Crescita economica e progresso umano. Discussione sui percorsi per uscire dalla crisi

Nel mese di maggio, dopo i convegni organizzati con il prof. Paolo Leon e con Giorgio Ruffolo, “Etica ed Economia” ha organizzato nella propria sede di Via Panaro un Workshop volto ad approfondire il dibattito anche in relazione a due posizioni diverse emerse sul probema della crescita. Per questo si è ritenuto utile discutere sull’idea di progresso e sul rapporto, in questa prospettiva, fra crescita, disuguaglianze e benessere. Il dibattito è stato aperto da Gilberto Seravalli, coordinatore scientifico di “Etica ed Economia, Maurizio Franzini e, in veste di discussant, da Marco Magnani. Hanno inoltre partecipato all’incontro: Jacopo Argilli, Luciano Barca, Francesco Bloise, Guido Carandini, Mattia Ciampicacigli, Gianluca Iannucci, Alessio Liquori, Giampiero Marchesi, Felice Roberto Pizzuti, Sergio Scicchitano, Lavinia Stoppani, Ludovica Tartagllione, Flavia Terribile, Lorenzo Toffoli, Vittorio Tranquilli,

Diamo un resoconto fondato su registrazioni e sintesi.

Gilberto Seravalli: Sulla crescita economica: anche una questione di metodo ?

Nelle lezioni organizzate da “Etica e Economia” e negli interventi che hanno suscitato è stata evocata spesso la questione della crescita: la crisi ci interroga sulle capacità e modalità di ripristinare i meccanismi della crescita, ma quale crescita? Non sta per caso accadendo che la crisi sia anche l’effetto di una crescita non più sostenibile con le modalità degli anni Novanta e primi anni Duemila?

Giorgio Ruffolo, in particolare, osserva che da un lato, in un contesto globalizzato, politiche economiche espansive siano molto problematiche, dall’altro pensa che la “crescita non è la soluzione del problema, ma è il problema”. La crisi quindi potrebbe essere l’occasione che spinga a rivedere le ragioni della crescita, un’operazione che avremmo dovuto fare anche a prescindere dalla crisi.

Affermando che la lezione Keynesiana deve intendersi non tanto come indicazione di terapie quanto come la migliore e più acuta diagnosi di cui disponiamo, Ruffolo sottolinea che si tratta di riconoscere come l’economia capitalistica non possa darsi gli obiettivi da sé, ma che questi devono essere individuati, quantificati e imposti dall’esterno. L’obiettivo che l’economia si dà da sé è la crescita, risultato dell’accumulazione del capitale, cioè un obiettivo “di tutto, di più”, come aumento continuo del Pil. L’obiettivo che dovrebbe essere dato all’economia dall’esterno (da parte della politica, della morale pubblica, della mobilitazione della società civile) sarebbe invece qualitativo: “di tutto, di meglio”, adoperando qualcosa come un indice di sviluppo umano, indice composito di condizioni di vita, superando così come misura di progresso il solo riferimento al Pil. La proposta parte, in effetti, da due premesse: esiste una relazione diretta tra degrado delle risorse naturali e crescita del Pil come determinato spontaneamente dall’economia, esiste una relazione diretta tra tale crescita ed una composizione del prodotto sociale che lascia insoddisfatti bisogni rilevanti. Si tratterebbe quindi di imporre all’economia un vincolo quantitativo alla crescita e concentrare le risorse e gli sforzi verso la modifica della composizione del prodotto sociale per rispondere ai bisogni insoddisfatti.

Per approfondire la questione, la prima domanda è quindi se e in che modo l’economia moderna sia compatibile con la determinazione esterna intenzionale (politica) del suo tasso di crescita.

Preliminarmente occorre stabilire se parliamo della crescita della produttività o della crescita del prodotto. Se si ragiona sulla crescita della produttività é abbastanza facile sostenere che essa può essere un obiettivo autonomo dell’economia capitalistica nei limiti in cui lo sia la crescita del prodotto, o che non possa esserlo. Bastano forse tre accenni: il primo ai modelli a rendimenti crescenti d’ispirazione Kaldoriana in cui la crescita della produttività dipende dalla crescita del prodotto, un secondo alla così detta crescita endogena ed il terzo alle indagini sul progresso tecnico (d’impostazione micro). Nel primo caso si è ricondotti alle ragioni della crescita del prodotto, aggiungendo con realismo, accanto ai meccanismi dei rendimenti crescenti, “funzioni di attrito” (esterne all’economia) per avere crescita sostenibile (anche in senso economico). Nel secondo caso, valga l’osservazione di Robert Solow secondo cui molti modelli di crescita endogena sono in fondo modi complicati per tornare a Harrod. In questo senso, di nuovo, la differente crescita della produttività in differenti sistemi economici è ricondotta alla differente crescita del prodotto. Nel terzo caso, valga il recente saggio di Mario Cimoli, Giovanni Dosi e Joseph Stiglitz nel quale si mostra come il progresso tecnico non sia stato e non sia possibile senza interventi intenzionali decisi dalla politica, che quindi può anche influire sulle sue caratteristiche.

Occorre dunque riferirsi alla crescita del prodotto. Ci si chiede, quindi, se la crescita del prodotto sia determinabile da decisioni esterne all’economia senza che essa venga meno. Per decisioni esterne intendiamo quelle che non sono prese dagli agenti economici in modo decentrato sulla base dei loro interessi, identità e visioni, ma da un’istanza “centrale” che abbia capacità e autorità di regolazione, di prelievo, di spesa e anche d’iniziativa promozionale o direttamente produttiva.

La questione rimanda in sostanza alle cause della crescita economica come formazione e riformazione del sovrappiù, se esse siano fondamentalmente interne o esterne alla sfera economica in senso stretto. E’ interessate tornare a questo proposito ad uno scambio di opinioni tra Claudio Napoleoni e Duccio Cavalieri. Scrive Cavalieri: “Dirò subito che non ritengo che la tesi di Napoleoni fosse fondata su basi teoriche valide. Essa ribaltava i termini naturali del problema. L’origine del sovrappiù non poteva essere trasferita con espedienti logici dalla sfera della produzione a quella delle preferenze intertemporali, così da far apparire il prodotto netto come dovuto alla combinazione di due facoltà originarie dell’uomo, il lavoro e l’astinenza dal consumo, poiché è proprio l’esistenza di un sovrappiù – cioè di un’eccedenza della produzione rispetto a quanto serve a reintegrare i mezzi produttivi e a riprodurre il consumo necessario – che rende possibile scegliere tra un aumento del consumo e la formazione di un risparmio. […] Quando, nel corso di un dibattito promosso da questa rivista, gli mossi quest’ultima obiezione, di natura economica, Napoleoni replicò, spostando l’asse del discorso su un piano ontologico, che «il problema non sussiste, perché non si dà, per nessuna di queste due cose, un prima o un dopo. Queste due cose, come si sarebbe detto un tempo, nascono da un parto solo. Sovrappiù e differimento del consumo sono la stessa cosa, vista una volta come operazione ed un’altra volta come risultato di questa operazione».”

Per la nostra discussione sulla crescita del prodotto sono utili entrambe queste posizioni. Mi sembrerebbe di poter dire che ha ragione Cavalieri se la domanda è sull’origine del sovrappiù a partire da un’economia a riproduzione semplice. Ma ha ragione Napoleoni se la domanda è sull’origine del sovrappiù in un’economia a riproduzione allargata. Se possiamo associare alle “due facoltà originarie dell’uomo”, il lavoro e l’astinenza dal consumo, i concetti, rispettivamente, di produttività (costante) del capitale e di propensione (media) al risparmio, l’idea di Napoleoni potrebbe essere ricondotta a quella di Harrod che applica in un contesto dinamico la lezione Keynesiana. Secondo Sir Roy Harrod, nel capitalismo di mercato il problema del difficile coordinamento di decisioni decentrate impone (affinchéla capacità produttiva venga utilizzata e quindi l’economia possa sussistere in senso dinamico) che la crescita sia tendenzialmente pari al prodotto di questi due valori. In questo senso è quindi vero che l’obiettivo della crescita è quello che l’economia si dà da sé. Ma non solo. E’ vero anche che questo non può non avvenire: l’economia non soltanto si detta l’obiettivo della crescita, ma se lo deve dettare. Tuttavia, avverte Harrod, la crescita come equilibrio dinamico non è automaticamente stabile, e non è socialmente sostenibile, in quanto la crescita “garantita” può essere differente dalla crescita “naturale”, mentre solo la loro eguaglianza mantiene costante il tasso di disoccupazione e quindi ne permette la sostenibilità sociale. Si potrebbe dire allora che, dati una capacità di risparmio maggiore di zero e una produttività del capitale maggiore di zero, l’obiettivo di crescita del prodotto maggiore di zero l’economia deve darselo da sé, ma nello stesso tempo è un obiettivo che essa non può raggiungere da sé. La risposta neoclassica secondo cui tale obiettivo può essere anche raggiunto autonomamente dall’economia capitalistica di mercato ed è socialmente sostenibile richiede ipotesi piuttosto forti sulla tecnologia e sul funzionamento del mercato del lavoro. Nell’impostazione Keynesiana-Harrodiana la politica è dunque al servizio dell’economia che deve crescere, ma di quanto debba crescere lo decide la politica. L’economia quindi sarebbe autonoma circa il “se” della crescita, mentre non lo sarebbe circa il “quanto”. La politica determinerebbe autonomamente questo quanto regolando i fattori che sono alla base del risparmio, della produttività del capitale, influendo sulle attese degli investitori e regolando il mercato del lavoro, anche mediante, ovviamente, la distribuzione del reddito.

La politica può quindi anche decidere che l’economia debba avere crescita limitata per ridurre la pressione sulle risorse naturali in esaurimento, e questo per l’aspetto quantitativo. Inoltre, per l’aspetto qualitativo, la politica può anche imporre una modifica della composizione del prodotto. Per esempio, un aumento del prelievo fiscale finalizzato a finanziare servizi sociali riduce il risparmio (ed il tasso di crescita) e sostituisce consumi pubblici a consumi privati modificando la composizione della domanda effettiva e quindi del prodotto.

Fin qui l’impostazione di Ruffolo non fa una grinza.

Vi saranno però anche conseguenze meno gradevoli. Per coglierle è utile forzare l’ipotesi di bassa crescita quantitativa e immaginare che sia ridotta a zero. Vale allora l’osservazione di Cavalieri che si colloca, per così dire, nella situazione in cui si tratta di vedere da che cosa dipenda crescita o non crescita (mentre l’osservazione di Napoleoni mi pare riguardi la situazione in cui si tratta di vedere da che cosa dipenda la crescita da zero escluso in avanti). La seconda domanda che ci si può porre è quindi se l’economia capitalistica di mercato sia in grado e come di sussistere con crescita zero. Il tema è, allora, quello della formazione originaria del sovrappiù sul quale molto si potrebbe dire. Basta però forse considerare che esso esiste se il prodotto non è esaurito dalle rendite (destinate a consumi di lusso e in generale a spese improduttive, comprese quelle necessarie ad acquistare consenso non meritato da parte delle classi dirigenti), dal consumo necessario e “da quanto serve a reintegrare i mezzi produttivi”. Pertanto, crescita zero si potrebbe ottenere con interventi regolativi e fiscali che esauriscano il sovrappiù: per esempio elevando mediante regolamenti e prelievo il valore del reintegro dei mezzi produttivi per comprendere anche il consumo delle risorse naturali e aumentando il valore del consumo necessario a comprendere anche il soddisfacimento di bisogni sociali insoddisfatti. (A questo scopo si potrebbe, come è in fondo avvenuto con il welfare, abbandonare un concetto di sussistenze come date da ragioni “naturali” e introdurne uno in cui le sussistenze comprendono anche consumi resi essenziali e irrinunciabili come “diritti di cittadinanza”). Queste misure però, se riducessero davvero severamente profitti e crescita, avrebbero conseguenze negative nella forma di probabile aumento delle rendite. Da una parte l’aumento del “tasso di regolazione” e della pressione fiscale aumenterebbe il rischio che la politica debba incrementare le spese per il suo funzionamento e soprattutto per mantenere il consenso aprendo la porta alle spese per il consenso non meritato. Dall’altro la compressione dei profitti spingerebbe i capitalisti ad aumentare il loro controllo privato sulle risorse naturali per lucrarne le rendite. In questo modo il conflitto sociale sarebbe tra lavoratori e rentiers, proprio quel secolare drammatico conflitto che percorse e continua a percorre il mondo senza sovrappiù. Il sistema capitalistico con sovrappiù può essere visto in effetti come una modalità di funzionamento sociale che ha spostato il conflitto dalla terra al sovrappiù, in cui si confrontano, ma in un gioco a somma positiva in senso dinamico, lavoratori e capitalisti ed entrambi sono oggettivamente alleati contro i rentiers. Può essere istruttivo considerare che a proposito della desiderabilità della crescita zero, è molto spesso citato il passo di John Stuart Mill (Principi di Economia Politica, Libro Quarto, Capitolo VI: Dello Stato Stazionario) che comincia così: “Non posso quindi considerare lo stato stazionario del capitale e della ricchezza con l’aperta avversione così generalmente manifestata verso di esso dagli economisti della vecchia scuola.” Si tralascia sempre però di citare la condizione che per Stuart Mill rende desiderabile lo stato stazionario, che é il superamento dell’ambizione universale a voler diventare più ricchi: “Molto più auspicabile è invece, finché la ricchezza continuerà a rappresentare il potere, e il diventare più ricchi possibile continuerà ad essere oggetto dell’ambizione universale, che la via per giungere alla ricchezza sia aperta a tutti, senza favori o parzialità.” In definitiva, su questo snodo teorico centrale posto dalla prospettiva di crescita zero, mi pare che si potrebbe dire così: essa sarebbe non solo desiderabile ma anche concretamente fattibile se già ne potessimo vedere i frutti, cioè se tutti, lavoratori, capitalisti e rentiers, ne percepissero i vantaggi dati da un prodotto sociale più adeguato rispetto ai bisogni effettivi; altrimenti la crescita zero (ex-ante) vanificherebbe l’attesa di appropriazione di ricchezza futura, spingendo tutti a competere sulla ricchezza presente che darebbe luogo a ulteriori tentativi di privatizzazione delle risorse scarse, il contrario di quello che la crescita zero si propone. Non è, del resto, un tema solo teorico. Basti forse considerare la corsa alla speculazione edilizia, che ha sostenuto la poca crescita che abbiamo avuto negli ultimi dieci anni anche (forse soprattutto) nelle regioni delle piccole imprese, compresa l’Emilia-Romagna.

Purtroppo, perciò, la crescita zero dovrebbe essere imposta da un esaurimento delle risorse naturali che metta tutti d’accordo di fronte al disastro. Ma allora essa resterebbe inevitabilmente un risultato del disastro e non un modo per prevenirlo.

A meno che, e qui si vede una via d’uscita, si crei una nuova capacità d’innovazione delle tecniche che risparmi risorse naturali e, vanificando la speculazione su di esse, tenga sempre aperta la forbice tra consumo necessario e rendite (dando perciò spazio al profitto). In questo caso, però, non sembra si possa avere crescita zero, ma ne consegue necessariamente crescita positiva. Questo emerge anche in modelli recenti e complessi, come illustrato nella rassegna di William Brock e Scott Taylor (2010).

La mia impressione è in sintesi che nel sistema capitalistico di mercato non vi siano strade semplici. Con crescita economica positiva dobbiamo vedercela con i capitalisti e con l’aumento del Pil la cui composizione non ci soddisfa; con crescita zero dobbiamo vedercela con i rentiers. Resta la via dell’innovazione, ma questa è un’altra storia.

E qui la mia intenzione era di chiudere. Sennonché.

Sennonché, discutendo con Luciano Barca di questo workshop, sono tornato a ragionare della definizione che lui dette del capitalismo nel libro “Del capitalismo e dell’arte di costruire ponti” in cui scrisse che “il capitalismo è un processo di separazioni”, e del ricco dibattito allora aperto in Italia sulla crisi del 1998 intesa da molti come frutto della separazione della finanza (in posizione dominante) dal processo produttivo di beni reali. Proprio tale separazione rendeva ancor più difficile misurare lo sviluppo con la crescita del PIL che tratta allo stesso modo beni reali e prodotti finanziari.

In quel libro emergono tre principali considerazioni. La prima riguarda le “separazioni” operate in molti ambiti dal capitalismo rampante (da quella tra lavoro e mezzi di produzione a quella tra valore d’uso e valore di scambio fino alla separazione tra capitale finanziario e processi produttivi reali) che vanno oltre le positive “distinzioni” (che permettono la specializzazione), separazioni alle quali occorre rimediare. La seconda riguarda l’interpretazione dei distretti industriali come esempio virtuoso di sviluppo delle divisioni non separanti. La terza, infine, riguarda la terapia che nel 1998 (ma già nel 1945) molti videro nella socializzazione della politica finalizzata soprattutto alla crescita di un settore no-profit e, in generale, di un ambito di economia-società-politica in cui la reciprocità porta alla produzione diretta di beni e servizi di vera utilità collettiva ovvero a blocchi di domanda di queste utilità.

I tre punti compongono un quadro assolutamente coerente. Lo schema, se mi posso permettere una drastica semplificazione, presenta le distinzioni o specializzazioni proprie del capitalismo come equilibrio in cui idealmente l’economia è guidata da piccole decisioni decentrate su cui influiscono le intenzionalità di policy. Tale equilibrio si è rotto perché attori forti nell’economia sono stati in grado di praticare esattamente le stesse distorsioni nei prezzi (imponendo regole e politiche della propria casa e influenzando attraverso queste, e in qualche caso anche attraverso l’uso della forza, le decisioni dei consumatori) che noi siamo abituati a considerare come poteri propri ed esclusivi dell’operatore pubblico. In ciò le distinzioni hanno assunto la valenza di separazioni. Nei distretti industriali questo non è avvenuto o è avvenuto meno ed il loro successo indica che il potenziale di crescita del benessere è maggiore quando le distinzioni non sono separazioni. La policy quindi deve ora allearsi con attori specifici dell’economia, non più soltanto per spostare la distribuzione un po’ a favore dei lavoratori ma anche, soprattutto in prospettiva, per guidare meglio la composizione del prodotto e l’uso del capitale. Questi attori, con i quali la politica deve cercare alleanze, sono le persone e le comunità in grado di attivare circuiti produttivi a divisione del lavoro ma senza separazioni, ossia forme produttive dirette (no-profit) o indirette (blocchi di domanda nuovi) in cui il principio organizzativo è la reciprocità e non l’anonimo confronto.

Questo schema offre una prospettiva diversa sia da quella di Ruffolo, perché non implica crescita zero, sia da quelle che richiedono politiche generali richiedendo invece alleanze con specifici attori. E’ una prospettiva interessante che può anche vantare precedenti storici (in Italia ed in altri paesi) che emersero dagli studi sulle numerose nuove cooperative (in parte nate da imprese in crisi) costituite a metà degli anni Ottanta. Ragionando su questi episodi, mi ricordo che allora si applicavano, senza troppe forzature, i principi autogestionari che dimostravano la possibilità, in un regime di mercato, della sussistenza di imprese in cui il lavoro acquista il capitale e non viceversa.

Tornando al modello classico, questa idea introduce il concetto di “residuo”, cioè quello che potrebbe restare dopo tolte dal prodotto le rendite, il consumo necessario, il ripristino dei mezzi di produzione e il profitto; ossia quello che potrebbe restare dopo tolto il profitto dal sovrappiù. L’esistenza di un residuo non è automatica nel sistema capitalistico di mercato, ma potrebbe essere introdotta intenzionalmente dalla politica “espropriando”, per così dire, una parte delle rendite e dei profitti mediante una legislazione in grado di favorire l’area dell’autogestione (per usare un termine sintetico e approssimativo). Il risultato sarebbe che il “comando” su una parte del sovrappiù sarebbe sottratto ai capitalisti e messo a disposizione diretta di lavoratori e consumatori, ma collettivamente, non perché lo consumino ma perché lo impieghino per una crescita più utile e meno “inquinante”. In sostanza, posto un certo sovrappiù, una frazione (profitti) darebbe luogo a una parte della crescita controllata dai capitalisti e a una parte (dovuta al residuo) controllata da meccanismi di reciprocità.

Tuttavia, anche proprio sulla base dei precedenti storici e partendo da un’interpretazione in parte diversa dei distretti industriali, mi sembra che lo schema lasci un po’ in ombra una pre-condizione forse essenziale. Se il conflitto sociale vede prevalere le componenti “forti” (le indico così per semplificare), la politica non riesce ad allearsi con le componenti “deboli”, a meno che non metta mano a interventi specificamente mirati a ridare forza (visibilità, dignità culturale, mezzi economici, rappresentanza politica) a queste componenti deboli. Infatti negli anni Ottanta il conflitto sociale era più equilibrato e quando, negli anni Novanta, tale equilibrio si è deteriorato, anche le cooperative (per restare all’esempio) hanno finito per tradire progressivamente i principi autogestionari. Quanto ai distretti industriali, credo anch’io che all’origine (tra l’altro) ci siano “due realtà: l’esistenza […] di un forte associazionismo […] e […] lo sviluppo assunto negli anni cinquanta e sessanta dalle lotte contro la mezzadria e per la trasformazione dei mezzadri in imprenditori.” . Non credo però che questo abbia dato origine ad un sviluppo dal basso per opera delle forze della società civile in virtù di una autonoma capacità auto-organizzativa. Credo invece, per quanto la cosa non sia condivisa dalla maggior parte degli artefici (vincenti) del “paradigma territoriale”, che tale sviluppo sia avvenuto perché la politica come tale è stata in grado di garantire le condizioni e di interpretare operativamente le conseguenze del dispiegamento del conflitto sociale senza compromessi al ribasso ma anche senza esiti distruttivi. Infatti, quando dagli anni Novanta tale conflitto è stato coperto, negato, chiuso da compromessi, anche sulla base della supposta capacità auto-organizzativa della società civile e dell’economia (o forse vinto anche lì dalle componenti forti), lo sviluppo dei distretti ne ha molto sofferto; ed ora sembra perfino bloccato.

Tutto dipende, in definitiva, da che cosa pensiamo sia all’origine del residuo (non solo del sovrappiù). Se, come nel caso “delle terre incolte o mal coltivate”, pensiamo che i capitalisti lascino risorse inutilizzate e poco sorvegliate, allora il residuo è un’opportunità pacifica. Se invece pensiamo che il capitalismo delle separazioni tenda a chiudere tutti gli spazi, allora il residuo può venire solo da una forzatura di queste chiusure, ossia dal conflitto. In secondo luogo, e questo mi sembra decisivo, se il residuo non si configura come risultato continuamente alimentato dal conflitto, ma viene per così dire istituzionalizzato, può di nuovo emergere la tentazione della rendita o del profitto. Sia nel caso delle cooperative che in quello dei distretti industriali è in effetti avvenuto specie negli anni Novanta che i gestori del residuo (il management delle cooperative e, rispettivamente, i funzionari e i politici delle amministrazioni locali) si sono trasformati in capitalisti o rentiers, e quel che è peggio in un’area “protetta” a basse esigenze di responsabilità. Per non parlare del vasto mondo dell’associazionismo e del no-profit, in cui accanto a tante iniziative meritorie, l’esperienza purtroppo dimostra la diffusione di pratiche dello stesso genere, molto insidiose, tra l’altro, giacché tendono ad occultarsi dietro il paravento del merito sociale e operano mediante una degenerazione sostanziale di organizzazioni delle reciprocità che restano solo finzioni formali, con danni enormi anche sul piano etico.

Quanto detto sembra indicare che lo schema di Luciano Barca ed altri dovrebbe, forse, essere integrato in una prospettiva processuale. Credo che le separazioni vadano superate ma consentendo alle contraddizioni che generano di emergere fino al punto che la forza del conflitto costringa tutti a darsi da fare e cambiare. Tra l’altro credo che proprio questo sia il modo più efficace di affermare l’istanza etica, che non può essere “pacifica”. E vedo in questo una saldatura con la prospettiva dell’innovazione, come ho cercato di mostrare in un libretto di prossima pubblicazione.

Per questo penso che all’origine della nostra crisi si ponga il grave degrado voluto, fortemente voluto e non combattuto, neppure dai governi della sinistra, della capacità conflittuale dei lavoratori, dei giovani in particolare. Penso che tra le tante cose utili che si potrebbero fare la principale sia questa: ridare forza alla parte oggi soccombente nel conflitto sociale. Occorre tra l’altro svelare che questa parte è soccombente e non vittima, senza colpevoli, delle “forze della natura”. Questo non solo per riequilibrare la distribuzione del reddito, obiettivo del resto rilevante, ma più profondamente per rimettere in cammino la nostra società e l’economia che potranno marciare solo sotto la frusta del conflitto. Tenendo conto, beninteso, che questa indicazione appare quasi contro-intuitiva ed è quindi molto esigente. Certo non mancherebbero le forti e anche sarcastiche obiezioni degli “esperti”, secondo cui “per non finire come la Grecia” il conflitto al contrario deve essere messo a tacere, evitato in tutti i modi. Inoltre, vi è anche un’obiezione tecnica: le politiche indicate sono complicate e indirette mentre quelle che si ritiene servirebbero per far fronte alla crisi sarebbero politiche chiare, semplici e dirette. Per esempio, si sta avviando al tavolo Stato-Regioni una discussione sulla Cassa Integrazione in deroga, se rinnovarla così com’é (trovando i soldi) o se rivederla in qualche modo. Una politica capace di dare forza alle parti deboli dovrebbe condizionare gli ammortizzatori ad una verifica trasparente attuabile dai lavoratori in relazione ai piani industriali delle imprese, per dare ammortizzatori lunghi là dove servano davvero alle ristrutturazioni o per attivare politiche e misure efficaci di ricollocazione quando non vi siano prospettive. Ma ci sono anche politiche semplici e dirette che stanno andando ancora e ancora nel senso opposto, e cioè volte a ridurre il potere contrattuale dei lavoratori, e che dovrebbero essere combattute strenuamente e non blandamente come accade. Una per tutte: la famigerata introduzione dell’arbitrato nelle cause di lavoro.

Secondo me il ripristino della crescita é necessario ma non dipenderà principalmente dall’aumento della produttività diretta del lavoro, dall’aumento dell’età pensionabile e dall’aumento dell’effettiva concorrenza su tutti i mercati (come pensa Giavazzi), né principalmente da politiche espansive e ripristino di regole decenti per la finanza (come pensa Leon). Non si potrà avere crescita duratura se questa non sarà qualitativamente diversa (più adatta a soddisfare bisogni insoddisfatti e sostenibilità ambientale): questo richiederà principalmente da parte delle componenti della società, oggi deboli, un deciso aumento della propria capacità conflittuale e da parte del sistema la costruzione di condizioni tali per cui il conflitto possa dispiegarsi senza esiti distruttivi ma anche senza compromessi al ribasso.

Devo aggiungere infine una possibile obiezione a questa idea: tra conflitto e allargamento dell’area della reciprocità vi potrebbe essere un circuito cumulativo. Tale allargamento potrebbe essere condizione di un conflitto sociale più equilibrato che a sua volta alimenta l’allargamento. In questo caso la prospettiva contenuta nel libro di Luciano Barca e nei contributi che lo hanno ispirato assume anche una portata processuale e non solo statica. Gli esempi storici del resto non mancano nei quali si vede come i lavoratori abbiano agito su entrambi i fronti (del conflitto e dell’autogestione) e vi è stato, come noto, un importante e “classico” dibattito che potrebbe essere ripreso. Osservo solo, per concludere, che le condizioni di incertezza forte (oggi dominante) in cui occorre collocare il ragionamento, rendono problematico questo meccanismo virtuoso. E’ anche l’incertezza che alimenta le separazioni tra interessi, identità e visioni contrastanti. Gli spazi di ricomposizione possono essere tenuti aperti solo contestandone con forza la chiusura.

Ciò tuttavia apre a sua volta il problema, nuovo se non forse inedito, di come sia possibile riaprire il conflitto sociale quando sono scomparsi i “luoghi” della produzione che tradizionalmente, nella fabbrica, hanno visto una leva fondamentale per organizzarlo.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Barca, Luciano: Del capitalismo e dell’arte di costruire ponti. Donzelli 2000.

Boggio, Luciano e Gilberto Seravalli: sviluppo economico, fatti teorie e politiche. Il Mulino 2003.

Id.: Is the natural rate of growth exogenous? A comment. Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review, June 1, 2002.

Brock, William e Scott Taylor: Economic Growth and the Environment: A Review of Theory and Empirics. In Philippe Aghion, Steven Durlauf (eds.) Handbook of Economic Growth, vol. 1, part 2, pp. 1749-1821. Elsevier 2010.

Calafati, Antonio Giulio: Economie in cerca di città: La questione urbana in Italia. Donzelli 2009.

Cavalieri, Duccio: L’utopia della ragione in Claudio Napoleoni (1924-1988), in Quaderni di storia dell’economia politica, vol. 6, n. 2, pp. 3-24, 1988.

Cimoli, Mario, Giovanni Dosi e Joseph Stiglitz: The Political Economy of Capabilities Accumulation: the Past and Future of Policies for Industrial Development, Prefazione a Industrial Policy and Development: The Political Economy of Capabilities, Oxford University Press 2009.

Leon, Paolo: Introduzione. Una nuova economia, Quaderni n. 18, Quale Stato, Fp CGIL, 2009.

Mill, John Stuart: Principi di economia politica. Utet 2006 (1983). Principles of Political Economy, with Some of Their Applications to Social Philosophy. Parker 1848.

Ruffolo, Giorgio: Il capitalismo ha i secoli contati. Einaudi 2009.

Seravalli, Gilberto: Conflitto e innovazione. Prossima pubblicazione.

Solow, Robert: Reflections on Growth Theory. In Philippe Aghion e Steven Durlauf (eds), Handbook of Economic Growth. Volume 1A: 3-10, Elsevier, 2005.

Stiglitz, Joseph: Il ruolo economico dello Stato, Il Mulino 1997.

Tronti, Leonello, Nicola Acocella, Riccardo Leoni: Manifesto per un nuovo patto sociale per la produttività e la crescita. 20 settembre 2006.

Zagrebelsky, Gustavo: La difficile democrazia. Lezione Alfieri 2010 (http://www.scpol.unifi.it/upload/sub/Facolta/Zagrebelsky-26-marzo-2010.p

Maurizio Franzini: Crisi economica verso stallo del progresso

1. La crisi economica, in quanto crisi del Pil e di ciò che ad esso è strettamente collegato, potrebbe avere solo deboli legami con il più generale concetto di crisi intesa come interruzione del progresso sociale ed economico. Più precisamente quest’ultima potrebbe benissimo manifestarsi anche in assenza della crisi economica in senso stretto. Se la crisi è, sostanzialmente, non-crescita e se la crescita non esaurisce il concetto di progresso, può esservi benissimo stallo del progresso anche senza crisi economica. D’altro canto se il “modello di sviluppo” è più vicino all’idea di progresso che non a quella di crescita, allora la sua crisi potrebbe darsi indipendentemente dalla crisi economica.

2. Dunque, lo stallo del progresso e la crisi del “modello di sviluppo” che ad esso corrisponde, possono manifestarsi prima della crisi economica e avrebbero potuto continuare a manifestarsi anche in sua assenza. L’eventuale fuoriuscita dalla crisi non implica che le correzioni introdotte per renderla possibile identifichino un nuovo modello e una nuova idea di progresso. Si potrebbe riparare il motore della crescita ma non quello del progresso, se tra i due non vi è coincidenza.

3. Il progresso economico e sociale non ha accezione univoca non è riducibile a un semplice indicatore. Per rendersene conto è sufficiente consultare il ponderoso Rapporto della Commissione Stiglitz (Stiglitz-Sen-Fitoussi, 2009). Le difficoltà hanno almeno tre origini: gli aspetti potenzialmente rilevanti sono molto numerosi; la complessità di alcuni di essi Ë tale da porre seri problemi di misurazione e, soprattutto, la riducibilità di una materia così complessa a un unico e semplice indicatore è praticamente irrealizzabile.

4. Abbandonando l’ambizione a un’idea definita di progresso e alla costruzione di un unico indicatore coerente con quell’idea, si può adottare una strategia minimalista che consiste nell’articolare l’idea di progresso attorno a tre elementi: reddito pro capite, disuguaglianze e ambiente. Risulta difficile pensare a un’idea di progresso che non includa, eventualmente assieme ad altri, ciascuno di questi elementi.

5. Approssimativamente, si può dire che nei decenni precedenti la crisi, la crescita, nei paesi occidentali, è stata diversamente soddisfacente, le disuguaglianze (economiche e non solo) sono quasi ovunque cresciute (e raramente in base a meccanismi equi che possano rendere accettabili quelle disuguaglianze, Franzini 2010), lo stato dell’ambiente (soprattutto quello dei beni ambientali globali) è significativamente peggiorato. Tutto questo potrebbe, con alcuni dubbi, essere sintetizzato nell’affermazione (anch’essa approssimativa) che il progresso economico e sociale è da anni in una fase di stallo, malgrado l’aumento, anche consistente, del reddito pro capite verificatosi in molti paesi. La crisi economica indebolisce fortemente questi eventuali dubbi.

6. La principale caratteristica del “vecchio” modello di sviluppo è la priorità che esso ha accordato alla crescita economica. Questo può avere più di una giustificazione: si potrebbe ritenere che nella crescita si esaurisca l’idea di progresso oppure si potrebbe essere convinti che la crescita trascini con sè anche le altre dimensioni del progresso.

7. Esiste una letteratura empirica, con qualche tentativo di fondamento teorico, che porta sostegno a questa seconda, e più interessante, ragione della priorità della crescita. Il riferimento è, in particolare, alle due curve di Kuznets (quella originaria – Kuznets 1955 – che vede la disuguaglianza cadere quanto il reddito cresce oltre una certa soglia e quella ambientale – Grossman-Krueger 1995 – che replica questo ragionamento rispetto alla qualità dell’ambiente). Entrambe le curve sono state oggetto di critiche, spesso molto convincenti, soprattutto riguardo alla loro capacità di dar fondamento a una “legge” di carattere generale, imperniata su valori ben precisi del reddito pro capite oltre i quali si manifestano gli effetti positivi ora ricordati. Ciò obbliga a proiettarsi fuori del mondo di armoniosa composizione, grazie alla crescita, tra le diverse dimensioni del progresso verso quello più scomodo dei trade offs.

8. Alcuni vorrebbero che il “nuovo” modello e la connessa idea di progresso non contemplassero la crescita. La posizione più estrema è quella della cosiddetta “decrescita” che, sebbene non sempre sia facile interpretare le posizioni dei suoi sostenitori (Latouche 2008), sembra basarsi sull’assunto che la riduzione del Pil sarebbe di tale vantaggio per le altre dimensioni del progresso e del benessere da eccedere gli svantaggi che essa avrebbe sulla dimensione più materiale dello stesso. Non essendo a conoscenza di prove convincenti di questo assunto, tenderei a considerarlo poco fondato e poco coerente con un’idea difendibile di progresso. Il fatto che l’aumento del reddito pro capite si sia associato in alcune, anche prolungate, fasi storiche a peggioramenti nelle altre dimensioni del progresso non è di per sé prova del fatto che il suo contenimento o la sua riduzione avranno, da adesso in poi, gli effetti opposti.

9. Discutendo di “nuovo” modello, altri sembrano ritenere – raramente fornendo la base analitica delle proprie convinzioni .- che la riduzione delle disuguaglianze positivi sulla crescita e, verosimilmente, anche sull’ambiente. L’armonia guidata dalla crescita verrebbe quindi sostituita dall’armonia guidata dall’eguaglianza. Alla base di questa convinzione c’è, probabilmente, l’idea – di per sé condivisibile – che le disuguaglianze abbiano costituito la causa strutturale della crisi (Fitoussi-Stiglitz 2009). Ma affermare che le disuguaglianze elevate possono generare la crisi, non equivale ad affermare che la loro progressiva riduzione proietterà il sistema economico su sentieri di crescita pi_ elevati. Analoghi dubbi possono aversi circa la sistematicità della relazione tra riduzione delle disuguaglianze e miglioramento dell’ambiente. Questi dubbi non hanno, ovviamente, l’implicazione che le disuguaglianze non debbano essere ridotte o non debbano essere rese più accettabili.

10. La conclusione provvisoria è che un’idea di progresso imperniata sui tre elementi ricordati non può mancare di misurarsi con i problemi che pongono i trade offs.

11. Aderire a un’idea multidimensionale di progresso pone alla politica una prima e molto dibattuta sfida: quella che sostanzialmente consiste nel definire i pesi da assegnare alle diverse dimensioni del progresso stesso. Il compito, naturalmente, è assai più delicato se si è in presenza di trade off piuttosto che di armoniose coerenze: nel primo caso i pesi diventano decisivi per stabilire se vi è o meno progresso al crescere di una della sue dimensioni: nel secondo caso, invece, il progresso si muoverebbe nella stessa direzione di ciascuna delle dimensioni (e, dunque, dell’eventuale dimensione-guida). Pertanto, eventuali errori potrebbero soltanto rallentare la dinamica del progresso non invertirne la direzione di marcia, come nell’altro caso.

12. Il problema dei pesi è quello di cui, sostanzialmente, si discute in relazione alle misure di benessere alternative al Pil. Esso ha un’implicazione molto rilevante anche per la questione del tasso di crescita da imporre al sistema (sollevata da Ruffolo e di cui, da altra prospettiva, discute Gilberto Seravalli): i pesi, assieme all’intensità dei trade off, dovrebbero determinare il tasso di crescita da perseguire. Si tratta di una questione certamente rilevante che, però, a me pare meno rilevante di un’altra questione posta dall’idea del progresso come fenomeno multidimensionale con le varie dimensioni in potenziale rapporto conflittuale: quella della capacità della politica di allentare i vari trade off, che presuppone la convinzione che questi ultimi non siano immodificabili e incontrollabili. Contrariamente a opinioni molto diffuse, argomenti teorici e verifiche empiriche suggeriscono che disuguaglianza e crescita sono fenomeni relativamente indipendenti, essendo decisivo il ruolo di molte istituzioni e politiche. Analogamente, il rapporto tra crescita e ambiente è notevolmente variabile in funzione di fattori che incidono, ad esempio, sulle tecnologie e sugli stili di vita.

13. Le politiche “di ampliamento dei trade off” possono essere numerose e diversi esempi potrebbero essere fatti (con attenzione specifica per le loro complementarità). Ma il passo preliminare consiste nell’accettare che un’idea di progresso minimale come quella che ho qui adottato pone alla politica come sfida più ardua l’individuazione di percorsi che conducono all’ampliamento dei trade off. Perché un simile ampliamento equivale, di fatto, a dare al progresso maggiori opportunità di compiersi.

Riferimenti BIbliografici

Fitoussi J.-P., Stiglitz J. (2009), “Le vie di uscita dalla crisi”, Inchiesta, luglio-settembre, pp. 13-19

Franzini M. (2010), Ricchi e poveri. L’Italia e le disuguaglianze (in)accettabili, Università Bocconi Editore, Milano.

Grossman G., Krueger A. (1995), “Economic growth and the environment”, Quarterly Journal of Economics, 110, pp. 353-377

Kuznets S. (1955), “Economic Growth and Income Inequality”, American Economic Review, 65, pp. 1-28.

Latouche S. (2008), Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino

Stiglitz J.E, Sen A., Fitoussi J.P. (2009), Mismeasuring Our Lives: Why Gdp Doesn’t Add Up, The New Press, New York.

Marco Magnani: Una oligarchia separata dalla concorrenza

Vorrei cominciare ponendo brevemente tre domande. In primo luogo, se questa crisi su cui ci si interroga, la crisi di origine finanziaria, può essere considerata epocale, o almeno emblematica, e in che senso: se cioè si possa dire che si tratta della crisi non solo di una fase del capitalismo, ma del capitalismo in quanto tale. In secondo luogo vorrei soffermarmi sulla proposta di Ruffolo di mettere dei paletti al capitalismo, dei limiti dall’esterno. In terzo luogo, la questione della crescita e del progresso.

Sul primo punto: questa crisi ci autorizza o no, oggi, ad aprire delle prospettive di rottura radicale del tipo di sviluppo delle società moderne, come le conosciamo dalla rivoluzione industriale in poi? Vale a dire: il capitalismo è arrivato o no al capolinea? Mi pare che Maurizio (secondo lo spirito del suo intervento, anche se non si è espresso in questi termini), abbia risposto di no. Ha parlato di “trade-off”: ci sono molti margini da sfruttare, possiamo migliorare la situazione di tutti, avvicinandoci a una sorta di “ottimo paretiano”, senza bisogno di considerare finito il capitalismo. Gilberto, invece, mi pare tendesse a dire che la crisi ci dimostra (è un’idea che viene da lontano, ma che si ri-attualizza oggi) che bisogna porsi il problema di trovare forme di crescita economica superatrici delle idee e dei metodi legati al mercato di tipo capitalistico. Sono due approcci molto diversi, che si riflettono anche nelle proposte diverse da loro avanzate.

Certo, vi è una convergenza di fondo sui fattori che hanno scatenato la crisi, o almeno su alcuni di essi: l’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che hanno reso possibile un’espansione esplosiva della finanza; una de-regolamentazione della finanza inimmaginabile fino a dieci anni fa, tale che oggi si possono accumulare pressioni speculative eccedenti di gran lunga l’economia reale, ben al di là di quanto si poteva fare in precedenza; nonché – ultimo aspetto, su cui la discussione è molto vivace – il fatto che la teoria economica prevalente (divenuta una specie di breviario di chi ha diretto la politica economica nel mondo anglosassone, che è quello che più conta, e soprattutto negli USA) si fonda sull’idea sbagliata, anti-keynesiana, che i mercati si alimentano da soli e che ogni intervento dello Stato è cosa da cui rifuggire, e ciò soprattutto nella finanza. Il mondo presente, insomma, è ritenuto il migliore possibile, qualunque altro sarebbe peggiore.

Ora, su questi tre punti – le nuove tecnologie, la de-regolamentazione della finanza e l’autosufficienza del mercato – le opinioni sono diverse, ma la convergenza è abbastanza ampia. Ci si pone infatti il problema di correggere i pericoli che la crisi ha comunque manifestato, al qual fine è sicuramente necessario regolare la finanza in modo diverso: sicuramente c’è un problema di sostenibilità ambientale; e c’è inoltre quello di ridurre le diseguaglianze (un punto su cui peraltro il quadro analitico è complicato).

Su tutto ciò, vi sono due approcci possibili. Da una parte, c’è chi dice: cambiamo o almeno aggiustiamo le regole, andiamo oltre una determinata fase del capitalismo ma continuiamo a sfruttare questa macchina di crescita e di progresso. Dall’altra si sostiene invece che la crisi è radicale e ci vogliono soluzioni radicali. Fra questa due posizioni, io seguirei Ruffolo, il quale (riprendendo, anche qui, idee che vengono da lontano) sostiene che a questo tipo di crescita vanno posti limiti invalicabili dall’esterno. Non uccidiamo le pecore ma tosiamole adeguatamente. Lasciamo vivere il capitalismo ma governiamolo secondo regole che non possono esser poste dal capitalismo stesso. Stiglitz, in termini non meno radicali, sostiene che dobbiamo di nuovo salvare il capitalismo dai capitalisti. Già nel ’29 essi hanno provato a distruggerlo, dobbiamo di nuovo salvarlo dalla loro ingordigia.

Credo che la prima osservazione da fare rispetto alla proposta di Ruffolo sia questa: la macchina del capitalismo è stata certo prodigiosa in termini di crescita economica, il reddito pro capite dal 1820 (cioè dagli albori del capitalismo) ad oggi è cresciuto di 10 volte, mentre dal mondo romano al 1820 solo di un 40%. Questi almeno sono i calcoli di Madison, peraltro molto criticati. Se allora apprezziamo – come secondo me dobbiamo fare – questa capacità dell’economia capitalistica, dobbiamo stare anche attenti ad avanzare delle proposte, delle ricette in base alle quali questa economia cambierebbe radicalmente i propri caratteri. Il capitalismo è stato sempre lasciato libero di scatenare le sue energie verso il profitto e la crescita, nessuno gli ha mai imposto limiti esogeni. Sotto questo profilo, la proposta di Ruffolo è rivoluzionaria.

Seravalli – basandosi su Harrod, cioè sostanzialmente su un modello keynesiano di dinamica comparata – dice che l’economia capitalistica ha una grande forza di crescere ma non quella di equilibrarsi da solo, quindi c’è bisogno della politica. Anche questo è noto. Ruffolo può essere inteso in questo senso se si vuole l’intervento della politica nel calibrare i fattori che sono alla radice della crescita capitalistica, in termini di modelli di crescita classici.

Però, si aggiunge – e qui le osservazioni fatte da Seravalli in termini generali possono essere tradotte in termini più strettamente economici -, bisogna fare attenzione: se si fa questo, se si tende ad abbassare la crescita fino (parlando al limite, per chiarezza logica) a portarla a zero, si rischia di uccidere la concorrenza, passando così dalla padella nella brace. Si aprono infatti spazi alla rendita e all’oligarchia, si passa da un’economia governata dal profitto a una nella quale non vincono “i migliori” ma coloro che detengono le posizioni migliori. Si rasenterebbe l’assurdo storico di una vittoria dei feudali sugli imprenditori, quelli che nel ‘700 inglese cominciavano a costruire le loro aziende.

Questo è un punto essenziale, su cui sono molto d’accordo. E’ conforme al liberalismo nella sua accezione più vera. Si cita spesso il saggio di Luigi Einaudi sulla “bellezza della lotta”, in cui fa appunto l’esaltazione del conflitto, nel contesto storico di allora: criticando cioè i parassiti, i rentiers, che succhiavano energie e ricchezze ai ceti produttivi, che erano fondamentalmente i lavoratori e gli imprenditori. Quindi la concorrenza come impulso fondamentale alla crescita è pienamente iscritta nella tradizione liberale, sia politica che economica. Inutile ricordare che la radice storica di questa idea è la rivoluzione contro l’assolutismo, l’aristocrazia, quindi per la libertà e per la concorrenza vista come libertà.

Allora, se il problema che abbiamo di fronte è invece il monopolio, l’oligarchia, l’uccisione della concorrenza, credo sia questo un problema simile a quello, citato da Seravalli, delle divisioni. Ne parla spesso Claudio Napoleoni, specialmente nei suoi ultimi scritti, ed è stato ripreso anche da Barca nel suo libretto sulla costruzione di ponti. Mi sembra che lì venga focalizzato l’atto violento della separazione da parte di un soggetto, l’oligarchia, da un contesto di tanti piccoli imprenditori che competono fra loro su un piede di parità. In questo secondo caso non c’è separazione; essa è operata dal monopolista.

Quindi, sotto questo profilo, il problema, in fondo, è sempre lo stesso, sia se lo prendiamo dal punto di vista di Ruffolo (dobbiamo mettere un limite alla crescita; ma allora ci troviamo di fronte alla rendita), sia da quello di Barca (la separazione di cui sopra). Il problema – ribadisco – è sempre quello di un’oligarchia che si separa dalla concorrenza.

E vengo alla questione sollevata da Franzini: il nesso tra crescita e progresso. Sono d’accordo dal punto di vista analitico. Dico solo che, quale che sia il modo in cui si configura questo nesso, il problema è molto alto. E’ stato al centro del pensiero illuministico; ha dominato la scena – come nesso tra crescita e scienza – nel periodo del positivismo (la crescita materiale vista come inseparabile dal progresso morale e intellettuale).

Tuttavia, accanto alla tradizione prevalente sul nesso tra crescita e progresso, si è svolta – direi sotterraneamente – un’altra posizione, che nasce da Rousseau, e critica il modello industrialista (il mito del “buon selvaggio”). Venendo al Novecento, la tradizione prevalente sul nesso tra crescita e progresso è stata raccolta (o si è tentato di raccoglierla) nell’Unione Sovietica, con i “piani quinquennali”. Infatti Ruffolo è critico nei confronti di questo ideale dell’URSS e del movimento operaio in genere.

Guido Carandini: Non dimenticare la fame nel mondo

La “globalizzazione” è il termine impiegato da un gran numero di economisti e di sociologi per descrivere la situazione della civiltà capitalista nel XXI secolo, constatando la sua diffusione a livello planetario e l’assenza di alternative che la caratterizza dopo la rovina del progetto comunista. Ma, stando alle statistiche delle Nazioni Unite, la civiltà capitalista, di fatto, non riesce a estendere i suoi frutti a un buon terzo della popolazione mondiale. All’incirca due miliardi di uomini sui sei che attualmente abitano la Terra sono infatti poveri ed emarginati senza una ragionevole speranza di riscatto in un futuro prevedibile.

Vediamo di dare un quadro approssimativo di questa situazione di cui mi sembra non si tenga debito conto nel dibattito sul tema della «crescita» economica anche se in qursta sede l’ipotesi ” crescita zero” è sta evocata da Seravalli solo come ipotesi teorica limite. Alcuni economisti (fra i quali Giorgio Ruffolo) ritengono la crescita ormai dannosa, o quanto meno problematica, non solo per i suoi possibili effetti negativi sull’ambiente ma anche sui reali bisogni della società. Al punto da avanzare proposte varie che implicano un suo diverso orientamento complessivo (per es. un trade-off più favorevole alla spesa sociale rispetto ai fini dell’accumulazione del capitale) o persino un suo contenimento fino all’ipotesi di una crescita zero.

A parte la estrema complessità dei problemi socio-politici che simili proposte comportano in un mondo fatto delle più svariate forme di capitalismo, da quelle più arretrate, a quelle mature e a quelle in via di esplosiva crescita, e quindi la quasi insormontabile difficoltà di prevedere le implicazioni non solo strutturali ma anche ideologiche che un artificiale contenimento della crescita comporterebbe nelle diverse situazioni, occorre perlomeno, mi sembra, evitare di porsi un problema che ignori i bisogni urgenti e vitali per una larga parte della popolazione mondiale per la quale la «crescita» significa semplicemente sottrarsi alla morte per fame.

Attualmente la popolazione mondiale è sei volte più numerosa di quanto fosse nei primi secoli dell’economia-mondo capitalistica, e almeno quattro volte maggiore di quella dei tempi del Capitale di Karl Marx (1867). Essa continua però a dividersi fra un centro, una semiperiferia e una periferia con disuguaglianze di reddito e di condizioni di vita sempre più estreme e ingovernabili.

Il centro nell’attuale economia-mondo capitalistica è rappresentato essenzialmente dai ventinove paesi dell’Ocse. con una popolazione totale di quasi un miliardo e con redditi pro capite annui che vanno da un massimo di 30.000 dollari (Stati Uniti) a un minimo di 10.000, e con una media complessiva di 23.000 dollari. Sono i paesi ricchi del capitalismo avanzato nei quali vive appena un sesto dell’umanità del XXI secolo.

Nella semiperiferia vive complessivamente una popolazione di oltre 2,7 miliardi, dunque quasi la metà della popolazione globale. Ne fanno parte i paesi che stanno sperimentando una marcia forzata verso il capitalismo. Dunque, oltre ai paesi europei dell’ex impero sovietico già accolti nell’Unione Europea o in procinto di entrarci, appartengono alla semiperiferia la Federazione Russa (150 milioni di abitanti) con poco più di 6.000 dollari pro capite annui, la Cina (1,3 miliardi di abitanti) con 3.200 dollari, e l’India (1 miliardo di abitanti) con 2.000 dollari. E poi i due maggiori paesi dell’America Latina, l’Argentina (37 milioni) e il Brasile (168 milioni) con redditi pro capite tra gli 11.000 e gli 8.000 dollari. Considerando che in queste medie sono conteggiati i redditi relativamente alti delle minoranze direttamente avvantaggiate dal processo di crescita capitalistica, la maggior parte della popolazione di quei paesi si trova evidentemente al di sotto della soglia di povertà.

I paesi che abbiamo elencato, per quanto a basso e bassissimo reddito, si possono inserire ugualmente nella categoria di mezzo della semiperiferia per due ragioni. La prima è che in essi il capitalismo è ben radicato, anche se caratterizzato da disuguaglianze enormi, spesso da regimi autoritari, ancora più spesso da regimi corrotti che rallentano lo sviluppo favorendo oligarchie rapaci. La seconda ragione è il ritmo di sviluppo dell’accumulazione del capitale che in alcune di queste aree semiperiferiche, come l’India e la Cina, è molto alto e, se mantenuto, potrebbe portare a un rapido aumento dei redditi medi.

Rimane la periferia dell’economia-mondo alla quale appartengono tutti i paesi non soltanto a bassissimo reddito ma nei quali, inoltre, permangono situazioni economiche, politiche e sociali che consentono unicamente forme di capitalismo molto arretrato e gregario, spesso di rapina, sommerso da condizioni di esistenza estremamente miserabili. I numerosi paesi dell’America Latina, di gran parte dell’Asia e, praticamente, di tutta l’Africa, non elencati nelle due precedenti categorie, rientrano in quest’ultima. Si tratta di oltre due miliardi di esseri umani con redditi pro capite annui che vanno da un massimo di 4.700 dollari a un minimo di 885. Dunque un terzo dell’umanità attuale non soltanto vive nella estrema miseria ma ha scarse probabilità di uscirne anche in un lontano futuro.

In buona sostanza tuttavia, al di là delle classificazioni riportate sopra che sono sempre arbitrarie perché si basano su medie statistiche, la povertà estrema che minaccia la sopravvivenza, la fame come condizione normale, la diffusione di malattie come l’Aids o la malaria, l’alta mortalità infantile e la bassa aspettativa di vita, insomma tutto ciò che rende disperata, senza rimedio e senza tregua l’esistenza umana, è una condizione che, secondo le Nazioni Unite, riguarda addirittura 2,8 miliardi di uomini che vivono con meno di due dollari al giorno di cui 1,2 miliardi che vive con meno di un dollaro al giorno. Si deve ammettere che l’ipotesi di crescita zero rischia di apriie solo un discorso tra “ricchi” e che la prospettiva di un mondo intero che si attenda dal capitalismo un futuro di riscatto, è assai remota.

Vittorio Tranquilli: Uscire dal predominio dell’economia su ogni altra dimensione

La questione della crescita economico-produttiva è stata affrontata da Giorgio Ruffolo nel nostro convegno del 23 marzo. Al riguardo – sintetizzando molto – ha detto che porre la crescita per la crescita – dunque l’accumulazione per l’accumulazione, e in definitiva la produzione per la produzione – è un modo di ragionare assurdo, perché basato su un illogico scambio tra mezzo e fine. Occorre vedere in ordine a quale fine, o quadro di fini, cioé per soddisfare quale bisogno o insieme di bisogni umani, si dà luogo a produzione, accumulazione, crescita.

Ma quando si parla di fini, si chiama in causa la politica. Luciano Barca ha aggiunto che la politica deve a sua volta farsi interprete di istanze della società nelle sue varie espressioni e articolazioni.

E’ dunque l’economia in quanto tale a non essere autosufficiente. Essa deve integrarsi con la politica quale interprete delle esigenze sociali e umane. E ciò comporta il passaggio da un discorso quantitativo a uno qualitativo.

Sono assunti di grande rilievo, sui quali non si può non concordare. Avrei però da fare delle considerazioni, cui ho già cercato di accennare in un mio commentino in calce al resoconto “on line” del convegno. Vorrei adesso esprimermi un po’ meglio. Riguardano appunto le finalità della produzione e della sua crescita.

A mio parere, Ruffolo ha posto una eccessiva separazione, una cesura concettuale tra i bisogni elementari dell’uomo (quelli riguardanti la sua vita fisica) e livelli “più elevati” della vita umana, legati a ideali religiosi, morali, civili, culturali, nel cui quadro (e solo in esso) l’uomo persegue realmente la propria autorealizzazione.

Questa impostazione porta a confinare l’economia (scienza della quantità) nel primo livello, considerando invece il secondo (dove vale la qualità) come svincolato e “libero” dall’economia stessa.

Infatti, stando alla sintesi della relazione di Ruffolo curata da “Etica ed Economia” (della quale non ci sono motivi per porre in dubbio la fedeltà), Ruffolo ha detto:

«L’economia può definire tutto ciò che ha a che fare con l’avere, ma nel giudizio di qualità interviene la definizione dei fini e dunque l’essere. La definizione delle finalità non può che avvenire sul terreno di una morale, religiosa o civica. E’ la morale, è l’etica che deve dettarci quali sono le cose che vanno limitate e quelle che non possono essere limitate. Scienza e conoscenza sono tra le cose che non possono essere limitate e che possono aiutarci a fissare dei punti di riferimento».

Un passaggio parimenti netto, epocale, dal livello elementare del bisogno umano – riguardante l’avere, quindi la quantità, quindi il discorso economico, a sfere più “elevate”, era stato già prefigurato da Keynes, non a caso richiamato da Ruffolo nella sua relazione. Nel noto saggio Prospettive economiche per i nostri nipoti, Keynes aveva parlato di bisogni “assoluti” e “relativi”. L’economia si occupa solo dei primi, quelli appunto della sussistenza fisica, senza comunque oltrepassare – come Keynes si esprime – «il vecchio Adamo che è in noi». Ma siamo ormai vicini (ultimandosi così il processo capitalistico), alla soddisfazione praticamente completa di questo tipo di bisogni; dopo di che potremo dedicare le nostre energie agli scopi “relativi”, alias a scopi liberamente posti da ciascun individuo e quindi (testuale) «a scopi non economici». Come vedete – sia detto per inciso – il liberale Keynes (richiamato, giova ripetere, da Ruffolo) preconizza delle prospettive che ricordano molto il passaggio, enunciato da Marx, dal “regno della necessità” al “regno della libertà”.

La differenza tra Keynes e Ruffolo si manifesta a proposito del punto o momento discriminante, determinante del passaggio dal bisogno elementare di sussistenza (come tale “assoluto”, necessario e quindi comportante l’analisi quantitativa propria dell’economia) agli ulteriori livelli, quelli “relativi”, qualitativi, dove la scienza economica non avrebbe più nulla da dire.

Tale punto di discrimine è imputato da Keynes all’avvenuta saturazione del bisogno di sussistenza, grazie al progresso tecnologico sempre più intensamente promosso e maneggiato dal capitalismo. Quanto invece a Ruffolo, va considerato che egli parla e scrive ottant’anni dopo, in un quadro impazzito di opulentismo, di induzione sempre più inesorabile della domanda per consumi, attraverso un innovazionismo di prodotti incessante e oltre misura, un martellante invito a indebitarsi, e così via, con le conseguenze distruttive che ben sappiamo (i “surprime”, il finanziarismo, la crisi della finanza e dell’economia).

Ora, mi pare si debba dire che questo quadro e le sue crisi rimangono pur sempre, malgrado tutto, malgrado ogni complicazione iper-tecnologica, al livello “elementare” del bisogno umano. Anche all’interno di questo livello, infatti, ci può essere per principio (poiché sempre dell’uomo si tratta), e c’è di fatto, uno sviluppo. L’uomo abitatore delle caverne e che mangia carne cruda è diverso dall’uomo moderno, che si costruisce palazzi e cuoce i cibi col forno a micro-onde; trasmettere segnali col fumo o col tam-tam è diverso dal farlo su internet. Ma ciò che è mortale per l’uomo è il ristagnare comunque su quel livello che è definibile pur sempre, nel suo complesso, come “elementare”: su questo primo livello del suo bisogno, del suo lavoro, cui si ridurrebbe e oltre il quale terminerebbe ogni possibile discorso di carattere economico.

Ruffolo è ben consapevole di questo pericolo, e tende quindi a porre un argine, un limite invalicabile al falso progresso nel reale ristagno di fondo. Al riguardo, nella sua relazione del 23 marzo, ha parlato della limitatezza delle risorse e della necessità di rispettare certi parametri ecologici. E nel suo libro Il capitalismo ha i secoli contati ha configurato una catastrofica entropia per tutto il genere umano qualora si oltrepassino questi paletti (p.281).

Mi permetto però di ritenere che questo discorso di Ruffolo sia insufficiente. Egli condiziona la crescita (senza staccarla, evidentemente, dal livello dei bisogni “elementari”) a dei vincoli esterni: se l’uomo non tiene conto di essi, la Natura (con la N maiuscola) lo uccide. Ebbene, credo che sia da fare, o da aggiungere, o da affiancare, un discorso diverso.

Torniamo alla fondamentale questione della necessità e della libertà. Temo non sia una strada giusta quella di separare e, in definitiva, di contrapporre i due aspetti o momenti, riferendo il primo (la necessità, quindi la limitatezza: “le cose che vanno limitate”, dice Ruffolo) al livello del bisogno “elementare”, di sussistenza, al dantesco “viver come bruti”, e il secondo aspetto o momento (la libertà, intesa come illimitatezza: “le cose che non possono essere limitate”) al “più umano” livello del “seguir virtute e conoscenza”.

Credo sia preferibile un diverso punto di partenza, a definire il quale ci può aiutare un’ ipotesi filosofico-antropologica: cioè una concezione dell’uomo come “essere naturale – storico”.

In questa formulazione, l’aggettivo naturale indica la finitezza, la limitatezza (e il loro non sofferto ma felice riconoscimento, la loro accettazione respirando a pieni polmoni) come condizione costitutiva, istitutiva del’uomo. Per definizione la vita umana si esplica sempre nella determinatezza, cioè, in concreto, in un quadro conforme alla logica e alle implicazioni di una determinazione data, specifica, della vita umana stessa. In ciò si palesa essenzialmente il momento della necessità.

Contemporaneamente l’aggettivo storico rinvia al fatto che è condizione altrettanto costitutiva, istitutiva dell’uomo, la sua tensione continua e ineliminabile (pena la corruzione e la morte) a spostare indefinitamente in avanti, man mano, passo dopo passo, quella determinazione specifica in cui per una certa fase si è esplicato il proprio vivere e operare, aprendosi dunque nuovi orizzonti, più ampi, di maggior respiro, ma sempre determinati e specifici. I bisogni, i problemi, i valori, le finalità vitali di una fase storica in via di esaurimento sono stati soddisfatti e implementati a sufficienza; emergono adesso altri bisogni, problemi, valori, finalità vitali. Occorre saper riconoscerli e muoversi coerentemente di conseguenza. E’ principalmente a questo punto, a questo snodo, che si manifesta in tutto il suo rilievo il momento della libertà. Si tratta infatti di compiere delle decisive scelte, affidate all’uomo e a nessun altro. Scelte adeguate, buone (per intelligenza, per onestà, per capacità innovatrice e insomma – anche questo, a tempo e luogo, bisogna tornare a saperlo dire – per una ben mirata tensione rivoluzionaria), o al contrario scelte dannose (per timorosa “debolezza” di pensiero, ovvero per disonestà, negligenza, pigrizia conservatrice): è soprattutto a questi bivi che si misura, di volta in volta, che uso sa fare e fa l’uomo della sua libertà.

Si potrebbe ricordare il noto assioma di Marx per cui «gli uomini fanno da loro stessi la loro storia, in condizioni determinate», se non fosse che queste “condizioni determinate” sono poste da Marx in modo troppo deterministico.

Concludendo, credo che se si vedono le cose nell’ottica che ho cercato di proporre, qualunque stadio o livello del bisogno umano, quindi del lavoro – dal livello “elementare” a quelli ulteriori della conoscenza, della creatività, della spiritualità, dell’arte e via dicendo – comporti tanto la necessità quanto la libertà. Ambedue questi principi, cioè, valgono e pesano contemporaneamente per la proposizione dei fini che vengono ponendosi e che vanno definiti via via lungo e secondo l’ indefinito processo di crescita dell’uomo.

E’ così possibile sfuggire – a mio avviso – al pericolo esiziale, alla falsità, all’ossessione (oggi così in voga) di discorsi tesi ad esaltare un “tempo libero” contrapposto al “tempo di lavoro” e destinato a ridurlo progressivamente sino, sostanzialmente, ad annullarlo. E ciò grazie all’innovazionismo tecnologico promosso proprio dal capitalismo e nell’illusione di “uscire” così dal capitalismo stesso. Siffatte interpretazioni credute dialettiche, ma in realtà vaniloquenti, della fase iper-tecnologica del capitalismo e dei suoi sbocchi, tendono obiettivamente, lo si voglia o no, a una resurrezione dell’antica figura signorile, non più riservata, però, a pochi eletti, ma universalizzata. Il che – a mio parere – è la peggiore dannazione che si possa immaginare, ed è un suggello definitivo di quella che si usava chiamare la “società opulenta”.

Detto questo, certamente una prospettiva di uscita dal capitalismo rimane irrinunciabile. Ma essa non comporta né liquidare l’economia né ipotizzarne una “alternativa” non meglio definita né definibile. Comporta piuttosto uscire dal predominio dell’economia su ogni altra dimensione del vivere: tendere quindi a un equilibrio, a una pari dignità fra economia, politica, relazioni di prossimità sociali e familiari, volontariato, spiritualità, scienza e conoscenza e quant’altro. Ciascuna di tali dimensioni faccia il proprio mestiere nella distinzione così come nella reciproca integrazione. In quest’ottica sembra poter scomparire l’apparente opposizione tra lo Smith dell’interesse individualistico e quello dei sentimenti morali, della “simpatia”.

Resterebbe ancora da puntualizzare quali sono i grandi problemi aperti di fronte a noi nella fase storica attuale, “ignoti ad altre età”. Ma essi sono così evidenti e squadernati dinnanzi ai nostri occhi, che farei un torto alla vostra sensibilità politico-sociale se mi mettessi anche solo a nominarli.

Alessio Liquori: Consumi e comportamenti umani

Per ragionare dei problemi della crescita economica, dei suoi (eventuali) limiti, del benessere individuale e collettivo in questa fase dello sviluppo capitalistico occorre necessariamente indagare il fenomeno dei consumi.

Per periodizzare lo sviluppo capitalistico sono state proposte varie convenzioni: l’era del carbone e quella del petrolio, industrializzazione e terziarizzazione, ecc. A mio parere si coglie meglio la natura della fase attuale indicandola come la fase del consumo, o meglio dell’ “iperconsumo”.

Pasolini parlava ormai quarant’anni fa della mutazione antropologica che stava investendo l’Italia. Sintetizzando brutalmente, quella mutazione antropologica ci ha trasformato in iperconsumatori.

Nella sfera del consumo, a mio parere, si svolge la contraddizione tra le possibilità produttive, tecnologiche e di crescita delle società ad alto reddito di oggi – che vengono percepite come illimitate – e i limiti, soprattutto ambientali, di questo modello di sviluppo.

Esistono davvero dei limiti allo sviluppo? Se le leggi della termodinamica hanno una qualche validità, la risposta è necessariamente positiva. Il troppo dimenticato Georgescu-Roegen, reinserendo la sfera dei comportamenti economici nella sfera più grande che li ricomprende (la biosfera), ha contribuito a chiarire questo punto.

In questa tavola rotonda è stato più volte citato l’esercizio di Madison, che ricostruisce una serie secolare del reddito pro-capite. Analogo esercizio è stato proposto da un altro autore, Eric D. Beinhocker, nel magnifico libro The Origin of Wealth, che si apre con un eloquente grafico rappresentante in ordinata il reddito pro-capite e in ascissa il tempo: il grafico si mantiene pressoché piatto dal neolitico al medioevo, con un primo cambio di ritmo durante i secoli del rinascimento e delle grandi scoperte geografiche (accumulazione originaria), ma esplode in verticale negli ultimi tre secoli della nostra era.

A questo grafico è sovrapponibile praticamente senza scostamenti il grafico del consumo energetico umano. La crescita economica esplosiva degli ultimi tre secoli, che ha cambiato l’umanità più di qualsiasi altro evento storico, è soprattutto una crescita economica energivora. I grandi dilemmi ambientali che fronteggiamo da qualche decennio sono la necessaria ricaduta di questa insaziabile fame di energia dell’umanità. Se non ci saranno rivoluzioni tecnologiche, l’impossibilità di continuare a produrre energia ai livelli attuali (e, anzi, a livelli sempre crescenti) costituisce il limite più concreto e imminente al nostro livello di sviluppo.

I limiti alla crescita, a questa crescita, dunque esistono. Sono limiti fisici, della materia.

Le neuroscienze e lo studio delle scelte individuali hanno ormai dimostrato, con unanime consenso scientifico, che a essere priva di limiti è, invece, la sfera del desiderio degli individui umani. Gli studi degli economisti sulla felicità e sul benessere autopercepito, da Easterlin e Scitovsky alle più recenti divulgazioni di Layard, hanno evidenziato che l’accesso a elevati livelli di possesso e uso di risorse materiali, ossia di consumo, non recano soddisfazione all’individuo ma, al contrario, stimolano la ricerca di livelli di consumo sempre maggiori e, di conseguenza, un costante e crescente stato di insoddisfazione.

Questi risultati sono verificati per tutti i paesi ad alto reddito in anni recenti. Sta tutta qui, a mio avviso, la mutazione antropologica intuita poeticamente da Pasolini. Ecco la chiave del conflitto: il conflitto è tra i mutanti iperconsumatori che siamo oggi e i limiti fisici (ambientali, energetici) della crescita produttiva e dei consumi.

A mio parere, tuttavia, questo conflitto, che qualcuno cerca disperatamente (e meritoriamente) di individuare e di elevare al rango di azione politica, è ancora invisibile. Probabilmente ingabbiato nelle dinamiche del potere, tenuto sotto controllo dalle élite. Io non vedo conflitto patente nella società, né vedo movimenti politici in grado di incarnare e indirizzare questo conflitto. Non vedo rappresentanti, né rappresentati.

I mutanti di oggi mirano solo a perpetuare i propri modelli di consumo e, magari, a raggiungere o imitare penosamente modelli ancora più insostenibili. Le deprimenti vicende politiche italiane lo dimostrano ampiamente. È vero che altrove, in Europa e in America, è possibile osservare quadri politici meno deprimenti, ma la sostanza, a mio avviso, non cambia: a interrogarsi sui limiti dello sviluppo sono sparute minoranze intellettuali.

Nel frattempo lo sviluppo capitalistico prosegue sulla sua strada, aprendosi la strada verso nuovi profitti a colpi di innovazioni che producono nuovi bisogni, nuovi prodotti e nuovi mercati. Bene!, dirà qualcuno: è il magnifico cammino progressivo degli eroici imprenditori schumpeteriani. Non è così. Perché i nuovi bisogni a cui si risponde sono tutti esogeni rispetto alla sfera delle necessità umane. Sono tutti immaginati e confezionati dai meccanismi di marketing.

Mi viene in mente l’esempio del caffè espresso in cialde. Oggi, in molti casi, l’innovazione procede così: si creano prodotti che ci dispensano dal consumare poche calorie (energia endogena, di origine umana), impedendoci qualche gesto muscolare elementare attraverso la sola pressione di un pulsante, con un guadagno di praticità che può sembrare anche consistente, ma che non ripaga dai costi ambientali ed energetici dei nuovi modelli di consumo che ci vengono – ammettiamolo – imposti. Un modo di consumare e di produrre che segue logiche perverse e disumanizzanti.

Disumanizzanti perché queste innovazioni non ci risparmiano veramente fatica, non migliorano davvero le nostre condizioni di vita, ma ci evitano semplicemente di compiere dei gesti umani: avvitare, svitare, aprire, chiudere, versare, camminare, spingere, tirare, ecc. Gli esempi possibili sono migliaia, come la cialde per il caffè espresso, le sliding doors automatiche di luoghi pubblici e ambienti commerciali, le scale mobili e gli ascensori, i nastri trasportatori, i cancelli automatici, le serrande elettriche, e così via. Migliaia di esempi. Migliaia di marchingegni che, in estrema conclusione, ci riducono al rango di inabili. Tecnologie utilissime per anziani, bambini, persone con ridotte o compromesse facoltà motorie e percettive, inabilità temporanee e permanenti, ecc. Tecnologie che comportano enormi consumi energetici ed enormi produzioni di rifiuti ed emissioni.

E nel frattempo diventiamo sempre più obesi. Ed è la nemesi del nostro “progresso”. Per la prima volta, da quasi due secoli, la speranza di vita alla nascita negli Stati Uniti (il paese-guida di questo progresso) tende a diminuire. Per colpa dei rischi cardiocircolatori che aumentano, così come aumenta l’incidenza delle malattie tumorali e di altre patologie. Tutte fortemente correlate ai nostri stili di vita. Salvo spendere altre risorse, economiche ed energetiche, per andare in palestra, dove possiamo sfogare una volta di più le nostre voglie di consumo compulsivo.

Se il conflitto emergesse, e con esso una qualche forza politica capace di rappresentarlo, si dovrebbero colpire implacabilmente le esternalità ambientali dell’attuale modello di sviluppo, soprattutto attraverso il sistema fiscale, per costruire una potente macchina di incentivi e disincentivi in grado di riportare la sfera delle scelte individuali al rango di comportamenti umani. E un’altrettanto potente macchina di incentivi e disincentivi dovrebbe essere organizzata attraverso le politiche di welfare, in particolare quelle di contrasto a vecchie e nuove forme di povertà, dato che i trasferimenti monetari tendono a disperdersi in consumi di beni ben poco meritori. Paternalismo del sistema fiscale e paternalismo del sistema di welfare. Magari un paternalismo liberale (nell’ossimoro c’è tutta la difficoltà di immaginarlo), ma non mi pare ci sia altra scelta.

Peccato che all’orizzonte non si veda chi e come possa attuare un sistema simile. A meno che non si arrivi, e il pericolo è concreto, a rotture improvvise e violente degli equilibri geopolitici.

Luciano Barca: Cambiare la qualità della domanda

Premetto che quando parlo di uscita dalla crisi io intendo l’uscita da una situazione che non è solo di arresto o inversione del processo di crescita, ma di arretramento de sociale, morale, ambientale. Mi colloco quindi volutamente o cerco di collocarmi fuori da un discorso di meri aggiustamenti del modello attuale al fine di “ripristinarlo” e dal discorso su un progresso minimale, quale è quello che necessariamente si apre se diamo per immutabile nelle sue fondamenta l’attuale rapporto tra domanda e offerta.

Naturalmente apprezzo ogni ricerca volta a non distruggere ricchezza e a migliorare la situazione di coloro che più pagano per la crisi,a imporre regole ad una finanza “feroce”, ma ritengo che una collocazione all’esterno di una mera ricerca di ripresa della crescita sia necessaria anche ai fini dell’individuazione delle soluzioni immediate migliori.

Per questo ho apprezzato la parte della introduzione di Seravalli in cui si affronta la questione se l’economia capitalistica sia in grado e come di sussistere con crescita zero. Problema indirettamente posto anche da Franzini quando ha contestato che la crescita trascini meccanicamente con sé tutte le dimensioni del progresso ed ha distinto nettamente tra crisi della crescita e crisi del benessere.

Alla domanda esplicitamente posta, Seravalli ha dato risposta sostanzialmente negativa ed io concordo. con essa. Un sistema fondato sul profitto non può non fare della crescita una priorità assoluta e non può accettare che il PIL sia ridotto a componente di ben più complesso di misurazione del benessere sociale. Né l’attuale sistema è in grado di mettere in atto meccanismi di cooperazione, essenziali per affrontare il problema drammatico qui posto da Carandini.

Seravalli, ci ha anche detto che crescita zero ci riporterebbe inevitabilmente ai duri e tristi tempi dello scontro tra lavoratori e rentiers. E si è interrogato sul come contrapporsi a tale prospettiva nel momento in cui sono scomparsi i luoghi della produzione in cui il conflitto sociale si organizza.

E’ qui che amche io pongo una domanda: il conflitto sociale deve necessariamente assumere le forme valide fino al secolo scorso dello scontro sindacale e politico tra classe operaia e capitalisti o può assumere altre forme?

A questa domanda un grande protagonista del vecchio scontro sociale e cioè Giuseppe Di Vittorio rispose nel 1943 positivamente. E infatti accanto al sindacato di categoria volle che si costituissero e materialmente si costruissero luoghi territoriali dell’organizzazione del conflitto e cioè le Camere del Lavoro. Tra le cause dell’attuale logoramento della “sinistra”, intendendo con sinistra tutte le forze che non accettano l’attuale modo di produzione come fine della storia, io metto anche la distruzione delle Camere del Lavoro assurdamente cancellate dai successori di Di Vittorio in nome della modernità; così come, ovviamente, metto lo smantellamento di tutta la rete capillare territoriale dei partiti di massa.

E qui arrivo al senonché di Seravalli, senonché che ha preceduto il richiamo alla definizione da me usata dieci anni fa in un libretto per definire l’attuale modo di produzione: il capitalismo, affermavo, è un processo di continue separazioni a partire da quella da cui ha avviato la sua ricerca Marx – la separazione tra valore d’uso e quella di scambio – per arrivare a quella, anch’essa individuata da Marx come inevitabile, della separazione tra finanza e produzione di beni reali. Era stata quest’ultima separazione a creare la crisi del 1998, la prima legata alla bolla dei subprimes e considerata conclusa una volta ripresa la crescita, compresa ovviamente la crescita dei subprime.

La separazione della finanza dalla produzione e il passaggio della finanza al comando di tutto il processo non è tuttavia l’ultima separazione. A mio avviso se ne è verificata un’altra che era già stata anticipata dal fascismo e dal nazismo, sia pure con caratteristiche primitive e specifiche di violenza: la separazione tra modo di produzione e democrazia. Questa separazione ha portato al contrapporsi del sistema attuale a qualsiasi forma di socializzazione della politica, a qualsiasi processo di formazione di comunità capaci di esprimere scelte collettive autonome dal sistema. Il consumismo , così come ha ricordato Alessio Liquori, ha bisogno di individui separati e non di gruppi organizzati capaci di esprimere sul mercato, così come in un parlamento, una domanda collettiva pagante diversa da quella dettata dai media controllati da una piccola minoranza. Il modello attuale ha bisogno di uomini e donne e giovani che vadano in giro ascoltando solo la loro cuffietta individuale e ormai, in maggioranza, incapaci di incontrarsi e organizzarsi salvo che per andare agli stadi.

Il mio può apparire, e forse è, il predicozzo di un ex organizzatore di domanda collettiva autonoma ma io credo che è di questa realtà che dobbiamo tener conto, se non vogliamo perdere lo scontro senza neppure tentare di combatterlo, in un sistema in cui la produzione si è frammentata in mille luoghi, in paesi diversi, e in cui le redini della finanza mondiale sono nelle mani di cento persone.

A fianco delle ricette economiche che sono importanti dobbiamo dunque inventare i modi della ricostruzione dell’incontro. E’ un compito duro. L’avversario ci ha preceduti. Ha ragione Seravalli quando dice che i luoghi dell’organizzazione del conflitto non esistono. Come pensiamo che lavoratori ormai disseminati lontani gli uni dagli altri o precari o assunti come lavoratori autonomi da srl di comodo possano organizzarsi o solo incontrarsi per ragionare insieme ? Vanno dunque cercate altre forme di organizzazione e considerare la loro invenzione e presa sul territorio altrettanto importanti della corretta formulazione di un problema economico. Alcuni tentativi sono in corso in nome della tutela delle caratteristiche dei quartieri, o dei parchi o attorno alla rivendicazione di un ambulatorio più efficiente o di una scuola adeguata o nella lotta ai licenziamenti ma bisogna prendere atto che lo stesso volontariato è frammentato.

E’ indubbio che nuovi misuratori del benessere sono necessari, ma occorre non dimenticare mai che il benessere non verrà da solo o come meccanica conseguenza della adozione di nuovi,necessari indicatori. Dobbiamo sapere individuare le vie per crearlo e per presidiarlo con contro il mercato, ma nel mercato.

Maurizio Franzini: Qualche conclusione

Proviamo a trarre qualche conclusione, necessariamente provvisoria. Il workshop ha, in primo luogo, consentito di collocare in un più ampio ambito di riflessione le principali tematiche connesse alla crisi, che erano emerse in occasione delle lezioni organizzate da Etica ed Economia. In particolare, si è chiarito come la crisi possa essere osservata da diversi punti di vista e come il suo rapporto con la crescita possa essere concepito in modi diversi, a seconda dell’idea stessa di crisi alla quale si aderisce. Nel corso del dibattito sono state proposte interpretazioni che, con grado diverso di radicalità, riconducono la crisi non soltanto all’interruzione del processo di crescita, ma a più generali difficoltà del modello di sviluppo le quali rimandano, per un verso o per l’altro, alla capacità dei moderni sistemi economici e sociali di consentire il raggiungimento di adeguati livelli di benessere ad ampi strati della società. In questa ottica sono state proposte utili riflessioni circa il rapporto tra crescita economica e benessere sociale. Il workshop ha anche permesso di riflettere sull’effettiva possibilità di subordinare la crescita economica a una precisa scelta politica, prendendo in esame le principali teorie economiche della crescita, e valutando anche le conseguenze che il controllo “esterno” della crescita potrebbe avere sull’intensità e le forme del conflitto in un sistema capitalistico di mercato.

Su questi temi “Etica ed Economia” tornerà a riflettere, anche ampliando e approfondendo l’esame di alcuni dei temi trattati. A questo scopo sono già previsti due workshop per l’autunno che tratteranno specificamente la questione delle misure del progresso e del benessere, alternative al Pil, e i complessi rapporti tra crisi e Europa.

Schede e storico autori