Contrattazione decentrata e ripresa dello sviluppo: la lezione di Tarantelli

Leonello Tronti, nel suo commento all’intervista a Tarantelli del 1984 pubblicata su questo numero del Menabò, ricorda che a quell’epoca il problema principale era l’inflazione e la sua inedita coesistenza con la disoccupazione. Tronti sottolinea che Tarantelli considerava acquisita la predeterminazione dell’inflazione, come da lui proposta, e necessario un “modello neocorporativo decentrato” soprattutto per ridurre l’orario di lavoro e contrastare la disoccupazione. Tronti ritiene che una nuova forma di contrattazione collettiva aperta alla concertazione sociale sia anche oggi fondamentale per una nuova fase di sviluppo.

L’intervista concessa nell’estate del 1984 da Ezio Tarantelli a “Quale Impresa”, l’organo dei giovani imprenditori Confindustria, presenta motivi di grande interesse e non solo dal punto di vista storico. L’economia italiana si trova di nuovo impegnata in un passaggio particolarmente difficile. Ancora stretta nella morsa della pandemia, deve anzitutto liberarsene e restituire a cittadini e ospiti la libertà dal contagio. Ma deve anche prospettare davanti a sé un cammino nuovo – definito dagli obiettivi ambientali e tecnologici – e libero dagli errori che nel quarto di secolo precedente l’hanno vincolata a quella che può essere definita la “legge del meno uno”: crescere, in media, ogni anno un punto in meno dell’insieme dei paesi le cui economie si sono legate tra loro attraverso la moneta unica (L. Tronti, “Contro la recessione. Un patto per il lavoro a tre livelli”, Economia & Lavoro, 2019). Questo secondo compito non è opzionale: il debito pubblico italiano, infatti, lambisce ormai la misura del 160 per cento del Pil, e la possibilità che i mercati lo giudichino sostenibile dipende più di ogni altra cosa dal tasso di crescita. Il prodotto lordo deve necessariamente crescere più del costo che il Paese sostiene per rifinanziare il debito sovrano. Solo così il rapporto debito-Pil verrà considerato sostenibile, indipendentemente dal livello, perché saldamente istradato su di un cammino di riduzione che dimostra che il debito è sotto controllo.

Quando scriveva Tarantelli i problemi dell’economia italiana erano diversi, e vissuti in un clima politico e sociale molto più drammatico. Il nemico da battere era anzitutto l’inflazione, che si presentava in forma del tutto nuova rispetto all’ortodossia della curva di Phillips diffusa nel Trentennio glorioso: in presenza di una politica economica restrittiva tesa a frenarla, invece di mostrare il consueto tradeoff, l’inflazione persisteva anche a fronte di un significativo aumento della disoccupazione (F. Modigliani, E. Tarantelli Curva di Phillips, sottosviluppo e disoccupazione strutturale, Ente per gli Studi Monetari, Bancari e Finanziari L. Einaudi, 1972; E. Tarantelli, Il ruolo economico del sindacato, Laterza, 1978) rendendo evidente la necessità di approcci di politica economica profondamente diversi tanto dal fine tuning keynesiano quanto dalla contromanovra dell’offerta di moneta. Tuttavia, se nonostante il decreto di San Valentino la dinamica dei prezzi era ancora troppo elevata (a consuntivo sarà del 10,8% rispetto al 14,7% del 1983) e la prosecuzione della lotta all’inflazione rimaneva indispensabile per recuperare competitività, nella valutazione di Tarantelli la concertazione centralizzata era però insufficiente a dare “risposte idonee al problema dell’occupazione”.

È in questa prospettiva che i sintetici spunti offerti dall’intervista lasciano intravedere la profondità della visione di Tarantelli del ruolo centrale che la riforma del sistema delle relazioni industriali in senso concertativo (“neocorporativo”, nell’accezione della sociologia economica da lui utilizzata) deve assolvere. Certo, la predeterminazione dell’inflazione nel quadro di una concertazione centralizzata della politica dei redditi dà attuazione alla concezione di Tarantelli del valore della moneta come bene pubblico, rendendolo frutto di un’interazione consapevole e coordinata degli agenti collettivi del sistema economico anziché della dialettica non cooperativa tra dinamiche di mercato e interventi della banca centrale, con possibili gravi effetti occupazionali e sociali. Ma Tarantelli dà comunque per acquisita la predeterminazione dell’inflazione e si rivolge quindi alle potenzialità che lo strumento della concertazione può realizzare per favorire una sensibile crescita dell’occupazione, che abbatta il tasso di disoccupazione (nel 1984 al 9,7%).

Nonostante l’inflazione, le prospettive della crescita in quel periodo sono buone, come anche quelle della produttività. Ma è proprio la coincidenza dei tassi di crescita del prodotto e della produttività intorno al 3% l’anno ad essere di ostacolo a una ripresa dell’occupazione. La coincidenza azzera lo spazio per l’aumento dell’occupazione, a meno che esso non venga riaperto da una riduzione dell’orario di lavoro. Il problema è aggravato dal fatto che all’epoca l’Italia ha ancora un profilo demografico in sensibile crescita, che alimenta un costante, significativo aumento delle forze di lavoro. La manovra dell’orario di lavoro diventa così lo strumento obbligato per la riduzione del tasso di disoccupazione. È questo il punto in cui la visione di Tarantelli emerge in tutta la sua portata innovativa. L’abbattimento dell’inflazione e la conservazione se non il miglioramento della competitività richiedono che la riduzione dell’orario di lavoro avvenga senza costi aggiuntivi per le imprese ovvero, in costanza della retribuzione oraria, con una riduzione dei guadagni mensili dei lavoratori proporzionale al taglio dell’orario. Nel clima di concertazione sociale auspicato, che certamente sconta il patto sociale raggiunto dagli olandesi a Wassenaar due anni prima, che con la diffusione del lavoro a tempo parziale mira a ridurre sia la disoccupazione sia l’inflazione (A. Hemerijck e J. Visser, “Change and immobility: Three decades of policy adjustment in the Netherlands and Belgium”, West European Politics, 2000), questa condizione può essere accettata dai lavoratori per due motivi. Anzitutto perché essa corrisponde all’aspirazione crescente di poter optare per impegni lavorativi più brevi tramite strumenti quali part-time volontario, ferie e riposi settimanali non retribuiti, periodi sabbatici. Tarantelli si spinge fino a proporre agli occupati una concezione del tempo libero come una sorta di bene di consumo, ipotizzando che per la fine del secolo si generalizzi il venerdì libero – un esperimento che rispetto a queste ottimistiche previsioni si sta conducendo solo ora, con vent’anni di ritardo, e soltanto in aziende particolarmente avanzate (ad es. Microsoft). Il secondo motivo, non espresso nell’articolo, è quello servito dallo slogan per diffondere il consenso all’accordo di Wassenaar: “un posto di lavoro e mezzo in famiglia è meglio di uno”: l’accettazione sociale del part-time favorisce l’occupazione aggiuntiva rispetto a quella del breadwinner (prevalentemente maschio nelle età centrali) e con essa l’abbattimento del tasso di disoccupazione, la crescita del reddito e dei consumi delle famiglie.

Ma la possibilità che i lavoratori accettino liberamente la riduzione dell’orario richiede un ulteriore passo avanti: il “modello neocorporativo decentrato”, ovvero l’estensione della pratica concertativa all’impresa e alle rappresentanze sindacali aziendali. Se, infatti, il confronto trilaterale necessario alla predeterminazione dell’inflazione non può che avvenire a livello centrale, non basta l’abbattimento dell’inflazione a maturare i frutti che il metodo concertativo può dare in termini di efficienza ed equità sociale. Se venisse imposta dal livello centralizzato delle relazioni industriali, la riduzione dell’orario non funzionerebbe. L’applicazione concreta richiede invece una trattativa decentrata, fondata sul ruolo di mediazione del consiglio di fabbrica, che riceverebbe le richieste dei lavoratori, le valuterebbe e ne discuterebbe poi con l’azienda la fattibilità tecnica.

I problemi che oggi ha davanti l’economia italiana sono diversi, non più l’inflazione (o almeno non nei termini degli anni Ottanta) ma la crescita – una crescita che finalmente contrasti la “legge del meno uno” e abbatta progressivamente il peso del debito pubblico agendo sul denominatore del rapporto debito-Pil. Ma le indicazioni contenute nell’intervista sono preziose. L’avvio di una fase di crescita stabile, sostenuta e non inflazionistica, capace di portare avanti i processi di digitalizzazione e la transizione verde dell’apparato produttivo rianimando l’occupazione con particolare riguardo al segmento più qualificato, costituisce un cambiamento non evitabile né rinviabile rispetto a quanto il Paese è riuscito a fare nell’ultimo quarto di secolo. Proprio per questo si pone oggi con forza la domanda se sia possibile portarlo a compimento senza una ripresa della concertazione sociale, capace di coordinare esplicitamente l’azione dei più rappresentativi agenti collettivi del sistema economico.

Del resto, nella sua storia la Repubblica si è più volte servita con successo di episodi di concertazione sociale, proprio in occasione di momenti particolarmente problematici. Una qualche forma di concertazione, formalizzata o no, si è dimostrata utile ed efficace in tre occasioni distinte: la Ricostruzione postbellica (con il Piano del lavoro di Giuseppe Di Vittorio), la disinflazione dagli shock petroliferi degli anni ’70 (con la Svolta dell’EUR, seguita dal lodo Scotti e dal decreto di San Valentino), l’entrata nell’euro sin dalla sua prima concretizzazione (con la concertazione istituzionalizzata della politica dei redditi e dell’inflazione programmata). In tutti e tre i casi il Sindacato ha condiviso gli obiettivi di politica economica del governo e partecipato attivamente al loro conseguimento.

Una nuova forma di contrattazione collettiva aperta alla concertazione sociale nei settori, nelle imprese e nei territori lungo le linee tracciate dal Piano nazionale di ripresa e resilienza può essere lo strumento fondamentale per rendere operativa, praticabile, partecipata e condivisa la programmazione della nuova fase di sviluppo economico, tecnologico, sociale e ambientale; e le parti sociali possono essere l’elemento centrale, la dorsale di diffusione del nuovo sviluppo non solo tra le imprese, ma anche tra i territori e le categorie, offrendo una base di coordinamento e moltiplicazione di azioni, informazioni e risultati attraverso le diverse istituzioni bilaterali (enti di formazione, assistenza fiscale e sociale, previdenza integrativa, welfare aziendale), e confrontandosi sia con le amministrazioni, sia con le istituzioni pubbliche e di ricerca deputate alla politica industriale, sia con le banche e le istituzioni finanziarie. La sfida è quella di riuscire a coniugare in un disegno coerente un netto avanzamento del sistema delle relazioni industriali come momento di disseminazione dell’innovazione sociale per la costruzione di una società dell’apprendimento, base culturale e sociale dell’aggancio all’economia della conoscenza: un sistema capace di coniugare armonicamente le attività di ricerca e innovazione con la contrattazione collettiva, la partecipazione cognitiva dei lavoratori ai processi produttivi con la concertazione dello sviluppo.

In Germania la partecipazione dei lavoratori al controllo delle imprese è stata imposta dall’alto, per legge. In Italia e soprattutto nell’Italia di oggi, caratterizzata da un tessuto produttivo così granulare e diffuso, un’imposizione dall’alto non funzionerebbe. La prospettiva della riscossa dal declino cui la legge del meno uno ha condannato l’economia italiana non può che essere altrettanto granulare e diffusa. Dall’alto si deve certo indirizzare, favorire e accompagnare il processo; e sostenerne soprattutto la parte tecnica con un supporto robusto alle attività di programmazione degli obiettivi e dei risultati di una politica industriale diffusa, multilivello: territoriale, settoriale, nazionale. Ma la concertazione sociale dello sviluppo va fondata e costruita dal basso, nei territori, nelle imprese e nelle categorie. Se fino a pochi anni fa questa prospettiva appariva irrealizzabile, oggi le crisi sanitaria e ambientale – e l’impegno finanziario che il Paese si è assunto per porre loro rimedio – l’hanno messa all’ordine del giorno.

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