclusive secondo la rappresentazione statistica tradizionale, venga a frapporsi un continuum di posizioni di “semioccupazione” (o, all’inverso, di “semidisoccupazione”), che inevitabilmente indebolisce il valore della tradizionale rappresentazione del mercato del lavoro restituita dalle statistiche ufficiali. Ciò si verifica anche indipendentemente dal fatto che le rilevazioni ufficiali riescano effettivamente a conteggiare correttamente forme lavorative atipiche e potenzialmente irregolari, come il lavoro in somministrazione, a chiamata, stagionale, le varie tipologie di collaborazione, il lavoro occasionale, quello nella gig economy, quello intermediato dalle piattaforme ecc.

Il dato trimestrale degli occupati a termine è cresciuto dal valore minimo di 2 milioni e 90 mila unità (2° trimestre 2010) ad un massimo di 2 milioni e 784 mila unità (3° trimestre 2017), mentre quello dei collaboratori si è ridotto da 488 mila nel terzo trimestre 2007 a 251 mila nel corrispondente trimestre del 2017, anche in virtù delle modifiche normative che hanno vincolato il ricorso a questi contratti. In media trimestrale, la platea dell’occupazione potenzialmente discontinua è passata così da 2 milioni e 578 mila a 3 milioni e 35 mila persone (pari al 13% cento degli occupati totali). Dunque, se la popolazione dei “semioccupati” in senso stretto, ovvero delle persone che non riescono ad assicurarsi un’occupazione continuativa attraverso impieghi a termine, fosse pari a due terzi di quella potenziale rilevata in media trimestrale dalle Forze di lavoro e fosse confermata la stima della durata media di un quadrimestre del tempo di lavoro annuo dei “semioccupati” (F. Carmignani “Lavoro precario e statistiche del lavoro. La difficile rivincita della oggettività del soggetto”, Economia & lavoro, 2009), l’effettiva consistenza di questo segmento dell’offerta di lavoro ammonterebbe non a 3 ma a 6 milioni di persone, cioè il doppio.

Il riconoscimento dell’esistenza di un segmento di semioccupazione di queste dimensioni non potrebbe non avere conseguenze di assoluto rilievo, non solo per la rappresentazione statistica del mercato del lavoro e per l’analisi dei comportamenti di offerta di lavoro ma anche, ad esempio, per il corretto dimensionamento delle politiche del lavoro e la previsione dei trattamenti pensionistici dei lavoratori discontinui. La grande recessione non ha mutato soltanto i rapporti sociali ma anche il modo di intendere il lavoro. Di conseguenza, per misurarlo correttamente, la statistica ufficiale deve adeguare le proprie tecniche.

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