Contrastare le disuguaglianze. Consigli di letture estive

Elena Granaglia propone ai lettori e alle lettrici del Menabò tre libri sulle disuguaglianze da poco usciti, di T. Scanlon, di F. Barca e P. Luongo e di H.Cottam. Il primo presenta in forma piana le tante ragioni etiche per mettere in discussione la disuguaglianza economica. Il secondo offre una proposta compatta di cosa fare e il terzo delinea una nuova e appassionante visione del welfare. Nella loro diversità i tre libri si integrano assai bene, fornendo tasselli indispensabili a qualsiasi seria strategia di contrasto delle disuguaglianze.

A chi non li avesse letti vorrei raccomandare tre libri sulle disuguaglianze da poco usciti. Sono Thomas Scanlon, Perché combattere le disuguaglianze? Il Mulino; Fabrizio Barca e Patrizia Luongo (a cura di), Un futuro più giusto. Rabbia, conflitto e giustizia sociale, Il Mulino e Hilary Cottam, Radical Help, Virago. Questi tre libri si integrano molto bene l’uno con l’altro. Condividono tutti non solo la medesima preoccupazione nei confronti delle disuguaglianze, ma anche il medesimo approccio valoriale, e al contempo, portano l’attenzione su piani distinti, tutti indispensabili per meglio delineare e sostenere una politica di contrasto delle disuguaglianze.

Scanlon si concentra sul piano normativo, focalizzando l’attenzione sulla declinazione più complicata di disuguaglianza economica (di reddito e di ricchezza), la declinazione cosiddetta comparativa, basata sulle distanze fra chi più e chi meno ha. La declinazione non comparativa contempla, invece, uno standard/soglia da assicurare a tutti, come nella prospettiva dei diritti fondamentali. Ora, è indiscutibile che più si alza la base più anche le distanze potrebbero diminuire. Si tratta, però, di una possibilità: tutto dipende da quanto capita nella parte alta della distribuzione che la declinazione non comparativa trascura.

La declinazione comparativa è più complicata in quanto si presta alla classica obiezione in termini di invidia. Una volta assicurate alcune condizioni basilari come, appunto la soddisfazione dei diritti fondamentali, perché portare in basso i più ricchi per il solo scopo di diminuire le distanze rispetto a chi sta peggio? Sui ricchi, peraltro, già ricade l’onere del finanziamento necessario a aiutare chi sta peggio. L’unica ragione, appunto, sembra essere l’invidia sociale. Non a caso, quando nella discussione pubblica si conviene sulla necessità di contrastare la disuguaglianza, il riferimento più diffuso è alla declinazione non comparativa.

E, invece, argomenta Scanlon, le ragioni per occuparsi della dimensione comparativa sono molteplici: distanze elevate, oltre a effetti negativi su altri beni desiderabili quali la salute, possono dare luogo a relazioni disuguali fra individui, ossia a relazioni che non considerano l’altro come uguale nella violazione della comune uguaglianza morale. Ciò accade quando le disuguaglianze economiche creano differenze umilianti di status sociale; quando permettono a chi più ha di distorcere a proprio favore le regole del gioco, riguardino esse l’accesso alle posizioni di vantaggio oppure il gioco democratico; quando mettono in discussione la possibilità stessa di realizzare l’uguaglianza di opportunità sostanziale, impedendo a chi nasce in famiglie svantaggiate sotto il profilo socio-economico di competere a armi pari con gli altri e quando riflettono il funzionamento di istituzioni sociali ingiuste, ancorché ereditate (su questi temi cfr. anche M. Franzini, E. Granaglia e M. Raitano, Perché dobbiamo preoccuparci dei ricchi, 2014, Il Mulino).

Sottolineo il rimando alla dimensione relazionale. In sintonia con gli altri contributi, quale quello celebre di Elizabeth Andreson, Scanlon individua la fonte delle diseguaglianze inaccettabili nella presenza di relazioni che violano l’uguaglianza di considerazione e rispetto a tutti dovuta. Questa posizione si contrappone nettamente alle critiche alle disuguaglianze che si stanno diffondendo in ambito economico e si richiamano al cosiddetto egualitarismo della sorte, di cui John Roemer è l’esponente più brillante (cfr. J. Roemer, Equality of Opportunity, Harvard University Press, 2000). Secondo gli egualitaristi della sorte, il metro dirimente per determinare la giustizia o meno delle disuguaglianze risiederebbe nella presenza o meno della volontarietà: tutto ciò che è dovuto al caso richiederebbe compensazione, mentre le disuguaglianze dovrebbero dipendere soltanto dagli sforzi di ciascuno. Per Scanlon, invece, non tutto quanto è casuale richiede compensazione e la responsabilizzazione per lo sforzo potrebbe dare luogo a moralismi paternalistici inaccettabili per persone che prendono sul serio la comune uguaglianza morale. Scanlon entra poi nel dettaglio di questa argomentazione come delle singole disuguaglianze inaccettabili sopra elencate.

Benché denso di esempi specifici, quello di Scanlon resta il libro di un filosofo, utilissimo per delineare le fondamenta di una strategia contro le disuguaglianze, ma non i suoi dettagli. A questo fine, ci viene incontro il libro a cura di Barca e Luongo che rappresenta invece una potente proposta di cosa fare.

Certamente, anche Barca e Luongo fanno appello ai valori: proprio l’unione fra valori e proposta politica è un tratto distintivo e attraente del loro contributo. Più in particolare, portano l’attenzione sulla libertà effettiva/sostanziale di ciascuno di formarsi e di perseguire i piani di vita che gli individui hanno ragione di ricercare, la quale, esattamente in linea con Scanlon, richiede relazioni basate sull’uguaglianza di considerazione e rispetto. Non a caso il Forum da cui origina il lavoro di Barca e Luongo si denomina Forum disuguaglianza e diversità. Soddisfare l’uguaglianza di considerazione e rispetto non richiede solo di contrastare le disuguaglianze nelle risorse, richiede anche di riconoscere le diversità individuali.

Ma dopo un’utile discussione sui valori, il focus è su come realizzare questi ultimi. Il rischio di una lista di generici desiderata è elevato. Barca e Luongo, tuttavia, lo schivano entrando nel dettaglio di tre pacchetti specifici di proposte. Gli ambiti sono quelli di “un cambiamento tecnologico per la giustizia sociale”; “un lavoro con più forza per contare” e “un passaggio generazionale più̀ giusto”. Alcuni cenni sono, altresì, rivolti alla riforma della PA e alla realizzazione di servizi fondamentali di qualità, dentro un quadro di sviluppo locale “rivolta-ai-luoghi”.

La messa a terra delle proposte è centrale. Le disuguaglianze sono cresciute in questi ultimi decenni anche perché si è radicata una cultura neo-liberista che ha fatto di TINA (there is no alternative) il proprio mantra. Ma proprio la messa a terra ci permette di vedere che siamo di fronte a una biforcazione. Possiamo continuare nel solco del neo-liberismo – alla cui descrizione Barca e Luongo dedicano pagine molto belle – oppure muovere in quello della giustizia sociale.

Certo, come sottolineano gli autori, il compito non è facile. Decenni di neo-liberismo hanno alterato il potere a favore dei più avvantaggiati e il neo-liberismo si è radicato nella popolazione. Inoltre, proprio perché la strategia ugualitaria implica modifiche nella distribuzione del potere – il raddrizzamento delle relazioni oggi asimmetriche – il conflitto sarà inevitabile. Ma i limiti dell’esperienza neo-liberista sono oggi sotto gli occhi di tutti; progetti quale quello prospettato da Barca e Luongo ci fanno vedere che alternative sono possibili e comunque il conflitto fra visioni e forze diverse è, come dicono gli autori “una cosa ovvia in democrazia, anzi ne è il fondamento, ma proprio il pensiero neoliberista ha rimosso questa verità̀, minando gli strumenti del pubblico confronto, quindi è bene ricordarlo”.

Hilary Cottam aggiunge un tassello importante al ragionamento di Barca e Luongo, concentrandosi sul welfare. Al cuore del lavoro di Cottam vi è l’idea che il welfare debba ripartire da cosa i beneficiari vogliono per sé e per la propria vita. La loro voce deve essere al centro dell’intervento sociale e le risposte devono essere individuate dentro la relazione che si sviluppa fra fruitori e erogatori del welfare, seppure anche questa distinzione sia un po’ limitata in quanto tutti, a un certo punto della vita, avremo bisogno di aiuto mentre molti di noi, quando stanno bene, hanno aiuto da offrire.

La prospettiva delineata nel Rapporto Beveridge (verso la quale, come argomenta Cottam, lo stesso Beveridge aveva peraltro già incominciato a esprimere qualche perplessità subito dopo la realizzazione del Rapporto) ha certamente cambiato in meglio la vita di milioni di inglesi, ma oggi non funziona più. L’impersonalità e l’approccio industriale che la caratterizzava poteva e può andare bene per prestazioni come un’operazione di appendicectomia ma non può andare bene per i tanti problemi che caratterizzano oggi la nostra vita e che richiedono relazioni, dalla solitudine all’obesità, dalla diffusione di malattie croniche al contrasto all’emarginazione sociale. In più, quello che era un progetto condiviso di miglioramento sociale oggi assomiglia sempre più a un modello di “business delivery”. Conta selezionare gli aventi diritto, in modo da escludere i parassiti; omogeneizzare le prestazioni e fornirle al minimo costo, tagliando tutti gli sprechi di tempo dovuti all’ascolto; compilare moduli e moduli e registrare tutto per evitare penalizzazioni; conta mimare i mercati nonostante le inefficienze e le iniquità che i mercati possono produrre in ambito sociale.

La categoria della “connessione umana” dovrebbe, invece, diventare centrale. Ancora una volta torna la dimensione della relazione. Come scrive Cottam (trad. mia), “ho imparato che quando la gente si sente sostenuta da una relazione umana forte il cambiamento può avvenire. E quando disegniamo nuovi sistemi che rendono facile questa forma di collaborazione e connessione, la gente vuole partecipare”, sia per domandare sia per fornire aiuto. Ciò richiede due cambiamenti fondamentali. Anzitutto, l’inversione del tempo: l’80% del tempo di lavoro va destinato alle relazioni con le persone/le famiglie e solo il 20% alle attività amministrative. Richiede altresì l’inversione del potere: sono le persone/le famiglie a definire la direzione del cambiamento, non gli assistenti sociali. Gli unici valori non contrattabili e più specifici sono le capacità costituite da lavorare/imparare; essere sani; essere parte della comunità e curare relazioni con la famiglia e al di fuori. La direzione lungo la quale specificare tali capacità e muoversi verso la loro realizzazione è, però, determinata dai beneficiari. A ciò si aggiunge, un cambiamento radicale nel modo di lavorare degli assistenti sociali; ad esempio, non più controlli dall’alto sui risultati, ma valutazioni fra pari

Il libro ci propone poi tante storie: la storia di Stan, un anziano signore, che ascoltato nei suoi desideri, ritrova spazi di socializzazione e di vita; la storia di Ella, madre di figli complicati che non ha mai lavorato e che descrive la sua vita come un inferno, che alla fine trova il lavoro che desidera, riprendendo un po’ le redini della sua vita; la storia di due ragazzine che, ascoltate nella loro richiesta di andare da un’estetista, si trovano esposte a una realtà nella quale loro stesse potrebbero impegnarsi; la storia dei tanti assistenti sociali, di tante altre figure professionali e tanti altri soggetti che chiedono di essere parte di questo nuovo modo di prendersi cura.

Certo, non tutte le esperienze sono di successo e i successi sono spesso limitati e precari, anche perché il punto di partenza si caratterizza per un cumulo di svantaggi severi che andrebbero, in primis, prevenuti. Neppure, il cambiamento avviene senza conflitti. Ma, le alternative non sono certo migliori e come documenta Cottam, conti alla mano, costano anche di più. Inoltre, in linea con Barca e Luongo, i cambiamenti radicali implicano inevitabilmente conflitto. Lo stesso Beveridge Report era stato profondamente osteggiato dall’amministrazione pubblica che aveva cercato prima di sopprimerlo e poi di emendarlo.

Queste brevi note non possono dare pienamente conto della ricchezza dei tre volumi. Del resto, il loro obiettivo era soprattutto quello di sollecitare l’attenzione verso contributi che possono dare risposte convincenti alle domande, numerose e di varia natura, che tenderà a porsi chi ha a cuore il contrasto delle disuguaglianze.

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