Conviene vivere in città? I salari reali tra contrattazione collettiva e costo della vita

Marianna Belloc, Paolo Naticchioni e Claudia Vittori espongono i risultati di una loro indagine sui differenziali nei salari reali tra città e aree periferiche che prende le mosse dalla considerazione che in Italia la contrattazione collettiva nazionale, molto diffusa, tende a rendere omogenei i salari nominali sul territorio mentre il costo della vita è molto variabile ed appare decisamente più elevato nei centri urbani. La loro principale conclusione è che lavorare nelle città può comportare una penalizzazione salariale in termini reali.

La letteratura di economia regionale ha evidenziato come i centri urbani abbiano rappresentato dei volani della crescita economica e ha suggerito diversi meccanismi – dalle esternalità positive fra imprese ai minori costi di trasporto, dalla selezione di lavoratori e imprese nelle città alla migliore efficienza dell’abbinamento fra imprese e lavoratori – per cui nelle città possano essere riscontrati salari maggiori rispetto alle aree periferiche. L’evidenza empirica si è dimostrata molto robusta nel confermare i modelli teorici di riferimento: praticamente per tutti i paesi industrializzati è stata stimata la presenza di rilevanti premi salariali legati all’agglomerazione urbana.

In un nostro recente lavoro (“Urban Wage Premia, Cost of Living, and Collective Bargaining” IZA Discussion Paper 12806) abbiamo analizzato questo fenomeno per il caso dell’Italia, approfondendo il ruolo dell’effetto combinato di due caratteristiche del contesto economico nel nostro paese: l’operare del sistema di contrattazione collettiva nazionale nella determinazione dei salari dei lavoratori dipendenti e l’eterogeneità spaziale del costo della vita. Quello che abbiamo ottenuto è che, quando questi elementi sono tenuti in considerazione, il premio salariale urbano sparisce e diventa addirittura negativo quando viene considerato in termini reali: i lavoratori delle città sono cioè penalizzati rispetto a quelli delle aree meno urbanizzate. Questo risultato pone complesse questioni di equità ed efficienza che proveremo a discutere brevemente nel presente articolo. Ci preme però sin da ora evidenziare che le riflessioni che ne scaturiscono non possono essere ricondotte al vecchio dibattito sulle gabbie salariali in quanto la dimensione qui analizzata è quella locale – aree più urbanizzate vs aree meno urbanizzate – e non quella delle macroregioni – Nord vs Sud.

Come noto, l’attuale sistema di contrattazione collettiva, introdotto negli accordi del 1992 e 1993 (e riformato da allora solo in modo marginale), prevede due livelli. Nel primo vengono stabiliti per ogni contratto nazionale a livello settoriale i minimi tabellari dei salari per ogni livello di inquadramento (che potremmo assimilare a livelli di professioni). Tali contratti vengono rinnovati solitamente ogni due anni, con l’obiettivo principale di agganciare i salari al costo della vita. L’intuizione sottostante l’esistenza di tali sistemi di contrattazione, che possono essere considerati come una generalizzazione dei salari minimi applicati non solo a lavoratori con bassi salari ma a tutti i lavoratori di quel settore, risiede nel tutelare i lavoratori sotto l’ipotesi che il loro potere contrattuale sia inferiore a quello delle imprese, prevenendo pertanto l’occorrenza di salari bassi, non idonei a garantire standard di vita minimi accettabili. Inoltre, tali contratti vengono di fatto applicati erga omnes, per ottemperare all’articolo 36 della Costituzione che sancisce che “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Pertanto, è prassi che un giudice o un ispettore che si trovano a dover stabilire quale sia il livello di ‘retribuzione proporzionata’ prendano in considerazione proprio i minimi tabellari stabiliti dalla contrattazione collettiva, che si estende pertanto anche a imprese e lavoratori che formalmente non aderiscono a contratti nazionali maggiormente rappresentativi.

Esiste poi un secondo livello di contrattazione, non obbligatorio, a livello di impresa (o reti di imprese o accordi territoriali) istituito con la finalità di legare salari e produttività e, pertanto, di modificare in melius le condizioni stabilite dal contratto nazionale, dalle condizioni di lavoro (turni, sicurezza, ferie, etc) alla determinazione dei salari. Nel secondo livello di contrattazione dunque non possono essere fissati salari inferiori a quelli stabiliti nella contrattazione collettiva. L’evidenza empirica per il caso italiano mostra come la contrattazione di secondo livello associata all’aumento dei salari sia di entità limitata, intorno al 4% (elaborazione su dati RIL, Inapp), confermando che il primo livello di contrattazione svolge il ruolo dominante.

In un contesto in cui il secondo livello di contrattazione non è particolarmente diffuso, ci si può attendere che, a parità di contratto nazionale di riferimento e di livello di inquadramento, il livello dei salari tenda a essere omogeneo tra i grandi centri urbani e le aree non agglomerate.

Per verificare questa ipotesi abbiamo usato i dati amministrativi employer-employee di fonte INPS, disponibili nell’ambito di un progetto VisitInps, con riferimento all’universo dei lavoratori dipendenti dal 2005 al 2015 e ai relativi salari nominali settimanali. Questi dati mostrano l’esistenza di un premio salariale ‘grezzo’ positivo al crescere della densità urbana (con una elasticità pari a circa il 2,2%, un valore decisamente basso rispetto ad altri paesi). Il premio si azzera a parità di caratteristiche di lavoratori e imprese e a parità di contratto collettivo nazionale. Ciò suggerisce che il premio salariale urbano è dovuto essenzialmente al fatto che nelle città vi è una composizione di lavoratori ed imprese diversa, “più qualificata”, rispetto alle aree non urbane, ma che a parità di caratteristiche non vi è nessun premio.

Per approfondire ulteriormente questa evidenza, già di per sé interessante, abbiamo quindi introdotto nell’analisi la seconda caratteristica del contesto italiano: la forte eterogeneità spaziale del costo della vita. A questo fine, abbiamo calcolato un indice del costo della vita disaggregato a livello di sistema locale del lavoro seguendo una metodologia sviluppata da Enrico Moretti (“Real wage inequality”, American Economic Journal: Applied Economics, 2013) e basata principalmente sulle differenze sul territorio nei valori immobiliari (i dati sono ottenuti dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate). Sebbene questa procedura presenti delle limitazioni, il suo impiego è giustificato dal fatto che il prezzo degli immobili costituisce, in Italia come in altri paesi, la principale forza trainante della variabilità del costo della vita a livello locale e l’indice così ottenuto rappresenta la miglior misura, oggi disponibile, del costo della vita disaggregata a livello di comune o di sistema locale del lavoro (essendo l’indice fornito dall’ISTAT aggregato a livello di provincia). Precisiamo, peraltro, che i risultati della nostra analisi vengono confermati anche utilizzando un indice del costo della vita basato sulle soglie di povertà assoluta costruite dall’ISTAT per macroaree, che variano anche in base alla dimensione del comune di appartenenza. La figura 1 mostra come il costo della vita cresca al crescere del (log) della densità urbana, con differenze che arrivano anche a 30-40 punti percentuali fra aree con bassa densità abitativa e aree con alta densità abitativa, che corrispondono alle grandi città (la dimensione delle aree è rappresentata dalla dimensione dei punti).

Figura 1: Relazione fra costo della vita a livello locale e densità urbana

Utilizzando l’indice di costo della vita sopra descritto, abbiamo deflazionato i salari nominali e ottenuto dei salari reali comparabili a livello territoriale e ripetuto le nostre stime per il calcolo del premio salariale urbano. Ciò che abbiamo trovato è che, in termini reali, i lavoratori delle città sono addirittura penalizzati rispetto ai lavoratori delle aree non urbane: a parità di caratteristiche di lavoratori e imprese e di contratto collettivo nazionale, i salari si riducono del 2,2% al raddoppiare della densità urbana. Ciò equivale a dire che tra un sistema locale del lavoro di 100,000 abitanti e uno di 500,000 (1,000,000) abitanti si osserva mediamente una riduzione dei salari in termini reali del 10,8% (21,6%). Sulla base delle nostre conoscenze della letteratura, questa è la prima stima di un premio salariale reale urbano negativo e rilevante come dimensione. In alcuni lavori riferiti ad altri paesi, considerando indici del costo della vita locale, il premio salariale si riduce rispetto a quello ottenuto in termini nominali, pur rimanendo positivo: il premio salariale più che compensa il maggiore costo della vita nelle grandi città.

Questo risultato suggerisce pertanto che, in un contesto istituzionale dove i salari sono ancorati alla contrattazione nazionale di primo livello mentre il costo della vita è legato alle dinamiche di mercato, lavorare in una grande città si associa a perdite salariali in termini reali.

Si potrebbe, tuttavia, sostenere che in un paese come l’Italia, caratterizzato da città d’arte, centri storici di indubbia bellezza e da una migliore qualità dei servizi pubblici nei centri urbani (istruzione e sanità su tutti), i lavoratori potrebbero essere disposti ad accettare salari reali più bassi pur di vivere in centri urbani e che, pertanto, la spiegazione dei risultati ottenuti potrebbe non essere legata necessariamente alle caratteristiche istituzionali quanto a preferenze individuali.

Per isolare l’effetto della contrattazione collettiva, abbiamo dunque considerato diverse categorie di lavoratori autonomi. In particolare, in questa sede, ci concentriamo sui collaboratori del settore privato, cioè lavoratori che sono sempre legati ad una impresa ma che non sono sottoposti alla contrattazione collettiva. Assumendo che tali lavoratori abbiano le stesse preferenze dei dipendenti rispetto alla qualità della vita, è possibile attribuire, le differenze salariali riscontrate fra dipendenti e collaboratori a parità di altre variabili rilevanti a fattori istituzionali. La figura 2 mostra l’andamento dei salari nominali di dipendenti e collaboratori (depurati da differenze nelle caratteristiche di individui e imprese) e dell’indice dei prezzi a livello locale, rispetto alla densità urbana del sistema locale di riferimento. Si osserva come i redditi da lavoro dei collaboratori e l’indice del costo della vita abbiano andamenti molto simili: per i collaboratori i maggiori costi della vita nelle aree ad alta densità sono compensati da salari maggiori. Per i dipendenti, invece, si osserva un andamento dei salari decisamente più piatto, che si traduce quindi in penalizzazioni salariali nelle grandi città e rendite nei centri meno agglomerati.

Figura 2: Andamento di redditi da lavoro di dipendenti e collaboratori e indice del costo della vita, rispetto alla densità di popolazione per sistema locale del lavoro (le variabili sono variazioni rispetto alla media nazionale imposta uguale a zero).

I risultati descritti pongono all’attenzione importanti questioni di equità: lavoratori che svolgono lo stesso lavoro in luoghi diversi sono remunerati, in termini reali, in misura anche molto diversa. Prendiamo, ad esempio, un dipendente di un bar che lavora e vive a Roma e un dipendente di un bar che lavora e vive in un piccolo comune non lontano da Roma, come ad esempio Fiumicino: il loro salario sarà simile in termini nominali ma non in termini reali. Da un punto di vista del policy maker non è banale capire quale misura di salario debba essere considerata per contrastare l’aumento delle disuguaglianze: salari reali o salari nominali? Nel succitato esempio, inoltre, la differenza in termini di qualità di servizi pubblici è bassa: se la persona che vive a Fiumicino necessita di una cura ospedaliera può recarsi in un ospedale di Roma, se lo reputa opportuno, e dunque usufruire di un servizio analogo a quello disponibile per un individuo che abita a Roma. Ma lo stesso non può dirsi per una persona che abita in una regione del Sud e decide di curarsi in un ospedale romano o milanese: in tal caso, il costo dello spostamento è rilevante. Abbiamo così toccato un ulteriore problema di equità (e, probabilmente, non l’ultimo) di cui non si può non tenere conto nel commentare i risultati del nostro lavoro. Come risulta chiaro, dunque, le questioni di equità sollevate da queste pur brevi riflessioni sono assai complesse e richiedono di valutare le molteplici implicazioni del fenomeno evidenziato. Peraltro, dal nostro lavoro risulta anche che i lavoratori dei centri urbani sono svantaggiati in termini di salario reale anche tenendo conto della variabilità del tasso di disoccupazione locale, suggerendo che nelle città i minori salari in termini reali non sono compensati da maggiori probabilità di occupazione, come invece evidenziato da Ichino et al., per quanto riguarda le macroregioni italiane (A. Ichino, T. Boeri, E. Moretti, J. Posch, J. “Wage equalization and regional misallocation: evidence from Italian and German provinces”, CEPR Discussion Paper 13545, 2019)

Oltre alle problematiche di equità, si pongono poi questioni di efficienza: il sistema istituzionale di contrattazione sembrerebbe non fornire incentivi adeguati a lavorare nelle imprese più produttive che solitamente sono localizzate nelle aree urbane (premiando invece il lavoro in contesti meno produttivi), limitando potenzialmente l’allocazione efficiente delle risorse, la mobilità e la prospettiva di crescita del sistema.

Mentre l’interpretazione economica del fenomeno risulta a nostro avviso relativamente chiara, e anche in qualche modo non sorprendente per chi conosce il contesto italiano, molto più complicata è l’analisi normativa finalizzata all’introduzione di meccanismi volti a mitigare gli effetti perversi del sistema attuale, in termini sia di equità sia di efficienza.

Da anni si discute su come far tornare a crescere una produttività stagnante e di come legare salari e produttività. Negli anni, la diffusione del secondo livello di contrattazione, a parità di altre variabili rilevanti, rimane ancora contenuta per incidere sui risultati mostrati in questo lavoro. Da notare che nulla osta alle imprese più produttive delle grandi città di riconoscere salari più alti. La nostra analisi di fatto mostra però che ciò in media non accade, nonostante gli incentivi di vario tipo introdotti nel tempo per favorire la contrattazione decentralizzata. Una possibile spiegazione potrebbe essere legata al fatto che dopo più di 25 anni con il corrente sistema di contrattazione, le imprese prendano in qualche modo come esogeno, come una norma sociale, il rispetto del contratto nazionale, e anche i sindacati in imprese produttive in aree con alto costo della vita si allineano ai livelli salariali della contrattazione di primo livello, senza necessariamente prodigarsi per chiedere aumenti salariali legati al costo della vita e alla maggiore produttività. Notiamo tuttavia che se i salari venissero, a parità di altre condizioni, aumentati nelle zone più agglomerate, ciò potrebbe determinare un aumento del costo della vita in tali aree. Solo nella misura in cui tale aumento fosse inferiore a quello salariale, il differenziale nei salari reali diminuirebbe.

La contrattazione nazionale non permette, invece, di derogare verso il basso nella contrattazione decentralizzata rispetto ai livelli salariali della contrattazione di primo livello, anche in eventuale presenza di un consenso delle parti sociali locali e/o di impresa. Su questo punto le parti sociali sono allineate nel mantenere lo status quo, e tra le varie argomentazioni vi è la questione della rappresentanza sindacale. Si sostiene cioè che nelle piccole imprese in aree svantaggiate l’accordo del sindacato locale potrebbe essere posto in essere da controparti non rappresentative, fittizie, che non si adoperano nell’interesse dei lavoratori. Sicuramente questo argomento può essere rilevante considerando anche la dimensione media delle imprese italiane e la scarsa presenza sindacale nelle piccole imprese. La questione della rappresentanza, sulla quale si stanno registrando passi in avanti attraverso gli accordi tra INPS e le parti sociali per misurare il dato associativo e il dato elettivo e attraverso il tavolo INPS-CNEL per individuare i contratti maggiormente rappresentativi, introduce una ulteriore, importante, dimensione su cui riflettere in occasione di una nuova discussione fra governo e parti sociali che tenga conto congiuntamente delle complesse questioni di equità e di efficienza sopra menzionate.

 

* Le opinioni espresse nell’articolo appartengono agli autori e non coinvolgono in nessun modo le istituzioni di appartenenza

 

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