Contro il tassapiattismo

Civil Servant sostiene che la flat tax è una formula generica che, nella migliore delle ipotesi, potrebbe portare solo a cambiamenti di facciata e ad una complicazione del sistema fiscale e, nella peggiore, potrebbe pregiudicare la capacità dello stato di perequare i redditi e di attenuare le fluttuazioni cicliche dell’economia. Peraltro, ai contribuenti converrebbe una tassazione con poche aliquote nei periodi di crescita, mentre in recessione un’imposta progressiva attenua la perdita di reddito disponibile.

Una delle tante barzellette sugli economisti riferisce che mettendone due allo stesso tavolo si ottengono tre opinioni diverse…tutte sbagliate. Eppure quasi tutti gli economisti sono d’accordo almeno su un punto e cioè che un ricco attribuisce a ciascun euro in più o in meno un valore molto inferiore a quello che gli darebbe chi è povero: è il principio dell’utilità marginale decrescente. In realtà, la letteratura e il cinema sono pieni di personaggi ricchi e spilorci, come l’Arpagone di Moliere, e di poveri in canna che invece manifestano un supremo disinteresse per il denaro, come il Principe Annibale di Roviano di “Fantasmi a Roma”, interpretato da Eduardo. Tuttavia i cultori della scienza triste, forse per onorare questo appellativo, frequentano poco cinema e teatri e quindi hanno costruito tre quarti della teoria economica proprio sul declino dell’utilità del denaro al crescere del reddito disponibile.

Se un euro in più o in meno ha un valore diverso a seconda di quante altre monete e banconote lo accompagnano, allora è naturale che il fisco preferisca colpire i ricchi proporzionalmente più che i poveri, in modo da determinare il minimo sacrificio collettivo a parità di gettito. A questa impostazione si oppone la versione più radicale della flat tax, che prevede di tassare alla stessa aliquota qualsiasi cespite. Una tassa “piatta” è quasi una scelta obbligata per colpire le forme di reddito e ricchezza che possono essere facilmente “separate” dal suo titolare, parcellizzandole in lotti più piccoli che usufruirebbero comunque dell’aliquota più favorevole. Succede così per i redditi finanziari, per i profitti d’impresa, per i consumi, per gli affitti in regime di cedolare secca, ecc. Negli altri casi la teoria economica, proprio sulla base del principio dell’utilità marginale decrescente, suggerisce di applicare aliquote che crescono progressivamente all’aumentare dell’imponibile individuale o familiare.

Tuttavia, se c’è chi ancor oggi sostiene seriamente che la Terra è piatta, non si vede motivo per negare legittimità alle opinioni dei tassapiattisti che, oltre tutto, annoverano anche economisti autorevoli e di orientamento assolutamente opposto come Milton Friedman e Tony Atkinson, preceduti di almeno una cinquantina di anni da Antonio De Viti de Marco. Per la cronaca, tutti e tre si rendevano conto dei difetti di un sistema di tassazione puramente proporzionale come la flat tax: il primo proponeva una imposta negativa al di sotto un certo reddito, il secondo un reddito di base garantito e il terzo era a favore di sgravi fiscali per i più poveri. D’altra parte, anche il principio della progressività delle imposte può vantare una lunga tradizione e illustri sostenitori. Era applicato anche prima di avere prove certe sulla sfericità della Terra, infatti si pagava già una decima “scalata”, ossia progressiva, già nella Firenze dei Medici, molto prima che John Stuart Mill ne magnificasse le virtù teoriche e poco prima del viaggio di Colombo.

In realtà è possibile rendere progressiva anche una tassa “piatta” applicando un complicato sistema di sconti fiscali che diminuiscono con l’imponibile. E, d’altra parte, i contribuenti più abili e disinvolti possono ridurre o annullare la progressività di un’imposta distribuendo fittiziamente l’imponibile tra più soggetti con sofisticati sotterfugi ai limiti della legge. In tutto il mondo c’è una fiorente industria del “fiscal planning” che li aiuta. Sul versante opposto della barricata, il fisco è sostanzialmente indifferente al livello di progressività del sistema perché può ricavare esattamente lo stesso gettito da qualsiasi sistema impositivo opportunamente disegnato, anche se con costi sociali diversi.

Anche la maggiore semplicità e trasparenza di una tassa piatta è discutibile, soprattutto se deve essere accompagnata da correttivi che ne limitino la regressività. Infatti quasi tutti i sistemi fiscali che comprendono più aliquote possono essere riformulati utilizzando pochissimi parametri, esattamente come una flat tax, che richiede almeno un’aliquota unica e un limite di esenzione. Ad esempio in Italia, come si vede dal grafico successivo, l’aliquota media dell’IRPEF lorda nazionale può essere approssimata quasi perfettamente da una flat tax attorno al 24% fino a 26.000 euro circa (ossia per quasi due terzi dei contribuenti) e successivamente da un incremento pari al logaritmo dell’imponibile diviso per 26.000 e moltiplicato per 0,2. Solo al di sopra dei 200.000 euro l’anno questa formula fornisce un’aliquota significativamente superiore a quella effettiva (ma questo caso riguarda meno dello 0,2% dei contribuenti). Quindi bastano tre numeri magici (24, 26.000 e 0,2) e una calcolatrice per sintetizzare un sistema che i tassapiattisti ritengono troppo complicato solo perché comprende 5 scaglioni di reddito e altrettante aliquote.

 

La curva delle aliquote medie lorde dell’IRPEF

Fonte: elaborazioni su dati MEF-DF

 

Se le cose stanno così, la contrapposizione tra tasse piatte e progressive sarebbe abbastanza futile e non dovrebbe infiammare il dibattito politico più del modo di calcolare (e tassare) la potenza di un’auto in kilowatt piuttosto che in cavalli vapore o cavalli fiscali. Anche la denominazione di tassa “piatta” è poco attraente, visto che evoca spettacoli, panorami e discorsi noiosi, mentre il suo corrispondente anglofono allude addirittura ad una temutissima imposta sugli appartamenti (flat). Nonostante ciò, negli ultimi tempi la flat tax sembra aver infiammato gli animi dei politici di ogni orientamento e dei contribuenti. In realtà, dietro lo slogan della tassa piatta si nascondono concezioni molto diverse del ruolo dello stato e del valore da assegnare ad una equa distribuzione dei redditi e alla disponibilità di alcuni servizi collettivi. In genere, chi invoca una tassazione uniforme depreca il disincentivo al lavoro determinato da aliquote che crescono con l’ammontare complessivo del reddito, rendendo via via più oneroso incrementare i propri proventi netti. Indubbiamente una tassa piatta non ha simili difetti, ma impone un ingiustificato peso aggiuntivo in caso di riduzioni del reddito, poiché queste non sarebbero attenuate da un alleggerimento dell’aliquota, come avviene invece in un sistema progressivo. In altri termini, una flat tax finisce per scaricare sui contribuenti qualsiasi fluttuazione del loro reddito personale.

Dal punto di vista del taxpayer, quindi, un sistema di tasse piatte è conveniente quando gli affari vanno bene e sfavorevole quando vanno male. In quest’ultimo caso, a parità di altre condizioni, i danni sono tanto maggiori quanto minore è il numero delle aliquote, perché se la perdita di entrate rimane all’interno di uno stesso scaglione di reddito allora non beneficia del bonus determinato da una riduzione dell’aliquota marginale. Pertanto un contribuente ragionevole, se non proprio razionale, dovrebbe battersi per una tassa piatta solo quando l’economia va a gonfie vele, per convertirsi poi ad un progressismo fiscale estremo alla prima flessione del suo reddito. Non a caso, secondo le statistiche sulle ricerche via internet riportate nel grafico successivo, l’interesse per flat tax tende a crescere durante i periodi di espansione e a diminuire durante quelli di recessione.

 

L’interesse per la flat tax e per la crisi economica nel mondo

Fonte: Google Trends

 

Per spiegare il successo della flat tax è necessario tener conto che chi la propone la associa in modo più o meno subliminale ad una riduzione del carico fiscale complessivo, particolarmente per la classe media. Che questo sia matematicamente impossibile sembra un fattore irrilevante. Rispolverando i ricordi di scuola, o più semplicemente qualche disavventura di arredamento, è facile comprendere che quando si ha a che fare con una curva delle aliquote che cresce all’aumentare del reddito è impossibile farci passare in mezzo la retta della tassa piatta senza che la parte intermedia della curva resti sotto questa retta, ossia senza che i redditi intermedi paghino aliquote più alte di prima. Per chi arreda un appartamento, questo problema è paragonabile a quello di sistemare un mobile su una parete concava: non c’è modo di farlo senza lasciare “aria” tra il suo dorso e la parete. Con deduzioni e detrazioni (e ricorrendo ad un muratore o un falegname nel caso del mobile e della parete curva) tutto è possibile, ma si tratta di una soluzione decisamente poco pratica. Allora tanto vale modificare la curva delle aliquote a vantaggio dei redditi intermedi senza scomodare inutili anglicismi.

Se invece si vuole spingere in basso l’aliquota della tassa piatta al di sotto di quelle pagate dai contribuenti mediani (il che equivale ad abbattere mezzo muro per adattarci il nostro mobile), allora l’erario deve necessariamente rinunciare a gran parte delle sue entrate. E questo significa inevitabilmente tagliare servizi pubblici, pensioni e sussidi vari, oppure spostare il carico fiscale sul patrimonio e sui consumi. Un’alternativa poco sondata potrebbe essere anche quella di inasprire le sanzioni per le infrazioni al codice della strada e ad altre normative (su lavoro, edilizia, trattamento dei rifiuti, ecc.), in modo da far pagare di più i cittadini meno rispettosi delle regole. Tuttavia i tassapiattisti si guardano bene dal paventare simili scenari, forse perché risulterebbero decisamente meno popolari di qualche slogan inglese.

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