COVID19: Strategie di contenimento

Chiara Felli offre una panoramica delle strategie di contenimento messe in atto da Germania, Cina e Sud Corea per fronteggiare il coronavirus, dalla quale risulta l’aggressività della strategia dei paesi asiatici: in Cina si considerano focolai anche gruppi di sintomatici di sole due persone, in Corea la macchina per il tracciamento dei contatti si è attivata già da fine gennaio. Di interesse, in Germania, è la facoltà concessa ai medici di base di richiedere un tampone per i loro assistiti e di utilizzare la diagnosi differenziale.

Nel confrontarci con un virus per il quale non c’è vaccino e al quale tutta la popolazione è vulnerabile disponiamo di due possibili strategie difensive. Possiamo mitigare l’epidemia, ovvero limitarci a ridurre il numero medio di nuovi casi legati ad un soggetto malato (il famoso R0), oppure possiamo tentare di sopprimerla portando il tasso riproduttivo di base sotto la soglia dell’unità (R0<1). Allo stato attuale, la ricerca accademica favorisce la strategia di soppressione, sia dal punto di vista della tenuta dei sistemi sanitari nazionali, sia nell’ottica di un’analisi economica che consideri i costi e benefici delle misure di distanziamento sociale attualmente in vigore (Ferguson et al., Imperial College London, Report 9; Adda, in The Quarterly Journal of Economics, 2016).

La ricetta per l’attuazione di un piano il più possibile efficace è chiara, è stata applicata in Cina e Sud Corea e viene ripetuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) su base giornaliera. Il distanziamento sociale è importante ma non basta, deve essere affiancato alla sorveglianza attiva e ad un coinvolgimento coordinato di tutti i livelli della società. Come rimarcato dal direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus, “per vincere, dobbiamo usare tattiche mirate e aggressive, testando ogni caso sospetto, isolando e curando ogni caso accertato, tracciando e mettendo in quarantena ogni persona che vi è stata a contatto” (WHO Director-General’s opening remarks at the media briefing on COVID-19 – 23 March 2020).

Il punto, però, è cercare di capire cosa significhi tattica mirata, anche a fronte della limitata evidenza empirica circa le modalità di trasmissione del virus. Non è chiaro, ad esempio, il ruolo che svolgono gli asintomatici e i bambini nel quadro generale di questa epidemia, nonostante ricerche recenti indichino come esso non sia trascurabile (Cai et al., in Clinical Infectious Diseases, 2020; Wu et al., in The Lancet, 2020; Rapporti di sorveglianza dell’Istituto Superiore di Sanità e del National Institute of Infectious Diseases giapponese). Come è noto, le linee guida italiane suggeriscono di effettuare test diagnostici (i cosiddetti tamponi) solo su individui sintomatici, ma le regioni hanno ampi margini di discrezionalità in merito. Come si comportano gli altri paesi? E in particolare cosa fanno i governi che hanno avuto qualche successo nel contenere l’epidemia?

Test, test, test. Le linee guida dell’OMS, aggiornate al 20 marzo 2020, indicano come siano da considerarsi casi sospetti tutti gli individui affetti da sintomi respiratori acuti (febbre e almeno un sintomo respiratorio quale tosse o respiro corto) che (i) siano stati, negli ultimi 14 giorni, in un luogo con trasmissione a livello comunitario, o (ii) siano stati a contatto con un caso confermato (nei 14 giorni precedenti), o (iii) abbiano necessità di cure ospedaliere in assenza di una diagnosi alternativa per la manifestazione clinica. Si specifica, inoltre, che ogni caso sospetto dovrebbe effettuare il tampone per confermare l’infezione da COVID-19, ma che, a seconda della capacità dei laboratori di analisi, si può dare priorità ad un sottoinsieme dei casi sospetti, a partire dal personale sanitario (che andrebbe testato anche in assenza di sintomi).

In Europa si seguono, in linea di massima, le indicazioni dell’OMS, ma anche piccole discrepanze nelle strategie nazionali possono fare la differenza nella lotta al COVID-19. Per esempio, è interessante osservare che, a partire da fine febbraio, la Germania ha ampliato i criteri per la somministrazione di test diagnostici e dato ai medici di base la facoltà di richiedere un tampone per i propri pazienti. In particolare, il Robert Koch Institute (RKI) tedesco, l’equivalente del nostro Istituto Superiore di Sanità, mette a disposizione un semplice diagramma che sintetizza le procedure da seguire per l’identificazione dei casi affetti da COVID-19. Alcuni dei criteri indicati sono in linea con le raccomandazioni dell’OMS richiamate in precedenza; tuttavia, vengono sottoposti a test anche altri soggetti in base alla cosiddetta diagnosi differenziale. In particolare, vanno comunque isolati individui che (i) presentino sintomi respiratori acuti di qualsiasi gravità con o senza febbre e siano stati in aree con comprovata trasmissione locale del virus (anche sul territorio nazionale) o per cui (ii) ci sia una evidenza clinica o radiologica di polmonite virale, anche in assenza di esposizione a casi confermati e/o territori particolarmente colpiti. Nel caso in cui non sia possibile formulare una diagnosi diversa, questi soggetti vengono, anche loro, sottoposti a tampone. Data la crescente evidenza empirica circa la possibilità di identificare, anche in maniera precoce, casi sospetti di COVID-19 tramite tomografia computerizzata (TC), l’idea di affiancare l’analisi radiologica ai tamponi è promettente, specie se coadiuvata dall’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale in grado di discriminare tra immagini compatibili con l’infezione in tempi brevissimi e con un impiego ridotto di capitale umano (Chung et al., in Radiology, 2020; Chen et al., in The Lancet, 2020; Kim et al., in Eur Radiol, 2020;  Albarello et al., in International Journal of Infectious Diseases, 2020). Una sperimentazione, in questo senso, è in corso al Policlinico di Roma e potrebbe rivelarsi utile proprio per mettere a punto quella tattica mirata di cui abbiamo bisogno. Come dichiarato al New York Times dal Dr. Aylward, capo del team inviato in Cina dall’OMS, per massimizzare l’efficacia dei tamponi, anche all’apice dell’epidemia, i cittadini cinesi sono stati sottoposti a controllo della temperatura, a TC in caso di febbre e al tampone in caso di immagini radiografiche compatibili con il virus.

Ma quale è, esattamente, la strategia seguita dal governo cinese? Il protocollo per la prevenzione del COVID-19 indica chiaramente le procedure da seguire per l’identificazione e presa in carico dei casi sospetti e/o confermati. In particolare, si elencano i quattro criteri epidemiologici e tre criteri clinici qui riassunti.

Criteri epidemiologici:

  1. Viaggio in aree a rischio nei 14 giorni precedenti all’insorgenza dei sintomi;
  2. Contatto con un caso confermato (entro 14 giorni);
  3. Contatto con un individuo sintomatico proveniente dalle aree a rischio, anche in assenza di conferma clinica della positività al virus;
  4. Presenza di almeno due casi (cluster) di individui con febbre e/o sintomi respiratori all’interno di contesti sociali di limitata entità (famiglie, uffici, scuole ecc.).

Criteri clinici:

  1. Febbre e/o sintomi respiratori;
  2. Radiografie polmonari consistenti con polmonite da COVID-19;
  3. Valori normali o bassi di globuli bianchi o linfociti nella fase iniziale dell’infezione.

Si definisce caso sospetto un individuo che presenti o uno dei criteri epidemiologi e due clinici oppure tre criteri clinici. Un caso sospetto viene poi confermato tramite uno dei seguenti test: il tampone (RT-PCR), l’isolamento della sequenza genetica del virus o la ricerca degli anticorpi (IgM/IgG). Anche i soggetti asintomatici, dunque, vengono sottoposti a test se classificati come contatti stretti di un caso sospetto e/o confermato o se appartenenti ad un cluster di infezioni.

Isolamento e quarantena. Il protocollo cinese indica poi le procedure da seguire una volta identificati i casi sospetti e/o confermati. In particolare, i casi sospetti sono posti sotto sorveglianza in stanze singole per un minimo di sette giorni e vengono dimessi solo dopo aver ricevuto esito negativo ai seguenti test: (i) due tamponi a distanza di ventiquattro ore e (ii) ricerca degli anticorpi specifici (IgG) nel sangue una settimana dopo l’inizio dell’isolamento. Inoltre, una volta dimessi, i casi sospetti sono comunque tenuti a rimanere in isolamento nella propria abitazione per ulteriori 14 giorni e a comunicare il loro stato di salute. Persino i casi positivi ma asintomatici vengono trasferiti in strutture centralizzate per trascorrere due settimane in isolamento controllato e gli viene consentito di tornare nella loro abitazione solo a seguito di due tamponi negativi effettuati a distanza di un giorno. In questo ambito, risulta fondamentale ricordare come i primi studi sulla trasmissione domestica del virus mostrino un ruolo preponderante delle infezioni in gruppi di conviventi e come sia dunque opportuno valutare attentamente il ricorso all’isolamento domestico fiduciario in Italia (Aylward et al., Report of the WHO-China Joint Mission on Coronavirus Disease). Anche le linee guida dell’OMS, d’altronde, suggeriscono di preferire l’utilizzo di ospedali o la riqualifica di ambienti idonei ad un isolamento controllato (palestre, alberghi ecc.)  all’assistenza domiciliare dei casi confermati.

Sorveglianza attiva. Oltre a quella cinese, una strategia che sembra aver dato buoni frutti è quella adottata dalla Repubblica di Corea. Il successo coreano è facilmente spiegato dall’esistenza di una macchina rodata e ben oliata per il controllo e prevenzione delle malattie infettive. La Corea ha, infatti, una lunga tradizione nel limitare e impedire l’importazione di patologie contagiose che vede i suoi albori nel 1954, anno in cui entrò in vigore il “Quarantine Act”. Il Korean Center for Disease Control (KCDC) ha, a sua disposizione, 13 centri di quarantena e 11 uffici situati nei pressi di aeroporti e porti nazionali e il compito di controllare i viaggiatori che fanno il loro ingresso nel paese. Le linee guida dell’agenzia, aggiornate periodicamente, prescrivono controlli della temperatura corporea dei passeggeri a seconda del paese di provenienza, la compilazione di questionari inerenti allo stato di salute dei viaggiatori, oltre che il mantenimento di un sistema per il trasferimento di pazienti sospetti presso strutture sanitarie. I punti di ingresso del paese hanno, poi, laboratori (BSL 2 o 3) che consentono l’espletamento rapido dei controlli clinici necessari e strutture volte all’isolamento dei passeggeri in attesa del responso delle analisi mediche (Joint External Evaluation of IHR Core Capacities 2017).  Nell’ambito dell’attuale epidemia, è sufficiente consultare i comunicati stampa del KCDC per rendersi conto della rapidità con la quale il sistema di sorveglianza è stato attivato. Il 21 gennaio si chiese alle strutture sanitarie di segnalare al KCDC qualunque paziente con una sintomatologia compatibile con l’infezione da COVID-19 e di annotarne i viaggi recenti. Il 23 gennaio, giorno della chiusura di Wuhan, una delegazione dell’Epidemic Intelligence Service venne inviata in Cina allo scopo di monitorare la situazione e, inoltre, il KCDC e 17 istituti di ricerca sparsi sul territorio nazionale aumentarono la loro capacità diagnostica a partire dal giorno successivo.  Nel comunicato del 28 gennaio si rese noto che le strutture per il triage sarebbero state moltiplicate con lo scopo dichiarato di individuare rapidamente soggetti asintomatici. A partire dai primi di febbraio vennero incrementati sia il personale addetto al numero verde del KCDC (preesistente ed in funzione h24), sia le cliniche private e centri medici da mobilizzare per espandere ulteriormente la capacità diagnostica. Infine, tutti gli arrivi da Wuhan furono sottoposti a controllo (3.023 individui dall’inizio degli accertamenti). Risulta evidente, dunque, come i punti di forza della Corea siano stati la tempestività e la preparazione. Probabilmente anche l’utilizzo della tecnologia, e in particolare la localizzazione tramite rete telefonica dei casi confermati di COVID-19, è stato strumentale nel contenere l’epidemia, ma documenti ufficiali in merito scarseggiano.

In Italia, l’idea di utilizzare sistemi automatici di tracciamento per rafforzare il controllo sugli spostamenti individuali sembra prendere piede, nonostante le potenziali ripercussioni sul diritto alla privacy. Pur evitando di entrare nel merito della questione, vista l’assenza di evidenze scientifiche sull’efficacia di simili provvedimenti, sorge spontaneo chiedersi come un tale sistema possa funzionare se non si estendono, innanzitutto, le misure volte a identificare ed isolare i casi sospetti e confermati.

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