Convincere la politica, riformare le politiche – interrogativi a partire dal reddito di emergenza

Cristiano Gori prende spunto dalla recente esperienza della proposta e dell’introduzione del Reddito di Emergenza (Rem) per interrogarsi su due questioni di fondo riguardanti la politica e le politiche. Primo, come si fa a convincere la politica a far propria un’idea che si ritiene giusta? Secondo, in che modo è necessario riformare le politiche di protezione del reddito in Italia dopo la comparsa del Covid-19? L’articolo sviluppa queste domande.

Il 30 marzo scorso Forum Disuguaglianze Diversità e Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), insieme a chi scrive, avevano presentato la proposta del Reddito di Emergenza (Rem), una prestazione temporanea rivolta a chiunque si trovasse in grave difficoltà economica nei primi mesi dopo la diffusione del Covid-19 e non fosse tutelato da altre prestazioni di welfare. Nelle settimane seguenti, i proponenti hanno promosso la misura nella società, nelle istituzioni e nel mondo politico. Il Decreto Rilancio di maggio introduce il Reddito di Emergenza, che riprende – pur con significative differenze – l’intervento da noi formulato.

Il lavoro compiuto con Forum e ASviS ha riguardato sia l’elaborazione di indicazioni per il sistema di welfare sia l’azione di pressione affinché i decisori le inserissero nel Decreto Rilancio. Quanto avvenuto nelle scorse settimane mi ha, dunque, suscitato alcune domande su due questioni di fondo, che vanno oltre la specifica vicenda del Rem: come si fa a convincere la politica a far propria un’idea che si ritiene giusta? In che modo bisogna riformare le politiche di protezione del reddito in Italia dopo la comparsa del Covid-19? L’articolo sviluppa questi interrogativi.

COME CONVINCERE LA POLITICA?

Il ruolo delle coalizioni sociali. La coalizione sociale pro-Rem, formata da due alleanze di organizzazioni della società e un esperto esterno, non ha rappresentato un’anomalia. Da alcuni anni si assiste nel nostro Paese ad una tendenza che vede la predisposizione di proposte per numerosi settori del welfare spostarsi sempre più all’esterno del perimetro della politica e delle istituzioni, verso coalizioni composte da associazioni e organizzazioni sociali di varia natura e da studiosi. Si pensi, tra agli altri, alla costituzione dell’Alleanza contro la povertà (2013), dell’ASviS (2016), del Forum Disuguaglianze Diversità (2018) e dell’Alleanza per l’Infanzia (2019); gli esempi potrebbero continuare. Sono realtà molto composite ma che condividono alcuni tratti di fondo: (i) elaborazione di proposte per le policy, (ii) collocazione al di fuori del mondo politico/istituzionale, (iii) reti di vari attori della società, (iv) contaminazione tra il loro sapere e quello di esperti esterni.

La tendenza illustrata si presta a diverse valutazioni. Da una parte, la si può ritenere un preoccupante sintomo della difficoltà che incontra oggi il mondo politico-istituzionale a produrre valide idee per le policy al proprio interno. Nel contrasto della povertà, ad esempio, per decenni le elaborazioni più stimolanti sono giunte da commissioni di nomina governativa: si pensi alla lunga storia della Commissione d’Indagine sulla Povertà (1984-2012), alla Commissione Onofri (1997) e alla Commissione Guerra (2013).

Dall’altra, può essere considerata un arricchimento sia perché colma le menzionate debolezze dell’attuale contesto politico-istituzionale che per alcune sue specificità. Infatti, la configurazione di tali coalizioni – trovarsi al di fuori di partiti e istituzioni, e poter contare, oltre che su un ampio numero di accademici ed esperti, sulla massa critica di varie realtà associative – le colloca in una posizione privilegiata per compiere uno sforzo di pressione sui decisori. Inoltre, la contaminazione tra il sapere di chi è impegnato nella società e quello di chi fa ricerca offre una notevole opportunità per l’ideazione delle proposte. Nell’insieme, il punto è comprendere quale possa – e debba – essere lo spazio di simili coalizioni sociali in futuro ed in che modo massimizzarne l’influenza.

L’azione di pressione. Per sintetizzare il percorso della coalizione pro-Rem mi riferisco alle due fasi iniziali del ciclo di vita di una politica pubblica: portare un problema collettivo all’attenzione dei decisori e predisporre la policy per affrontarlo. Gli esiti della prima sono stati positivi. Successivamente alla presentazione della proposta, il richiamo al Rem è cominciato a comparire regolarmente sui media e nei discorsi di importanti esponenti della maggioranza. In parallelo ha fatto man mano breccia – nel confronto politico – il suo principale obiettivo: la possibilità per chiunque fosse in difficoltà economica a causa del Covid-19 di ricevere un sostegno pubblico.

Il quadro è cambiato con l’avvicinarsi della presentazione del Decreto Rilancio, quando si è passati a disegnare la nuova prestazione. Se prima eravamo soddisfatti, questo è stato il tempo della frustrazione. Il Rem sarebbe stato introdotto, ormai le forze di maggioranza si erano esposte troppo per tirarsi indietro, ma il problema era un altro: le informazioni disponibili, dapprima, e le bozze di Decreto, poi, indicavano che, rispetto a quella da noi delineata, la misura effettivamente in gestazione presentava rilevanti differenze che noi ritenevamo peggiorative. Pur avendo tentato ogni strada per convincere il Governo a evitare tali difformità, vi siamo riusciti solo marginalmente. Un esempio riguarda l’accessibilità della misura laddove nella nostra proposta le procedure per richiederla erano più semplici e rapide di quanto effettivamente previsto.

Tirando un bilancio dell’azione di pressione compiuta, tra i punti di forza compaiono: (i) la predisposizione di un progetto operativo e fattibile; (ii) l’intenso utilizzo di un’ampia rete di contatti con l’universo politico-istituzionale così come con i media; (iii) uno stile deciso e insistente ma mai di contrapposizione nei rapporti con gli interlocutori, e sempre concentrato su merito delle questioni.

Mi soffermo, però, su due punti di debolezza che contengono messaggi di ampia portata. Innanzitutto, eravamo poche persone e non riuscivamo a seguire ogni relazione con i vari soggetti coinvolti come avrebbe richiesto né a produrre tutte le note e i documenti che sarebbero stati necessari nei vari passaggi. Primo messaggio: se si vuole svolgere una pressione efficace bisogna realizzare un investimento di risorse umane e di competenze notevole, superiore a quanto sovente si pensi.

Inoltre, avevamo una proposta puntuale nella sua articolazione ma non declinata in tutti gli aspetti tecnici e in precise modalità attuative. Di conseguenza, mentre nella fase iniziale (quando abbiamo portato il Rem all’attenzione dei decisori) nel rapporto con il mondo politico-istituzionale eravamo noi a condurre, in quella successiva (quando il Rem è stato disegnato) siamo stati costretti ad inseguire. Infatti, non potevamo proporre un’ipotesi applicativa immediatamente traducibile in una normativa – ne eravamo, appunto, privi – ma solo reagire alle bozze del Decreto elaborate dal Governo. Tale limitazione ha ridotto la nostra capacità d’influenza. Secondo messaggio: non basta avere un’idea per migliorare l’Italia e neppure declinarla in un progetto chiaro. L’impegno per tradurre i propri ideali in pratica richiede anche di elaborare tutte le indicazioni tecniche ed applicative necessarie al fine di attuarla.

COME RIFORMARE LE POLITICHE?

La revisione del sistema di welfare. Vengo adesso alle questioni riguardanti la riforma delle politiche di protezione del reddito in Italia nello scenario successivo alla comparsa della pandemia. Per farlo parto ancora dalla vicenda del Rem. Una sua criticità riguarda l’insufficiente durata, pari a sole due mensilità. In effetti, le bozze del Decreto Rilancio ne prevedevano tre ma – poco prima della sua presentazione – si è scesi a due. Tale riduzione si colloca nel più ampio movimento di azione e reazione che ha riguardato la tutela dei diversi gruppi sociali.

L’azione ha visto il sistema aprirsi a categorie tradizionalmente ai margini del sistema di welfare. Per la prima volta è stato introdotto un sostegno per la disoccupazione dei lavoratori autonomi, tema in discussione da tempo senza esito: la crisi ha rappresentato l’occasione per superare lo stallo in materia, come avvenuto in vari paesi. Inoltre, è stata estesa la cassa integrazione anche ai dipendenti delle piccole imprese, mentre in passato ci si era concentrati su quelle medio-grandi. Infine, seppure la storica disattenzione nei confronti della povertà possa dirsi superata negli ultimi anni, l’introduzione del Rem ha rappresentato un altro passo in questa direzione.

La reazione, invece, è consistita nel dedicare la precedenza alle categorie collocate – in una prospettiva di lungo periodo – al centro del sistema. All’approssimarsi del momento delle scelte, infatti, è diventato chiaro che il budget complessivo destinato al mantenimento del reddito, pure notevole, non sarebbe bastato per coprire in modo adeguato tutte le voci di spesa previste. Il Governo ha deciso, allora, di assegnare la priorità alla cassa integrazione e, per farlo, di ridurre la consistenza delle altre prestazioni; è in tale contesto che si colloca il passaggio del Rem da tre a due mensilità. Come se – nel momento di massima difficoltà – il processo decisionale italiano sia stato attratto dalla sua logica tradizionale, che assegna la priorità ai lavoratori dipendenti.

Queste, alla fine, sono le diverse mensilità di copertura assicurate in seguito al Decreto Rilancio: lavoratori dipendenti 4.5, autonomi tra 2 e 3 (a seconda dei casi), lavoratori domestici 2, Rem 2. Anche se per spiegarle bisogna prendere in considerazione importanti aspetti tecnici – riguardanti le diverse modalità di finanziamento ed altro – pare una fotografia veritiera del welfare state che emerge dopo l’insorgere della pandemia: sempre più inclusivo rispetto ai gruppi di popolazione raggiunti ma ancora eccessivamente diseguale negli interventi previsti. Come coniugare inclusione nella copertura ed equità tra le risposte rappresenta un interrogativo cruciale per la necessaria opera di riammodernamento delle politiche di protezione del reddito da compiere nel prossimo futuro. 

La revisione del Reddito di Cittadinanza. Mentre il Rem è esclusivamente una risposta emergenziale e temporanea, bisognerà presto affrontare la riforma della misura strutturale di contrasto della povertà, il Reddito di Cittadinanza (RdC), su cui ragionano anche Gallo e Raitano in questo numero del Menabò. Prima dell’insorgere del Covid-19, tra gli esperti erano diffuse sia la convinzione che fosse necessario modificarlo sia un’inusuale convergenza rispetto ai cambiamenti da apportare. Questi, come recentemente richiamato dalla Corte dei Conti, i principali: (i) superare l’attuale svantaggio per le famiglie più numerose nella possibilità di ricevere il RdC e negli importi ricevuti; (ii) ridurre i vincoli nell’accesso per i cittadini extracomunitari, (iii) introdurre alcuni correttivi alle politiche d’inclusione lavorativa (incentivi al lavoro e funzionamento dei centri per l’impiego), (iv) rendere più semplice la collaborazione tra servizi sociali e centri per l’impiego.

Mentre si discuteva del Rem, d’altra parte, è divenuto via via più evidente che i mutamenti di medio periodo del Paese, a seguito del Covid-19, avranno rilevanti implicazioni per la riforma del RdC. Seppure le previsioni sul futuro siano quanto mai incerte, si possono individuare alcuni tratti dell’Italia prossima ventura da tenere in considerazione.

Primo, la crescita della popolazione in povertà. Tale fenomeno incrementerà la pressione sul Reddito di Cittadinanza e potrebbe spingerne il numero di percettori ben oltre gli attuali 2,5 milioni di individui. Saranno interessate persone con profili sempre più eterogenei per condizioni socio-economiche e percorso di vita: ciò spingerà ad interrogarsi sull’appropriatezza di fornire a tutte loro una stessa misura. Un altro nodo riguarderà i percorsi d’inclusione, laddove pare complicato immaginare che i servizi di welfare locale avranno la forza di offrirli all’intera platea.

Secondo, la riduzione della domanda di lavoro. Una società segnata dalla diminuzione delle possibilità occupazionali indurrà a tornare su un tema già molto discusso, quello dell’equilibrio tra obiettivi di inclusione sociale e di inclusione lavorativa nel RdC. Una conseguenza potrebbe consistere nel rafforzamento della scuola di pensiero che ritiene il RdC sovraccaricato con finalità d’inserimento lavorativo non di sua competenza.

Terzo, la crescente domanda d’informazioni e di orientamento, in particolare da parte di chi si troverà per la prima volta in grave difficoltà economica e dovrà capire cosa fare e quali interventi di welfare richiedere. Fondamentale sarà, dunque, la presenza nei territori di luoghi designati a rispondere a questa domanda. Tuttavia il RdC non li prevede, a differenza del Rei (che li collocava nei Comuni).

Quarto, la più ampia riforma del welfare. Un tema sempre cruciale riguarda la “divisione dei compiti”, e quindi i confini dei rispettivi target di utenza, tra le politiche di reddito minimo e gli altri interventi di tutela del reddito. Poiché – come anticipato – sarà necessario mettere mano anche a questi, l’argomento si riproporrà nel prossimo futuro.

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