Cosa resta del diritto all’abitare

Elisa Olivito si sofferma sul diritto all’abitare per come può intendersi garantito dalla Costituzione italiana, nonché su alcune sue forme di distorta attuazione e/o di evidente mancata attuazione: svalutazione delle locazioni a uso abitativo, incentivazione dell’acquisto dell’abitazione, restringimento dei requisiti per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica. Olivito richiama, in particolare, due vicende speculari: gli esigui stanziamenti per il Fondo nazionale per le locazioni, da un lato, e lo sfaldamento dei vincoli alla cessione di alloggi costruiti con il contributo pubblico, dall’altro.

La tutela del risparmio degli italiani, secondo quanto previsto in Costituzione, è stata al centro del dibattito che ha accompagnato la formazione del Governo attualmente in carica. L’articolo 47, primo comma, Cost. stabilisce, a tal proposito, che la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme. Nondimeno, al secondo comma, si dispone che «[la Repubblica] favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese».

Sulle pagine del Menabò si era già avuto modo di sottolineare la necessità di leggere quel riferimento alla “proprietà dell’abitazione” in combinato disposto con altre disposizioni costituzionali (artt. 2, 3, 41, 42 Cost.), poiché il favor costituzionale va alla proprietà del bene materiale solo nella misura in cui esso sia destinato ad assolvere alle esigenze abitative del proprietario e non può ritenersi, invece, operante quando l’acquisto dell’immobile sottenda fini speculativi ovvero di mero investimento personale. Inoltre, da quel combinato disposto si ricava la garanzia di un diritto sociale all’abitare, che esige interventi tesi ad assicurare un alloggio adeguato a coloro che si trovino nell’impossibilità di sostenere i prezzi di mercato delle locazioni.

A partire dal secondo dopoguerra le politiche abitative sono, tuttavia, andate in direzione ostinata e contraria, con la progressiva svalutazione della locazione a uso abitativo e la contestuale incentivazione dell’acquisto dell’abitazione. Ciò è avvenuto, da un lato, attraverso la liberalizzazione del mercato locatizio e il mancato adeguato sostegno ai conduttori, nonché, dall’altro lato, mediante interventi a favore della sostenibilità dei mutui immobiliari, una tassazione immobiliare agevolata, la facilitazione della cessione in proprietà degli immobili di edilizia sovvenzionata, agevolata e convenzionata.

Espressione del primo atteggiamento è il graduale prosciugamento del “Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione”, istituito dall’art. 11 della legge n. 431/1998 presso il Ministero dei lavori pubblici. A fronte dell’aumento dei potenziali beneficiari del contributo, per un verso l’accesso degli immigrati al suddetto Fondo è stato subordinato al possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale o da almeno cinque anni nella medesima Regione (art. 11, tredicesimo comma, del decreto-legge n. 112/2008, convertito con modificazioni in legge n. 133/2008, su cui ora pende una questione di legittimità costituzionale davanti la Corte costituzionale); per l’altro verso, gli stanziamenti annui per il Fondo sono costantemente diminuiti, così che l’importo monetario medio erogato ai nuclei familiari si è significativamente ridotto.

Dopo che nel 2011 si era toccata l’irrisoria cifra di dieci milioni di euro, un ulteriore stanziamento di cento milioni si era avuto per ciascuno degli anni 2014 e 2015 (sebbene le risorse effettivamente trasferite dalle Regioni ai Comuni siano state poco più del venti per cento). Successivamente, la legge di stabilità n. 208/2015 non aveva disposto alcun finanziamento per il 2016, mentre da ultimo, l’art. 1, commi 20 e 21, della legge n. 205/2017 ha assegnato nuovamente al Fondo una dotazione di soli dieci milioni di euro per ciascuno degli anni 2019 e 2020, prevedendo inoltre che le Regioni possano destinare al Fondo in questione le somme non spese della dotazione del Fondo destinato agli inquilini morosi incolpevoli (art. 6, quinto comma, del decreto-legge n. 102/2013, convertito con modificazioni in legge n. 124/2013).

Sul versante della vendita di alloggi costruiti grazie all’apporto economico, fiscale e/o urbanistico di enti pubblici, è noto come negli anni siano state poste in essere illegittime operazioni speculative di cessione ovvero di locazione a prezzi di libero mercato di molti alloggi di edilizia agevolata e convenzionata, con il sostanziale aggiramento dei vincoli normativamente previsti al fine di ancorare, ad esempio, la concessione di aree edificabili, la riduzione degli oneri di costruzione e lo scomputo dei contributi di urbanizzazione al perseguimento dell’interesse pubblico. Lo scostamento di tali forme di edilizia dalle finalità sociali per cui erano state promosse si è persino accentuato in seguito alla rimozione dei vincoli di prezzo stabiliti per la vendita degli alloggi in edilizia agevolata e convenzionata (art. 31, comma 49-bis, legge n. 448/1998), che ha così consentito ai primi assegnatari operazioni speculative di rivendita a prezzi di mercato degli alloggi da essi acquistati a prezzi vincolati.

Sul punto deve, però, registrarsi un’importante pronuncia delle Sezioni Unite Civili della Corte di cassazione (sentenza n. 18135/2015, per la cui problematica interpretazione “costituzionalmente orientata” si veda da ultimo l’ordinanza del Tribunale di Roma del 17 aprile 2018). I giudici della Suprema Corte non soltanto hanno affermato il principio secondo cui il vincolo alla determinazione del prezzo di cessione degli alloggi di edilizia convenzionata (di cui all’art. 35, legge n. 865/1971) permane anche nei passaggi successivi alla prima alienazione all’assegnatario, perché altrimenti le finalità sottese alla previsione legislativa del vincolo sarebbero frustrate, ma soprattutto ha sottolineato che «la soluzione adottata appare altresì conforme, sotto il profilo teleologico, ad una politica volta a garantire il diritto alla casa, facilitando l’acquisizione di alloggi a prezzi contenuti (grazie al concorso del contributo pubblico) ai ceti meno abbienti e non certo quella di consentire successive operazioni speculative di rivendita a prezzo di mercato» (corsivi miei).

Le due vicende – l’una attinente agli esigui stanziamenti per il Fondo nazionale per le locazioni e l’altra concernente lo sfaldamento dei vincoli alla cessione di alloggi costruiti con il contributo pubblico – possono del resto ritenersi speculari. Entrambe sono, infatti, il segno di politiche del diritto in tema di abitazione sostanzialmente dimentiche dei principi costituzionali di eguaglianza sostanziale e di pari dignità sociale, così come della funzione sociale della proprietà privata.

Peraltro, i “piani casa” susseguitisi negli ultimi anni (2008, 2014) si sono caratterizzati sia per l’insufficiente attenzione al patrimonio di edilizia residenziale pubblica, che necessita invece di cospicui investimenti ai fini del recupero e del contestuale incremento, sia per la spinta verso la c.d. edilizia residenziale sociale, che sovente è agevolata nella forma dei fondi immobiliari di investimento. Se l’edilizia sociale, in difetto di risorse pubbliche, predilige un maggiore coinvolgimento di soggetti privati nella realizzazione di alloggi che siano accessibili a prezzi più contenuti rispetto a quelli di mercato (ma in ogni caso più alti di quelli sostenibili dalle fasce di reddito più basse), essa non può però considerarsi di per sé orientata al perseguimento di finalità sociali, quando manchino adeguati strumenti di indirizzo e di controllo pubblici. L’azione dei privati sul lato dell’offerta è, invero, tendenzialmente dettata da logiche di remunerazione degli investimenti privati, che gli attori pubblici (in special modo gli enti territoriali minori) non sono sempre in grado di orientare o contenere.

Alla progressiva diminuzione degli investimenti nell’edilizia residenziale pubblica, contestualmente all’aumento delle domande per accedervi, è peraltro conseguita la scelta di alcune Regioni di prevedere requisiti più restrittivi in particolar modo per i cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea. Diverse sono state al riguardo le pronunce della Corte costituzionale, che da ultimo ha accolto una questione di legittimità costituzionale avente a oggetto l’art. 4, primo comma, della legge della Regione Liguria n. 13/2017 (sent. 106/2018). Tale disposizione aveva stabilito che, ai fini dell’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, il precedente requisito prescritto per i cittadini di paesi non UE (la titolarità di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno almeno biennale abbinata all’esercizio di attività lavorativa) fosse sostituito dalla regolare residenza «da almeno dieci anni consecutivi nel territorio nazionale». A parere della Corte, tuttavia, una siffatta previsione è da ritenersi incostituzionale, perché priva di ragionevolezza e di proporzionalità e perché si risolve in una forma dissimulata di discriminazione nei confronti dei cittadini di Paesi terzi in ordine al diritto sociale all’abitazione, «che è diritto attinente alla dignità e alla vita di ogni persona e, quindi, anche dello straniero presente nel territorio dello Stato» (corsivi miei).

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