Contro l’urbanicidio: la lezione di Marshall Berman

Vittorio Giacopini sostiene che quella che una volta si sarebbe chiamata lotta di classe oggi riguarda la vita e la morte delle grandi città e che le pericolose trasformazioni che investono queste ultime non possono essere affrontate come se si trattasse semplicemente di un problema tecnico o economico. Giacopini ripropone le tesi di Marshall Berman secondo il quale la modernità è principalmente l’esperienza urbana e se le città vanno in rovina è perché qualcuno le uccide, perché si pratica l’urbanicidio, come proverebbe la storia del Bronx.

L’esperienza della modernità è un’impresa fondamentalmente, frontalmente, abissalmente urbana e, mentre i reazionari (di sinistra) si dilettano con stucchevoli esercizi di ‘paesologia’, sarebbe il caso di accettare la sfida del presente alla radice. L’ultima frontiera di quella che una volta si sarebbe chiamata lotta di classe, oggi, riguarda la vita e la morte delle grandi città, per citare Jane Jacobs: la privatizzazione, senza margini, degli spazi comuni, la trasformazione delle città in parchi a tema e la turifisticazione, la gentrification, dei centri urbani. Provare a contrastare questa deriva apparentemente ovvia, inarrestabile, è una battaglia di resistenza che non bisognerebbe lasciare in mano agli esperti, ingenuamente, illudendosi che sia un problema tecnico, o economico. Scrittori, intellettuali, cittadini devono porsi il problema, come tutti. Per farlo bisogna mutare percezioni e abitudini mentali o compiaciute o molto fiacche e pigre, indifferenti. Chi si bamboleggia col flaneur di Baudelaire, col Walter Benjamin tascabile delle citazioni abusate, pret à porter, chi legge Sebald come se fosse una versione midcult della Lonely Planet farebbe bene a riconoscere che quell’era è finita, e senza scampo. Il flaneur – lo scrive uno dei maggiori esperti italiani di studi urbani, Mario Maffi – ormai ha lasciato campo al ‘rabdomante’. Vivere le città, attraversare l’esperienza urbana oggi è un lavoro quasi-politico o un dovere che poco ha a che fare con lo smarrimento svagato alla Benjamin (e persino con la ‘teoria della deriva’ di Guy Debord). Sono cambiati i tempi; abbiamo perso. Non importa. Il rabdomante non vaga e non si crogiola nella nostalgia ma insegue significati, strati di senso; il rabdomante è un sovversivo che si ostina a disegnare un’altra mappa delle città, una contro – mappa. “Il sostantivo stalker prende il posto di flaneur: è la metropoli a essere tampinata e insidiata, a non essere lasciata in pace, a essere obbligata da incessanti esplorazioni a rivelare il non detto o l’indicibile” (Mario Maffi)

Sono abiti mentali duri da abbandonare e dolorosi da mettere via. Da Baudelaire a Cortazar, o da Benjamin a Debord, la figura del flaneur ha plasmato il nostro immaginario, con incanto, ma è una storia finita, irripetibile. Ce ne accorgiamo da dettagli trascurabili, minuzie, e da un’atmosfera di fondo, irrespirabile. Cinema e letteratura l’hanno colto con intuito e a sprazzi, a modo loro. La nebbia misteriosa (non è nebbia) che avvolge Buenos Aires ne L’esame di Cortazar ha la stessa consistenza delle brume parigine di Baudelaire facendo da sfondo a un’esplorazione urbana e a un’avventura. È un paesaggio oggi indicibile, smarrito. Non andiamo più alla “deriva”, semplicemente, e persino Alice nelle città è un sogno remoto (in Lisbon Story, ad esempio, la stessa operazione naufraga in parodia citazionista). Già Sebald, ultimo epigono, cercava rifugio e senso ai margini della scena, o dietro le quinte. La retorica dei ‘non-luoghi’ ha bloccato in una formula furba, troppo comoda, una mutazione estrema, colossale. Da spettacolo, da oggetto di stupore e apprensione, di meraviglia, la città si è fatta sintomo, allusivo, e campo di battaglia, o ultima spiaggia.

Chi ha colto questi temi nel modo più estremo e perturbante è Marshall Berman. Per Berman la questione ha un nome (e dice tutto): “urbanicidio”. Naturalmente è un tema che tocca l’essenza stessa del nostro essere moderni (o postmoderni). Il faut être absolutement moderne, diceva Rimbaud, e tutta l’opera di Marshall Berman ruota attorno al perno di questa contraddizione micidiale. L’imperativo del poeta esplode in una fantasmagoria di dilemmi, paradossi, segni erranti. “Essere moderni significa sentire, a livello personale e sociale, la vita come un vortice, scoprire di essere, insieme al nostro mondo, in continuo disgregamento e rinnovamento, immersi perennemente nelle difficoltà e nell’angoscia, nell’ambiguità e nella contraddizione: essere parte di un universo in cui tutto ciò che vi era di solido si dissolve nell’aria”.

Non stava parlando di astratte categorie, essenze eteree. La sua raccolta di saggi postuma si intitola Modernism in The Streets, e il titolo e’ assolutamente perfetto, dice tutto. La modernità, per Berman, era principalmente l’esperienza urbana e tutto il suo lavoro di urbanista, critico sociale, filosofo politico, agitatore (distinguere un’identità dall’altra sarebbe ingiusto) si muove nel segno della grande tradizione aperta da Percival e Paul Goodman, da Jane Jacobs (e in Italia da un grande urbanista come Edoardo Salzano): il grande scenario è sempre “La vita e la morte delle grandi città” (“Vita e morte delle grandi città americane”, a sua volta, è il titolo del capolavoro di Jane Jacobs).

Il nodo è che le città non vanno in rovina per caso, e, certo, non muoiono di vecchiaia o eutanasia. Qualcuno le uccide. Berman, con orgoglio, rivendicava come suo contributo al lessico modernista d’opposizione proprio il conio di questo termine “Urbicide”, urbanicidio. Partiva anche da un’esperienza personale, e da una ferita: lo sventramento, la distruzione del Bronx voluta da Robert Moses per farci passare, “a colpi d’ascia”, un’autostrada. Gli interventi, gli scritti, gli studi, i libri di Berman girano attorno a questa scena primaria raggelante: la trasformazione dei luoghi in cui era cresciuto, e aveva amato, “in un immenso paesaggio espressionista di rovine”. Naturalmente, quel “qualcuno le uccide”, riferito alle città, è un eufemismo. Per Berman non era il caso di essere generici. L’assassino delle città è il Capitale, e in varie forme. Il caso del Bronx, per esempio, per Berman diventava una parabola evangelica, spiazzante. Dopo il grande sventramento voluto da Moses per tutti gli anni settanta, tra le rovine del quartiere ogni notte divampavano incendi devastanti e quel che restava del South Bronx andava in fumo. Berman ricorda allora come la sinistra desse una spiegazione brutale, semplicistica e estrema delle cose. L’accusa era che i proprietari dessero fuoco ai palazzi per incassare l’assicurazione, per fare soldi. Politici, moralisti, giornali, anime belle replicavano accusando la gente del ghetto, i ragazzi allo sbando, l’incultura (erano gli anni delle sette vacche magre a New York: la città era sull’orlo della bancarotta, gli omicidi erano a livello record, e lo stesso presidente Ford, firmando molto controvoglia un decreto per finanziarla, era stato lapidario: per me aveva detto, “New York drop dead”, “New York crepi pure”). Il fatto, annota Berman, è che la tesi brutale della sinistra “era giustissima”: nel 1980, dalla notte al giorno, le compagnie di assicurazione decisero di interrompere i pagamenti per gli incendi. “Dalla notte al giorno gli incendi terminarono”.

Vita e morte della grande città vuol dire però anche riscatto, risveglio, ripresa, rigenerazione. Processi – aggiungeva Berman – carichi a loro volta di ambiguità, ombre, paradossi. Innamorato della frase di Hegel che invita a “guardare il negativo in faccia”, Berman descrive nei suoi saggi il declino di New York sino agli Ottanta e poi la grande ripresa: una resurrezione, piena di insidie. Si emerge dalla rovine, a volte, solo per creare altre barriere, nuove trappole. Il nemico – ovviamente – resta il capitale, non c’è scampo. Negli ultimi tempi, adesso che New York è senz’altro la capitale del nuovo turismo mondiale, lui che si era scagliato contro un tetro, spaurente “paesaggio di rovine”, denunciava piuttosto la gentrification come nuova, più sofisticata forma di “urbanicidio”. Che New York fosse riuscita a rinascere dalle sue ceneri come l’araba fenice era “una buona notizia” e non c’è dubbio. “La cattiva notizia è che i giovani e i poveri non se la possono più permettere”. Il trauma urbano è quello biblico della cacciata, dello sfratto. Questo vedeva con occhi da utopista, e da urbanista: intere comunità, intere forme di vita sotto sfratto. In nome, magari, del turismo globalizzato, e del “decoro urbano”.

La sua lezione va letta in ogni caso dentro un quadro teorico piu’ ampio. L’esperienza della modernità (un libro stupendo) è del 1982 (edizione italiana Il Mulino, ristampato di recente), e la data conta. Potevano essere anni di resa e perplessità; di diserzione. Non era un bel momento, poco ma vero. La morte del sogno dei sixties – un congedo forse rinviato troppo a lungo – la fine della stagione dei Movimenti. In Europa il dibattito culturale si perdeva nelle gore astratte dello strutturalismo, in America prevaleva – velata dal disincanto – la Reazione. Bisognava reagire, oppure piegarsi. L’altro grande libro americano di quegli anni, La cultura del narcisismo di Christopher Lasch, per dire, è una scelta di campo anti-moderna. Figlio degli anni sessanta, e marxista a modo suo, piuttosto atipico, Berman di fronte al disastro invece si azzarda a rilanciare, riapre i giochi.

Il faut être absolutement moderne, costi pure quel che costa: non c’è scampo. Il suo grande saggio è un corpo a corpo – ironico, arrabbiato, innamorato – col più ampio paradosso della Storia. Ai suoi occhi il “vortice” affascinante e liberatorio della modernità, con le sue energie, pulsioni, visioni, vibrazioni, finisce per venire bloccato e sacrificato dalla logica fredda e disumana degli stessi processi della “modernizzazione”.

Il punto di partenza è l’ambiguità spettrale e imbarazzante, ricca di incognite, di un’intera “forma di vita”, dell’orizzonte. Come il Marx dei Manoscritti (e del Manifesto) Berman muove dal “lato magnifico” della modernità (e del capitalismo) per viverne l’arcano, e farlo implodere. Se la nuova sinistra si era chiusa nel sogno primitivista del Grande Rifiuto, Berman si cala invece nel maelstrom, con entusiasmo. La sua scommessa coincide con la ricerca di una nuova “cultura critica”, di un altro linguaggio. L’ultimo capitolo di Esperienza – quello sul Bronx – esplicita questo programma “in situazione”: “Per combattere efficacemente i Moloch del mondo moderno, occorrerebbe elaborare un vocabolario modernista d’opposizione”.

Lettore attento e appassionato di Kierkegaard e Baudelaire, Goethe e Benjamin, Berman non ha mai fatto comunque accademia, teoria pura. Animale cittadino e newyorkese dalla testa ai piedi, era convinto che la “scena primaria” della modernità si giocasse interamente dentro la “scena urbana” e il suo ultimo libro On the Town ricostruisce “cento anni di società dello spettacolo” senza mai irrigidirsi in schemi sentenziosi à la Debord. L’evoluzione negli anni e nei giorni di Times Square diventa per lui il solo modo (storico, antropologico, sperimentale) per mettere alla prova quell’intreccio profondamente moderno – e tutto americano – tra “intrattenimento e identità”. Impermeabile a ogni lacrimosa forma di nostalgia, Berman intuisce un passaggio epocale dentro  il moderno: l’aura che il XIX secolo aveva dichiarato scaduta e tramontata torna a affollare la cornice di sogno del presente. Questa ritrovata persistenza dell’aura, tra luci e ombre, è la grana stessa di un tempo che continua a cambiare e ci affascina e confonde, ci emoziona.

Come molti scrittori di genio, l’hanno inchiodato spesso a una formula magica, per non leggerlo. “Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”, tutto svanisce. La sentenza di Marx lui l’ha esplorata e vissuta nella complessità spiazzante e nel tormento e ricordarlo come un precursore della “modernità liquida” o di altre baggianate è un sacrilegio. L’eterea leggerezza evocata in quel decisivo passaggio del Manifesto – in Adventures in Marxism il nodo è questo: “Il capitalismo è tremendo perché promuove l’energia umana, il sentimento spontaneo, lo sviluppo dell’uomo, solo per stroncarli” – è contrastata dal peso schiacciante delle “macerie” che la modernizzazione si lascia alle spalle nel suo farsi. “Macerie” anche in senso letterale, concretissimo. Molte delle pagine più intense e più riuscite di Marshall Berman parlano di quel Bronx in cui era nato e cresciuto, negli anni quaranta, e che un delirio feroce del Capitale ha trasformato in un mesto teatro di rovine. L’ultimo capitolo dell’Esperienza della modernità ha la forza delle pagine migliori di Don DeLillo (e Underworld  o l’Angelo Esmeralda  devono molto, credo, al saggio di Berman).

Esploratore urbano ammaliato dai “segni nella strada” – distorte epifanie tra playground abbandonati, palazzi fatiscenti, ischeletriti gasometri, ferrovie – Marshall Berman aveva un’insolita passione per i murales intesi come forma di arte collettiva e coscienza di classe. L’esperienza della modernità si chiude con una fantasia (ribelle), con una “visione”. Riprendendo il lascito espressivo degli earthworks e dei murales di comunità, Berman immagina il “suo” murale del Bronx come un canto d’amore agli umiliati e offesi del quartiere, come un inno ai perdenti, agli sconfitti: “Il Murale del Bronx, così come me lo immagino, dovrebbe essere dipinto sui muri di sostegno che fiancheggiano la Cross-Bronx Expressway di modo che ogni corsa in automobile si trasformerebbe in una corsa a ritroso nei suoi abissi sepolti. Nei punti in cui la strada corre vicino al livello del terreno al di sopra di esso e l’altezza dei muri si riduce, le immagini della vita passata del Bronx si alternerebbero ad ampie panoramiche della sua attuale rovina. Il murale potrebbe riprodurre spaccati di strade, di case, persino di stanze, piene di gente proprio com’erano prima che la superstrada le squarciasse”.

 

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