Corporativismo, spesa pubblica e distribuzione funzionale del reddito

Mario Holzner analizza l'impatto del "corporativismo" - cooperazione tra imprese, lavoratori e gruppi d'interesse statali - sull'evoluzione della quota di reddito da lavoro in 42 economie industrializzate nel periodo 1960-2010. Holzner individua una complementarietà tra ruolo dello stato e sistema di contrattazione, sostenendo che il reddito da lavoro ha avuto una dinamica più favorevole nei paesi in cui il ruolo dello Stato si è ridotto ma la contrattazione salariale è centralizzata e nei paesi in cui quest’ultima è decentralizzata ma la spesa pubblica è rilevante.

Nell’ultimo quarantennio, la quota di reddito nazionale destinata al lavoro si è contratta in modo costante e generalizzato nella gran parte delle economie avanzate. Le spiegazioni fornite dalla letteratura scientifica fanno in larga parte riferimento al ruolo del cambiamento tecnologico, a quello della globalizzazione della produzione e dei mercati ed alle trasformazioni istituzionali ad essi associate. In tale contesto, il ruolo del ‘corporativismo’ – la cooperazione tra imprese, lavoratori e gruppi di interesse statali -, anche se potenzialmente di grande importanza quale ulteriore fattore esplicativo, non è stato analizzato in modo significativamente approfondito. Una delle probabili ragioni è la carenza di informazioni quantitative dettagliate circa il grado relativo di corporativismo nelle diverse economie e le evoluzioni qualitative che hanno avuto, nel corso tempo, le interazioni tra stati, imprese e organizzazioni sindacali. Recentemente, tuttavia, Jahn (‘Changing of the guard: trends in corporatist arrangements in 42 highly industrialized societies from 1960 to 2010’, Socio-Economic Review, 2016) ha sviluppato un indice (su base annuale) capace di catturare l’intensità relativa del corporativismo in 42 Paesi industrializzati, osservati dal 1960 al 2010. Nella definizione di corporativismo proposta da Jahn, gli accordi in materia di relazioni industriali e politica economica (in particolare la contrattazione salariale) sono classificati per struttura (grado di centralizzazione gerarchica), funzione (grado di concertazione con lo Stato) e ampiezza (grado in cui gli accordi comprendono segmenti più ampi della società).

La figura 1 (riquadro sinistro) mostra la relazione di lungo periodo (rilevata nel periodo 1960 – 2010) tra il valore dell’indicatore di corporativismo e la variazione della quota salariale (dati AMECO a parità di potere di acquisto) per una serie di paesi (principalmente europei). I paesi privi di istituzioni di contrattazione salariale centralizzata mostrano la contrazione maggiore della quota di redito nazionale destinata al lavoro. Tuttavia, anche in società corporativiste tradizionali come l’Austria e la Svezia la quota del reddito da lavoro sul reddito nazionale totale si è ridotta in modo sostanziale. Le economie che si caratterizzano per un livello medio-alto di corporativismo quale il Benelux, si caratterizzano altresì per una stabilizzazione o addirittura per un aumento di tale quota. È interessante notare che questa relazione si appiattisce quando si osserva l’ultimo periodo, nei primi anni del 2000 (Figura 1, riquadro di dx). Nel passaggio dall’analisi di lungo (riquadro di sx) a quella di breve periodo (riquadro di dx), la linea di regressione muta forma e orientamento: la dinamica che appare non lineare tra il 1960 ed il 2010 diventa lineare e inclinata verso l’alto nel periodo 2000-2010.

In un mio recente studio, sul quale si basano i risultati che enuncerò, ho analizzato l’impatto mutevole del corporativismo sull’andamento della quota di lavoro. La domanda di ricerca è la seguente: qual è l’impatto di lungo periodo nelle economie industrializzate del grado di corporativismo economico sulla quota di reddito nazionale che va al lavoro? Le ipotesi sottoposte a test empirico, seguendo le implicazioni di entrambi i riquadri della figura 1, sono le seguenti: (i) nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, le economie industrializzate caratterizzate da un grado di corporativismo relativamente più elevato (ovvero economie caratterizzate da parti sociali concorrenti ma tendenti al coordinamento) si sono contraddistinte per una maggiore stabilità della quota di reddito da lavoro sul totale? (ii) nell’ultimo decennio, nel contesto della crisi finanziaria mondiale, i paesi con un più elevato grado di corporativismo sono stati più capaci di garantire la stabilità di quella quota?

Le domande di ricerca appena enunciate si basano sull’ipotesi che, in presenza di un elevato grado di corporativismo, la stabilità macroeconomica e strutturale del sistema sia un obiettivo rilevante per tutte le parti coinvolte nella contrattazione. In conseguenza di ciò, la moderazione salariale che ci si attende di osservare nel lungo termine dovrebbe operare quale pre-condizione affinché nei periodi di boom e di crisi si riducano i rischi di crollo della quota salariale. Per validare in modo empiricamente appropriato tale ipotesi, tuttavia, si è ritenuto necessario prendere in considerazione una serie di fattori istituzionali aggiuntivi in grado di incidere in modo rilevante sulla dinamica della quota di reddito destinata al lavoro. Si è dunque approfondita l’analisi dell’impatto dell’indicatore corporativismo costruito da Jahn sulla variazione della quota di reddito da lavoro interagendo lo stesso indicatore con una serie di variabili istituzionali.

Ispezionando i risultati, è possibile notare come l’unico termine di interazione che si rivela statisticamente significativo nello spiegare la variazione della quota salariale sia la quota di spesa pubblica nel PIL. Questo risultato è confermato a prescindere dall’approccio (i.e. differenti specificazioni del modello econometrico) utilizzato, quello di Hogrefe e Kappler (‘The labour share of income: heterogeneous causes for parallel movements?’, Journal of Economic Inequality, 2013) o quello proposto da Stockhammer (‘Determinants of theWage Share: A Panel Analysis of Advanced and Developing Economies’, British Journal of Industrial Relations, 2015). In quest’ultimo caso, a mutare sono sia la specificazione del modello sia lo stimatore (viene utilizzato uno stimatore ad effetti fissi). Come detto, l’interazione tra l’indicatore di corporativismo e la quota di spesa pubblica sul PIl risulta essere robusta a fronte di test effettuati inserendo ed escludendo variabili di controllo ed a variazioni dimensionali del campione. L’interpretazione economica di tale relazione, tuttavia, non pare essere banale.

Per approfondire la comprensione della relazione tra corporativismo e quota di reddito da lavoro, abbiamo condotto un’analisi grafica volta a tipizzare (utilizzando una specifica procedura di calibrazione) i paesi e discriminare tra economie con livelli elevati, medi e bassi di corporativismo; ed economie caratterizzate da settori pubblici grandi, medi e piccoli. Tali gruppi di paesi sono stati poi comparati in termini sia di variazione sia di livello della quota salariale. Nei paesi dove il peso della spesa pubblica sul PIL è relativamente ridotto, la presenza di un alto tasso di corporativismo si associa ad una stabilità della quota salariale e ad un livello di reddito da lavoro superiore a quello dei sistemi dove il grado di corporativismo è più basso.

In una certa misura, dunque, sembra emergere una ‘sostituibilità’ tra ruolo rilevante dello stato nell’economia (misurato in termini di spesa pubblica) e tendenza al coordinamento di parti sociali e governo (corporativismo) nel favorire stabilità o crescita della quota lavoro. Va tuttavia sottolineato come i dati mostrino solo pochi esempi di paesi con un basso livello di corporativismo e al tempo stesso con un ampio settore pubblico. Si tratta principalmente di alcuni dei paesi anglosassoni e tale equilibrio sembra materializzarsi solo per periodi di tempo limitati. Tra i paesi caratterizzati sia da un alto livello di corporativismo sia da una rilevante quota di spesa pubblica rientrano, in particolare, le nazioni del nord Europa. Una possibile spiegazione di tali evidenze potrebbe far riferimento al fatto che i paesi anglosassoni basati sul libero mercato pressoché privi di accordi di tipo corporativista siano cambiati (in termini strutturali) in molto più intenso rispetto ai paesi con forti istituzioni corporativiste. Questo cambiamento strutturale ha comportato una crescita del peso relativo di settori quali i servizi finanziari e quelli alle imprese. In questo senso, la tendenza di questi settori ad erogare salari tendenzialmente più alti che nel resto dell’economia ed il peso delle retribuzioni elevate dei dirigenti potrebbero essere all’origine di una ‘distorsione’ delle statistiche sulla quota salariale nei paesi anglosassoni. Nei paesi con forti istituzioni corporativistiche e un significativo peso della spesa pubblica sul PIL, al contrario, potrebbe manifestarsi la propensione della parti sociali a mantenere stabili (o bassi) i salari bassi per garantire la stabilità macroeconomica e strutturale, rimandando all’azione successiva dello Stato per ciò che concerne la ridistribuzione secondaria dei redditi.

Da decenni le banche centrali e le istituzioni economiche internazionali si battono per una riduzione del potere contrattuale dei sindacati e del ruolo dei governi. Tuttavia, queste posizioni sembrano non essere più granitiche come qualche tempo fa. Il cambiamento di paradigma è accompagnato dalla constatazione che, in gran parte del mondo sviluppato, a fronte di una minore cooperazione tra lavoratori e datori di lavoro nella fissazione dei salari e di una riduzione delle dimensioni del settore pubblico, si sono osservate crescenti disuguaglianze e un calo della quota salariale. Le ripercussioni politiche di questi sviluppi – in particolare il successo dei partiti populisti e le crescenti tendenze autoritarie in alcuni paesi – stanno favorendo una riflessione attorno a paradigmi economici, quale quello della necessità di ridurre il potere dei sindacati o il peso dell’operatore pubblico nell’economia, sin qui considerati indiscutibili. Per combattere la bassa crescita salariale, infatti, i banchieri centrali e le istituzioni economiche internazionali chiedono sempre più di centralizzare la contrattazione salariale e di riscoprire i vantaggi della cooperazione tra imprese, lavoratori e gruppi di interesse statali – il “corporativismo economico”.

Sin qui, i tentativi di spiegare il calo della quota del reddito da lavoro si sono concentrati sulle dinamiche del cambiamento tecnologico e della globalizzazione. Per contro, l’impatto di aspetti istituzionali (quali il grado di cooperazione e coordinamento tra le parti sociali) sulla quota salariale non è stato analizzato in modo approfondito. Per colmare questa lacuna, ho analizzato l’impatto di un nuovo indicatore di corporativismo sull’andamento a lungo termine della quota salariale per 42 economie industrializzate nel periodo 1960-2010. Inoltre, vengono esaminate le interazioni tra il corporativismo ed altre rilevanti caratteristiche istituzionali. Nella maggior parte delle economie industrializzate caratterizzate da una spesa pubblica in rapporto al PIL dell’ordine del 20-40% e da livelli elevati o medi di corporativismo, la quota salariale è più elevata (circa il 60-65%) rispetto a paesi con un analoga intensità di spesa pubblica ma con più basso corporativismo. Nel periodo considerato, tali quote sono rimaste stabili o sono diminuite solo lievemente (di circa mezzo punto percentuale del PIL all’anno). Al contrario, nei paesi che presentano bassi livelli di corporativismo ed una quota della spesa pubblica sul PIL altrettanto bassa, le quote salariali sono, a loro volta, contenute. Inoltre, tali quote tendono a diminuire in misura significativa nel corso del periodo considerato (fino a due punti percentuali del PIL all’anno) diversamente da quanto si osserva nei paesi ad intenso corporativismo ed intensa spesa pubblica dove tali quote restano stabili nel tempo. Sembrerebbe, infine, che nei paesi in cui la contrattazione salariale centralizzata è assente o poco diffusa, l’aumento della spesa pubblica tenda a sostituire (in termini di effetti sulla quota lavoro) il corporativismo.

Pertanto, nei paesi in cui il ruolo dello Stato è stato ridimensionato, l’esistenza di un sistema di contrattazione salariale centralizzato ha limitato l’entità del calo della quota di lavoro sul reddito nazionale. D’altro canto, nei paesi con sistemi di contrattazione collettiva meno diffusa, un effetto analogo si è determinato mediante l’incremento della spesa pubblica. In conclusione, pare emergere la necessità di favorire un ruolo più incisivo della contrattazione salariale centralizzata nell’elaborazione delle politiche economiche, soprattutto nei paesi in cui la quota della spesa pubblica sul PIL è bassa.

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