Cosa vogliono (e quanto sono razionali) i terroristi?

Maurizio Franzini si chiede quali possano essere i veri obiettivi dei terroristi, in particolare se tra essi rientri quello di “farci cambiare le nostre abitudini” come spesso si afferma, e se i loro comportamenti rispondano ai requisiti della razionalità. Nel tentativo di rispondere a questa domanda Franzini richiama alcuni studi sull’economia del terrorismo e sulla sua razionalità e suggerisce che la comprensione del fenomeno richiede di considerare congiuntamente gli obiettivi e la razionalità di chi progetta e di chi esegue gli attentati.

Il 13 novembre non ha lasciato soltanto un dolore infinito nei nostri cuori ha anche disorientato le nostre menti, o almeno di quelle di alcuni di noi.  La mia, per esempio. Cosa vogliono davvero i terroristi? Non credo di saperlo, ma dovrei forse convincermi che appartengo a una minoranza resistente, visto che  dal quel tragico giorno quotidianamente si sente elencare cosa dovremmo o non dovremmo fare  per non darla vinta ai terroristi. Il che presuppone che si sappia cosa essi vogliono, in particolare da noi. In quell’elenco figura insistentemente il riferimento alle nostre abitudini di vita: siamo invitati a non cambiarle perché i terroristi vorrebbero che lo facessimo.  Anzi, per dirla con il Presidente del Consiglio, vorrebbero “disintegrare il nostro modo di vivere”.

Questo invito – che, naturalmente, ha mille altre ragioni per essere condiviso –  avrebbe una forza particolare se ai terroristi si potesse attribuire non soltanto quell’obiettivo, ma anche una chiara razionalità strumentale: quella che domina l’analisi degli economisti (e non solo) e che consiste nell’assumere che, dati gli obiettivi, gli individui scelgono le azioni che meglio (cioè, più efficientemente) consentono di raggiungerli. In questo caso si tratterebbe dell’atto terroristico e in particolare di un atto terroristico dove i terroristi si suicidano. Dunque, se queste premesse fossero coerenti con i fatti, sarebbe decisivo non cambiare le nostre abitudini dopo gli atti di terrorismo: lo sarebbe perché renderebbe quel terribile mezzo inidoneo a  raggiungere l’obiettivo e, dunque, spingerà a abbandonarlo.

La questione si può porre in termini più generali: possiamo assumere che i terroristi, in particolare quelli che si suicidano, siano mossi da una razionalità strumentale (e, in subordine, qual è il loro obiettivo)?  Se sì, possiamo trasformare la loro razionalità in un’arma per combatterli? E, soprattutto, possiamo parlare di terroristi senza distinguere tra coloro chi esegue e chi progetta gli attentati?

Ignoravo che a queste domande avessero dedicato una grande, e spesso acuta, attenzione numerosi studiosi nel corso degli ultimi anni e che il terrorismo fosse stato oggetto di così tanti studi da parte non soltanto di sociologi e politologi, ma anche di economisti. Molti di questi studi sono di carattere empirico e, utilizzando diverse banche-dati sugli attentati terroristici nel mondo, cercano di individuare le cause degli atti di terrorismo. Sono, dunque, utili anche per esprimersi sugli obiettivi, sulle motivazioni e sulla razionalità dei terroristi.  Ricordo soltanto la rassegna di T. Sandler sul Journal of Peace Research del 2014) e il numero dell’Oxford Economic Papers di gennaio 2015.

Come scrive Sandler, le determinanti degli atti di terrorismo sono moltissime e ciò può dar conto del fatto che i risultati a cui pervengono i vari studi empirici non sono convergenti.  Ad esempio, è incerto l’effetto del reddito sulla decisione di compiere attentati terroristici.  Le prime analisi, in particolare quella di A. B. Krueger e J. Malečková (in Journal of Economic Perspective, 2003) escludevano che i terroristi fossero prevalentemente poveri; analisi successive hanno sottolineato l’importanza non del reddito dei terroristi ma di quello del paese di loro provenienza e hanno trovato che così inteso il reddito basso è un fattore che facilita la diffusione del terrorismo; altri (in particolare W. Enders e G.A. Hoover su American Economic Review  del 2012)  hanno sostenuto che il segmento di società che più alimenta il terrorismo è la classe media.  Si è anche esaminato, raggiungendo risultati diversi,  il ruolo del titolo di studio, del grado di democrazia, della libertà politica e di altro ancora.

Questa incertezza nei risultati probabilmente dipende anche dal fatto che le motivazioni dei terroristi sono assai variegate e i loro comportamenti hanno rapporti diversi con la razionalità; perciò essi possono variare a parità di condizioni sociali ed economiche. Inoltre, come ho già accennato, l’atto terroristico può risultare dalla combinazione di razionalità e obiettivi diversi: quelli degli “esecutori” e quelli degli “organizzatori”.

La discussione sulla possibilità di riconoscere come razionali i comportamenti dei terroristi è iniziata da molto tempo. W. Landes quasi 40 anni fa ha assunto in un suo studio sui dirottamenti aerei (pubblicato sul Journal of Law and Economics del 1978) che i terroristi sono agenti razionali. All’opposto, per M. Abrahms (in un articolo pubblicato su International security del 2008) i terroristi sarebbero irrazionali perché incapaci di adottare le strategie che assicurano il raggiungimento dei propri obiettivi.

Il caso che a noi interessa è, specificamente, quello del terrorista suicida al quale sono stati dedicati numerosi studi. Ricordo, tra gli altri,  il volume curato da D. Gambetta nel 2006 dal titolo Making Sense of Suicide Missions e il libro di F. Marone La politica del terrorismo suicida del 2013. Da quest’ultimo libro traggo una significativa affermazione di A. Merari (che risale al 1990): “La volontà dei terroristi di uccidere è molto più comune e molto meno sorprendente della loro volontà di uccidere se stessi. Negli attacchi terroristici suicidi è l’aspetto del sacrificio di sé piuttosto che l’aspetto dell’omicidio che suscita curiosità scientifica e preoccupazione pubblica”.

Gli attacchi suicidi (a parte qualche precedente storico)  si sono diffusi a partire dagli anni ’80 in Libano, ma si sono fortemente intensificati a partire dal 1998. Secondo C. Santifort-Jordan e T. Sandler, che utilizzano tre banche-dati,  tra il 1998 e il 2010, nel mondo si sono avuti 2.448 attacchi suicidi (cfr. Southern Economic  Journal, 2014), mentre  Marone, nel libro citato, parla di un totale di più di 4.000  con circa 33.000 morti.

Quali motivazioni inducono questi terroristi al suicidio? E’ razionale il loro comportamento? Il loro suicidio potrebbe, in particolare, essere considerato un mezzo per raggiungere l’obiettivo di farci cambiare modo di vivere?

Le questioni sono complesse, ma si può tentare di fare un elenco delle motivazioni che i vari studi sul tema (ben presentati nel libro di Marone) attribuiscono ai terroristi in generale e ai suicidi in particolare.

In una logica  strumentale, il suicidio è un mezzo ai seguenti possibili fini:

  • ottenere con il martirio la gloria dopo la propria morte: come ricorda Marone il caso è noto come la “sindrome di Erostrato”, dal nome del pastore greco che distrusse una delle sette meraviglie, il tempio di Artemide a Efeso, al solo scopo di rendere immortale il proprio nome;
  • conquistare per sé una vita eterna beata, tra le belle hari che, secondo la religione islamica, sono pronte ad accogliere i martiri. Come ha osservato J.Elster (nel volume curato da Gambetta) l’aspettativa di una vita felice nell’al di là può essere vista come una sorta di bene di consumo strumentale che corrisponde a ciò che nella dottrina cattolica viene chiamato simonia;
  • procurare un vantaggio ai propri familiari, eventualmente anche materiale, se in qualche comunità fosse perversamente previsto;
  • consumare una vendetta;
  • assicurare alla propria comunità, indirettamente, un vantaggio che possiamo genericamente definire politico, attraverso gli effetti che l’atto potrebbe avere sulle decisioni del proprio governo (terrorismo domestico) o di un altro paese (terrorismo transnazionale).

Queste motivazioni, come si vede, possono dipendere da credenze e valori culturali diversi e sono perfino compatibili, in alcuni casi,  con atteggiamenti altruistici. Peraltro, in tutti questi casi siamo di fronte a una logica che risponde ai requisiti della razionalità strumentale: il suicidio è un mezzo che di per sé non conta nulla. Quel che conta è il fine.

Potremmo anche riferirci a una diversa concezione di razionalità, quella che Max Weber chiamò “razionalità rispetto ai valori” per la quale determinate azioni hanno valore in sé, non per le loro conseguenze. Nel caso dei terroristi suicidi, il desiderio di partecipare a un attentato terrorista in quanto tale potrebbe avere queste caratteristiche. Come recita il titolo di un libro di M. Bloom l’obiettivo sembra essere quello di “morire per uccidere” (Dying to Kill: The Allure of Suicide, 2005); dunque, fini e mezzi diventano indistinguibili.

Dunque, il comportamento dei terroristi esecutori potrebbe essere in vari sensi razionale, ma nell’elenco dei loro possibili obiettivi non sembra essere prominente quello di indurre i connazionali delle loro vittime (nel caso del terrorismo transnazionale) a cambiare il proprio modo di vivere. Dunque, il frequente invito a resistere su questo versante non sembra avere alcuna possibilità di preludere a una sconfitta (non solo simbolica) del terrorismo.

Questa analisi è, però, incompleta. Lo è perché, l’ho già ricordato, l’atto terroristico presuppone un’organizzazione più complessa nella quale gli esecutori-suicidi possono essere concepiti, per usare un linguaggio familiare agli economisti e non solo, come gli “Agenti” di “Principali” che agiscono sotto la spinta di motivazioni diverse e forse ben più materiali di quelle dei loro “Agenti”. La razionalità strumentale dei “Principali” può essere molto forte: sanno individuare con precisione i propri obiettivi e selezionare i mezzi migliori per raggiungerli. Tra questi vi può essere anche il suicidio dell’esecutore – Agente. Il problema “organizzativo” (se l’orrore consente di usare questo termine) è indurre l’Agente a considerare la propria vita niente più che un mezzo per raggiungere un fine che apparirà alto – dunque a alterare, in una logica strumentale, il calcolo dei costi e dei benefici – oppure a concepire l’atto suicida come un fine in se stesso. In breve, i “Principali” possono raggiungere il proprio obiettivo sia modificando il modello di razionalità strumentale degli “Agenti” sia piegando i modelli cognitivi di questi ultimi a quelli della razionalità dei valori in sé.

Questo tentativo di manipolazione – che certo è estremo ma non è strutturalmente diverso da quello che rileviamo in tanti altri ambiti – può essere condotto in vari modi; in particolare, operando sulla tastiera dei valori culturali e religiosi così da rendere il contesto in cui si opera il più favorevole a creare quei terribili mezzi di cui hanno bisogno gli obiettivi dei “Principali”.

Ma quali sono questi obiettivi? Potrebbero essere proprio quelli di farci cambiare abitudini così da ridare validità all’invito che ho più volte richiamato come strumento di lotta al terrorismo: rendendo quest’ultimo inefficace rispetto a quello scopo, si indebolirebbe anche la pressione che i “Principali” possono esercitare sui loro “Agenti” per indurli al suicidio terrorista.

Potrebbe essere così ma non credo che sia così. Non lo credo perché a me pare che l’obiettivo prioritario di questi “Principali” sia, con qualche adattamento, quello che Abrahms (nel saggio citato) attribuisce a tutti i terroristi: rafforzare i legami di solidarietà sociale. Io direi che i “Principali” aspirano a rendere più coesa la comunità che essi controllano e quindi il loro potere. L’atto terroristico suicida può essere molto utile a questo scopo. Dunque siamo di fronte a obiettivi molto materiali e se di questo si tratta, che le nostre abitudini cambino o non cambino è irrilevante per convincere i “Principali” a rinunciare al terrorismo per raggiungere i propri scopi.

In conclusione, le logiche da cui dipende la scelta di ricorrere al terrorismo suicida sono ben diverse da quelle che si potrebbero desumere attribuendo ai terroristi obiettivi semplici come quello con il quale ho polemizzato.  Il terrorismo, anche quello suicida, può  conformarsi ai criteri della razionalità, ma ha altri obiettivi, alcuni dei quali forse ci sono sconosciuti. Soprattutto, ciò che drammaticamente osserviamo sembra essere il frutto della combinazione tra la forte razionalità strumentale dei “Principali” e  la più debole o diversa razionalità degli “Agenti”. Una combinazione in grado  di  creare una miscela che, purtroppo,  è esplosiva non soltanto in senso metaforico.

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