Corruzione, concussione e induzione indebita: il sistema dei delitti di mercimonio della pubblica funzione dopo la riforma del 2012

La prima delle due schede che corredano questo numero del Menabò, scritta da Luca Bisori, è dedicata all’esame delle norme che regolano i reati dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione. Oltre che sull’antica distinzione tra concussione e corruzione la scheda si sofferma sulla nuova figura dell’induzione indebita, introdotta nel 2012, della quale sottolinea le possibili ambiguità.

La presente scheda si prefigge di illustrare le caratteristiche del sistema normativo dei reati dei pubblici ufficiali contro la P.A. a seguito della riforma del novembre 2012, con particolare riferimento al tema delle differenze strutturali tra le tradizionali figure delittuose della concussione e della corruzione e la nuova figura intermedia della induzione indebita a dare o promettere utilità, di cui all’art. 319 quater del codice penale.

Nell’assetto previgente, il mercimonio della funzione pubblica era disciplinato secondo la fondamentale bipartizione concussione/corruzione, incardinato sul duplice principio della non punibilità del privato (nella concussione) e della pari punibilità dei contraenti (nella corruzione). Poiché la fattispecie concussiva contemplava anche la condotta di induzione alla dazione indebita, concettualmente contigua ad una sollecitazione o proposta meramente corruttiva da parte del pubblico ufficiale (p.u.), la giurisprudenza era faticosamente giunta a fissare il tratto distintivo tra le due fattispecie nel diverso atteggiamento psicologico del privato: di paura (cd. metus publicae potestatis), indotta da una posizione di superiorità del p.u. idonea ad intimorire il privato, nella concussione; di parità sinallagmatica, nel cui contesto si realizza un libero scambio illecito tra funzione ed utilità, nella corruzione.

In questo quadro sufficientemente consolidato è intervenuta la riforma, adottata anche sulla spinta degli obblighi internazionali [1. In particolare, in seguito alle critiche mosse al sistema previgente dal rapporto redatto nell’ambito del GRECO (Group of States against Corruption) costituito in seno al Consiglio d’Europa nell’ambito della Convenzione penale sulla corruzione, gruppo cui l’Italia aderisce pur non avendo ratificato la Convenzione.], secondo cui la previgente formulazione dell’art.317 rischiava di condurre a risultati applicativi irragionevoli, nella misura in cui assicurava sempre a colui che offre la tangente il diritto insindacabile di essere esentato dalla sanzione.

A seguito della riforma, il quadro normativo è articolato su una fondamentale tripartizione. Delitto più grave resta la concussione (art. 317), consistente nella condotta del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o promettere indebitamente utilità; la vittima della concussione resta esentato dalla pena. La nuova figura di concussione perde, rispetto alla previgente formulazione, la rilevanza della condotta di induzione alla dazione indebita, che acquista autonoma rilevanza nell’ambito del nuovo delitto del citato art. 319 quater, punito con pena grosso modo intermedia tra concussione e corruzione (nell’ambito di un generale inasprimento delle sanzioni), la cui più rilevante caratteristica è la punibilità anche del privato pagatore, sia pure in misura inferiore rispetto al p.u. Il terzo (ed ancora frammentato) pilastro del sistema è costituito dalla costellazione dei delitti di corruzione, che occupa tutt’ora, con limitate semplificazioni, gli articoli da 318 a 322 del codice, intesi a reprimere numerose ipotesi differenziali di mercimonio della funzione pubblica (per l’esercizio della funzione, per il compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio, in atti giudiziari, etc.). Le previsioni sanzionatorie sono differenziate per singola ipotesi (e talora anche più gravi della novella fattispecie di induzione) ma sempre parificate nel trattamento del corruttore e del corrotto.

Con l’introduzione della nuova fattispecie si è dunque inteso chiudere ogni residuo spazio di impunità al privato che paghi non perché inevitabilmente costretto, bensì perché a tale dazione è soltanto indotto. Nella nuova fattispecie, il privato – scrivono le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione nella decisione di cui si dirà nel prosieguo – cambia abito: non è più vittima (non punibile) di un fatto interamente addebitabile al p.u., ma diviene correo di un’offesa agli interessi della P.A.; non è più – come nella concussione – anch’egli titolare, al pari della P.A., di un bene protetto dalla previsione incriminatrice (il buon andamento dell’attività amministrativa assieme alla libertà di autodeterminazione del privato), ma diviene complice di un’offesa che colpisce esclusivamente gli interessi pubblici. Ed è perciò punibile.

Muovendo da queste preliminari considerazioni, le Sezioni Unite hanno delineato, in una recente ed attesa decisione (udienza del 24.10.2013, motivazioni depositate il 14 marzo 2014, ricorrente Maldera), i criteri interpretativi per tracciare il confine applicativo tra la ‘nuova concussione’ e la ‘nuova induzione’.

Sul piano sistematico, l’induzione viene attratta all’orbita dei delitti di corruzione: essa non è più una forma minore di concussione, ma condivide fondamentalmente la logica negoziale della corruzione, giacché anche in essa si fa mercimonio (non completamente paritario, ma comunque libero) della funzione pubblica. Alla concussione resta il monopolio delle ipotesi di autentica costrizione, rispetto alle quali la libertà del privato è completamente annullata dalla minaccia del p.u., cioè da una sopraffazione prepotente, aggressiva e socialmente intollerabile che incide decisivamente sull’altrui libertà di autodeterminazione.

L’induzione, peraltro, nei suoi confini inferiori rispetto alla corruzione vera e propria, da quest’ultima si distingue per l’esistenza di una alterazione del processo volitivo del privato, che solo nella corruzione si propone su un piano sinallagmatico paritario con il p.u.. L’elemento differenziale è dunque dato dalla persistenza di una soggezione psicologica al p.u., che manca nelle fattispecie corruttive. Rispetto alla concussione, tuttavia, l’induzione postula l’alterazione di un processo volitivo che, per quanto condizionato da un rapporto non paritario, comunque conservi apprezzabili margini decisionali: ciò che giustifica il comando normativo di resistere alle indebite pressioni, e la comminatoria di una pena quando a quelle pressioni si ceda dando o promettendo utilità.

Il cuore del problema sta però nel fatto che la minaccia – in cui si sostanzia la condotta costrittiva – ben può avere ad oggetto comportamenti ambivalenti: il p.u. infedele può determinare il privato ad una dazione prospettando altrimenti o un danno giusto (una denuncia dovuta, un arresto legittimo, un diniego motivato, una giusta comminatoria di sanzione) ovvero un danno ingiusto (un indebito ritardo nell’esame di una pratica, la prospettazione di un atto arbitrario e dannoso, come un arresto illegittimo, una denuncia consapevolmente falsa, etc.).

Proprio la ratio della riforma porta a ritenere che il tratto differenziale stia fondamentalmente in questo: nell’induzione il condizionamento psichico del privato è funzionale a carpire una complicità configurando un vantaggio indebito, ed è per questa ragione che si rimprovera al privato di essersi lasciato convincere, perché egli ha comunque approfittato di una condotta abusiva del p.u. per perseguire un proprio vantaggio ingiusto. Diversamente, nella concussione il privato va esente da pena perché non ha alternative, perché è vittima di un sopruso, ed in definitiva perché agisce non per conseguire un vantaggio, ma per evitare un danno.

Come la stessa decisione riconosce, peraltro, questo criterio interpretativo non appare di sempre agevole impiego. L’esperienza giudiziaria ha insegnato come spesso nella condotta del p.u. convivano, in una miscela talora sapientemente studiata, elementi ambivalenti: come nel caso della cd. minaccia-offerta, in cui il funzionario prospetta sì un danno ingiusto (es. l’illegittima esclusione da una gara) ma contemporaneamente anche un indebito vantaggio (la sicura vincita dell’appalto per il caso di adesione alla richiesta illecita); o anche nel caso di prospettazione di un danno generico o indeterminato, i cui contorni ambigui possono risolversi – nella psiche del privato – nel convincimento di un danno giusto o ingiusto a seconda di fattori variabili; o come ancora nel caso dell’abuso della qualità (es. il poliziotto che pretenda di mangiare gratis al ristorante), in cui il privato può cedere alla pressione indebita per timore di conseguenze illegittime ma anche per ingraziarsi il p.u. nella prospettiva di ottenerne in futuro favori o compiacenze.

In tutti questi casi occorrerà verificare quale sia stato il dato motivante di maggiore significatività: se il timore di un danno o la ricerca di un vantaggio.

Vi sono, infine, ulteriori casi-limite, in cui occorre confrontare, bilanciandoli, gli interessi coinvolti nel conflitto decisionale: così negli esempi paradigmatici del primario che chieda denaro per operare il paziente con una indebita precedenza rispetto alla lista d’attesa, allarmandolo sul pericolo di salute che egli altrimenti corre; o della prostituta che sia indotta a favori sessuali dal poliziotto che minacci altrimenti ‘guai’. L’impiego del criterio del danno/vantaggio potrebbe condurre, in queste ipotesi, a ravvisare a rigore una condotta solo induttiva (il male minacciato è apparente conseguenza del rispetto delle regole, in entrambi i casi), ma striderebbe con il senso di giustizia doverne conseguentemente dedurre la punibilità dell’indotto: in realtà, in queste ipotesi è talmente macroscopica la sproporzione tra i beni in conflitto da doversi concludere che il processo volitivo non sia significativamente condizionato dalla ricerca di un indebito vantaggio, nel primo caso perché il paziente si risolve alla dazione per il timore di un male definitivo, nel secondo caso perché la prostituta sacrifica un bene di rango talmente elevato (la propria libertà sessuale) da non poter essere posto a confronto con il vantaggio che ne può trarre.

Vi è infine il tema del confine applicativo tra la novella fattispecie di induzione e le numerose, contigue ipotesi di corruzione: resta sostanzialmente valido il criterio previgente, secondo cui il tratto differenziale va ricercato nella presenza o meno di una condizione di soggezione psicologica del privato al pubblico. Ciò che rileva è il modo in cui il p.u. riesce a realizzare l’indebita utilità: nella corruzione gli perviene per effetto di un patto concluso su un piano di sostanziale parità sinallagmatica, mentre nel secondo caso è il frutto di una decisione cui il privato si risolve, pur liberamente, in uno stato di debolezza psicologica, all’esito di un processo volitivo non spontaneo ma innescato dall’abuso condizionante del p.u..

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