Cosa davvero è successo a Parigi durante la conferenza sul clima atmosferico

Hilal Elver e Richard Falk esaminano l’accordo raggiunto nella recente Conferenza di Parigi sul surriscaldamento globale e criticano soprattutto l’ampio ruolo riconosciuto al volontarismo dei singoli paesi nell’attuazione delle misure di contrasto. I due autori sostengono che questo accordo ricorda i trattati sui diritti umani, spesso utilizzati dalla società civile per esercitare pressioni sui governi e ritengono che un attivismo globale che dia origine ad un movimento per la giustizia climatica è il miglior risultato che possiamo attenderci.

I media mondiali hanno definito l’Accordo di Parigi sui Cambianti climatici come il maggior successo ottenuto dalla diplomazia multilaterale sotto il patrocinio dell’ONU. È senz’altro un risultato notevole che 195 partecipanti si siano accordati su di un progetto di salvaguardia del pianeta.

Al termine della conferenza sono “passate” immagini che ritraevano capi di Stato di tutto il mondo, mentre si congratulavano gli uni con altri. Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama si è rivolto alla popolazione mondiale, affermando che Parigi è un punto di svolta storico. È stato un trionfo della diplomazia francese che ha ridato fiducia all’opinione pubblica in risposta all’esito negativo della Conferenza di Copenhagen nel 2009.

Se consideriamo però più attentamente i punti sui quali si è trovato l’accordo, avremmo un quadro più chiaro. L’accordo offre forse una realistica speranza che la comunità internazionale riuscirà a contrastare quelle azioni dell’uomo che si ripercuotono sugli equilibri del clima? Davvero ognuno dei 195 firmatari si è impegnato a sostenere l’accordo? La risposta a queste domande cambia a seconda di chi dà le risposte.

Per la prima volta l’accordo ha definito l’aumento del riscaldamento globale da 1,5 a 2 gradi come limite massimo accettabile. Per questo motivo la conferenza di Parigi è considerata un successo. Tuttavia, passato l’entusiasmo iniziale dovremmo entrare nelle pieghe degli accordi.

Se considerassimo soltanto gli impegni volontari per la riduzione dei gas a effetto serra, l’inquietante verità sarebbe che anche nella situazione più favorevole ma meno realistica – che cioè ogni Paese si impegnasse a rispettare quanto promesso -, la temperatura media della Terra risulterebbe di almeno 3 gradi più alta entro la fine del secolo. Di fatto, la base dello scetticismo a proposito di Parigi è rappresentata dalla distanza tra la prevista temperatura media anticipata e gli obiettivi dichiarati, i quali non sono altro che un’aspettativa stravagante e ottimista.

Escludere poi ogni riferimento alle responsabilità storiche rappresenta una vittoria psicologica per i Paesi industrializzati, ma solo il tempo ci potrà dire se si tratta di una vittoria decisiva. I Paesi più ricchi, capitanati dagli Sati Uniti, hanno raggiunto importanti risultati che possono essere considerati sia decisivi che simbolici. Oltre a nascondere la questione delle ‘responsabilità differenziate’, essi sono riusciti a indebolire il principio di “perdita e danno”, teso a rendere i Paesi industrializzati finanziariamente responsabili delle misure necessarie per superare l’impatto negativo sui Paesi in via di sviluppo (PVS) dei cambiamenti climatici.

Senza dubbio, il più grande, e più inquietante, successo diplomatico a Parigi, per i Paesi sviluppati, è stato quello di rendere l’accordo, in tutti i suoi aspetti, volontario. Anche gli impegni sottoscritti dai Paesi – chiamati ‘Contributi programmati stabiliti a livello nazionale’ (‘Intended Nationally Determined Contributions’, INDCs) – per quanto riguarda la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra non sono obbligatori, ma volontari. Ma il linguaggio è astuto, e piuttosto fuorviante. Normalmente la parola ‘impegno’ implica un impegno obbligatorio, mentre l’intento di Parigi è stato sicuramente indirizzato ad evitare una tale responsabilità. A questo proposito, gli ‘impegni’ approvati come INDCs non sono a ben vedere impegni per tutti, ma un abile tentativo di colmare la distanza tra l’accettazione di fare qualcosa, da un lato, e il non essere obbligati a fare proprio ciò che si è concordato di fare, dall’altro. E’ il risultato di una pressione al ribasso esercitata dalla leadership americana sul processo negoziale, riflesso della convinzione che qualsiasi accordo veramente obbligatorio dovrà essere presentato al Senato degli Stati Uniti per la ratifica, per poi – quasi certamente – morire lì.

La notizia migliore è che l’accordo renderà tutti gli impegni nazionali trasparenti e rivedibili. Ogni cinque anni, a partire dal 2025, si potranno rivedere e ripensare impegni assunti in precedenza. Se qualcuno dei Paesi firmatari non riuscisse a mantenere i suoi impegni, dovrà dare conto di ciò e eventualmente pagarne le conseguenze. La risposta un po’ irritante è che nulla è stabilito. Al massimo, un processo di ‘naming and shaming’, che potrebbe offuscare la reputazione di quello Stato che non riuscisse imperdonabilmente ad onorare il proprio impegno.

Le prospettive dell’ “adeguamento” ricordano l’esperienza dei diritti umani, e in particolare la lunga storia di successi e fallimenti associata con la Dichiarazione universale dei diritti umani, forse la più influente serie di impegni “volontari” mai sottoscritta. Anche allora, quando fu redatta e approvata, le aspettative erano poche. Tuttavia fu creata un’architettura normativa capace di dotare la società civile di un potente strumento di pressione. Si scoprì quindi che la maggior parte dei governi, anche se non tutti, si preoccupava abbastanza della propria reputazione internazionale da tentare almeno di soddisfare la maggior parte delle richieste provenienti dalle organizzazioni non governative impegnate nella battaglia per i diritti umani.

Riteniamo che l’accordo di Parigi abbia creato uno strumento simile. A questo punto non è chiaro se un approccio soft law si rivelerà sufficiente per limitare la minaccia del riscaldamento globale. Non possiamo essere troppo fiduciosi. L’attivismo per il clima varia notevolmente da Paese a Paese, e, talvolta, proprio dove sarebbe più necessario, è del tutto assente o troppo debole. Si sono avuti, tuttavia, alcuni sviluppi positivi: è incoraggiante vedere, ad esempio, che il movimento per il clima sta diventando transnazionale. Se risulterà efficace, questo attivismo costringerà anche i governi e le istituzioni internazionali ad impegnarsi nell’attuazione dell’accordo.

Accontentarsi di un accordo volontario poi è stato il più grande cambiamento rispetto al Protocollo di Kyoto: qui le azioni previste gravavano solo sui Paesi sviluppati, mentre i Paesi in via di sviluppo (PVS) non erano soggetti a limiti. Con questa scusa, gli Stati Uniti e molti altri Paesi non aderirono all’accordo sulla riduzione delle emissioni con il risultato che Kyoto è nato morto, riguardando solo il 12% delle emissioni globali.

Parigi è, in questo, molto diversa da Kyoto: tutti gli impegni sono volontari, ma gli obblighi sono applicabili a tutti i Paesi, ricchi o poveri, sviluppati o in via di sviluppo. I Paesi faranno le loro previsioni in base alle loro valutazioni nazionali.

Il rapporto tra Parigi e Kyoto ricorda quello tra le Nazioni Unite e l’organizzazione che la precedette, la Società delle Nazioni. La Società aveva trattato tutti i Paesi come aventi la medesima sovranità, mentre le Nazioni Unite diedero ai cinque vincitori dopo la Seconda Guerra mondiale un diritto di veto e un posto come membro permanente nel Consiglio di Sicurezza. Un accordo per cui l’universalità della partecipazione fu raggiunta a costo di concedere ai principali attori geopolitici la facoltà di disobbedire alla Carta ogni volta che i loro interessi lo avessero imposto. Parigi prevede un compromesso equivalente. In cambio della partecipazione di tutti gli Stati, il contenuto di ciò che è stato concordato risulta seriamente compromesso.

Non si tratta solo di un problema concettuale. La differente capacità dei Paesi di affrontare la sfida dell’adeguamento rende problematico il raggiungimento del bene collettivo.

Vale la pena di notare che i negoziati sui cambiamenti climatici spesso sembravano focalizzati più su politiche di finanza, di sviluppo e di energia che non di prevenzione del riscaldamento globale. Il tiro alla fune riguarda la distribuzione dei benefici e degli oneri. C’è una competizione tra i PVS su quali aiuti finanziari siano adeguati e come dovrebbero essere forniti. Ci sono anche le comunità senza voce che sono essenzialmente non rappresentate, tra cui un miliardo di persone che lottano con la povertà estrema e la fame, e 350 milioni di indigeni. Per coloro che sono ai margini, la preoccupazione è meno per le astrazioni del denaro e più per le questioni concrete della sussistenza quotidiana e persino della sopravvivenza. Gli attivisti per i diritti umani sono riusciti a far comparire le loro preoccupazioni sociali nell’Accordo, ma solo nel preambolo. In effetti, questo riferimento, nel preambolo, dà all’attivismo della società civile ‘un gancio’ per sollevare questioni relative alla giustizia climatica.

Nell’accordo di Parigi, un imbarazzante silenzio riguarda il sistema che andrà a finanziare l’impegno per limitare il riscaldamento globale entro livelli di sicurezza. Con l’obiettivo posto sotto 1,5 gradi centigradi, c’è un bisogno stimato di $16.000 miliardi nei prossimi 15 anni. Il mondo sviluppato ha finora accettato di mettere a disposizione $100 miliardi all’anno entro il 2020 per coprire i costi di riduzione delle emissioni e il rimborso delle spese di adattamento. E anche questo impegno è volontario e, a giudicare dalle esperienze passate, è probabile che sarà clamorosamente mancato.

Dopo questo esame dell’esito di Parigi dovremmo chiederci ‘perché celebrare’? La maggior parte di noi è troppo disposta ad accettare i sorrisi dei diplomatici e il loro entusiasmo. I francesi hanno la meritata reputazione di saper gestire questioni internazionali complesse, il che implica un talento per non riuscire a trovare soluzioni reali senza dover ammettere la sconfitta. Questo sembra essere quello che è successo a Parigi. L’accordo non è riuscito a fare ciò che era necessario, ma si è fatto finta che finalmente la sfida dei cambiamenti climatici sia stata affrontata con successo grazie all’impegno collettivo della diplomazia multilaterale sotto l’egida dell’ONU.

Allo stesso tempo, non mancano i lati positivi. Il risultato di Parigi è la testimonianza del consenso di cui gode tra i governi l’idea che sia necessaria una forte azione collettiva per ridurre le emissioni di carbonio nei prossimi anni. Confinare i problemi dei diritti umani al preambolo ed escludere completamente considerazioni di equità e sicurezza alimentare significa rafforzare l’impressione fuorviante che per affrontare in modo efficace il cambiamento climatico sono sufficienti la scienza del clima e l’ economia. A nostro avviso, se non si aggiunge l’etica all’equazione della politica, inaccettabili sofferenze climatiche accompagneranno gli sforzi per evitare un ulteriore surriscaldamento del pianeta. A questo proposito, la saga dolorosa delle onde di profughi disperati che periscono in mare o aggrappati alla vita di imbarcazioni sovraffollate è una metafora eloquente di un ordine mondiale disumano.

* Nota di redazione: Degli accordi di Parigi sul clima si è precedentemente occupata sul Menabò, Elisabetta Magnani, www.eticaeconomia.it/i-mercati-e-il-cambiamento-climatico-il-codice-economico-finanziario-del-cop21/

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