Comunicazione di servizio alle famiglie della provincia di Cuneo: studiare non serve

Marco Centra si occupa del recente consiglio del presidente della Confindustria della provincia di Cuneo alle famiglie: rinunciare all’istruzione superiore per i propri figli, per accrescere le loro opportunità nel mercato del lavoro. Centra sostiene, al contrario, che l'investimento in istruzione dà un rendimento nell'intero arco della vita e che, visto l’ancora elevato deficit di laureati e diplomati rispetto all'Europa, l’Italia si allontanerebbe sempre più dalla frontiera dello sviluppo tecnologico e produttivo se venisse disincentivata l’istruzione dei giovani.

Ormai sono periodici, come le comete che ad intervalli regolari lambiscono la parte esterna del sistema solare ma a differenze di queste non sono prevedibili con precisione: si tratta degli annunci, urbi et orbi e di varia provenienza, che studiare non serve a niente.

Senza andare troppo in là nel tempo, torna alla memoria il Piano di azione per l’occupabilità dei giovani, presentato dal governo nel 2011. In quell’occasione i giovani laureati furono esortati ad intraprendere lavori manuali, nell’attesa di trovare il posto più adatto al proprio percorso formativo, cosa che i giovani in effetti hanno fatto, andando ad aumentare le fila dei laureati e diplomati ampiamente sottoinquadrati. Non si può inoltre non ricordare l’uscita infelice della ministra Elsa Fornero sui giovani choosy, ragazzi viziati, un po’ decadenti, che come gagà d’altri tempi aspettano, mollemente sdraiati sui divani delle ricche case di famiglia, che qualcuno si degni di offrire loro un lavoro finalmente adeguato alle loro immense capacità. Lasciando la politica e avvicinandosi, lentamente, agli ambienti della ricerca, fu il Censis che nel 2011 diffuse la notizia che “In Italia la laurea non paga. I nostri laureati lavorano meno di chi ha un diploma, meno dei laureati degli altri Paesi europei, e con il passare del tempo questa situazione è pure peggiorata“, ricordando solo più avanti che il dato era riferito alla fascia di età compresa tra 25 e 34 anni, quando i diplomati hanno concluso almeno da 6 anni il proprio percorso formativo mentre molti studenti universitari a 25 anni non hanno ancora conseguito il titolo. Gli stessi indicatori, riferiti alle classi di età successive, rivelano che la laurea paga nell’intero arco della vita lavorativa, sia in termini di occupazione che di livelli retributivi. Insomma, oltre che per la scarsa prevedibilità, le prese di posizione contro la promozione dello studio nelle giovani generazioni si caratterizzano per provenire da pulpiti eterogenei.

L’ultimo in ordine di tempo è stato il presidente di Confindustria della provincia di Cuneo, che in un’accorata lettera aperta alle famiglie locali raccomanda di adeguare il futuro dei propri figli alle necessità degli imprenditori cuneesi, che hanno bisogno esclusivamente di operai, tecnici specializzati e addetti agli impianti e ai macchinari. I licei della provincia possono quindi chiudere i battenti. Se le famiglie seguiranno i consigli di Confindustria le aule saranno dal prossimo anno deserte; se, sciaguratamente, le famiglie non dovessero seguire i suggerimenti degli imprenditori le scuole secondarie cuneesi sforneranno tra 5 anni orde di inutili diplomati. I ragazzi della provincia Granda dovrebbero quindi rinunciare a perseguire scelte prese sulla base di “aspetti emotivi ed ideali“, vale a dire iscriversi ad un liceo o, peggio ancora, assicurarsi un sicuro futuro da disoccupati scegliendo un percorso di istruzione universitaria.

Eppure i dati della statistica ufficiale, che chiunque può scaricare dal sito dell’Istituto Nazionale di Statistica ed elaborare autonomamente, raccontano una realtà ben diversa da quella descritta. Nel 2016, nella provincia di Cuneo, il tasso di disoccupazione in età compresa tra 15 e 34 anni per chi aveva un diploma di maturità liceale o una laurea, era pari al 13,0% e al 16,3% per chi aveva conseguito al più un diploma di scuola secondaria triennale. Nella fascia di età centrale, compresa tra 35 a 54 anni, il tasso di disoccupazione ha raggiunto nello stesso anno livelli meramente frizionali, senza divari significativi tra diplomati e laureati da una parte (3,2%) e titoli inferiori dall’altra (4,0%). Sempre nella fascia di età centrale, il tasso di occupazione risulta pari all’87,1% per diplomati e laureati e all’82,6% per chi ha conseguito titoli inferiori. Diploma e laurea pagano anche in termini di retribuzione: gli occupati dipendenti in possesso di diploma liceale o di laurea nella provincia di Cuneo hanno avuto nel 2016 una retribuzione superiore, mediamente, del 12,0% rispetto ai lavoratori dipendenti con titoli di studio più bassi. Il divario cresce inoltre con l’età (il guadagno è pari al 2,5% nella classe di età fino a 34 anni per raggiungere il 14,9% nella fascia compresa tra 35 e 54 anni e il 27,7% tra gli occupati dipendenti in età superiore a 54 anni), confermando che anche in provincia di Cuneo l’investimento in istruzione produce un rendimento lungo l’intero arco della vita lavorativa.

Una volta stabilita la realtà dei fatti, vi sono questioni ulteriori da dirimere.

La prima. E se fosse la montagna ad andare da Maometto? Se la strategia degli imprenditori della provincia di Cuneo, anziché suggerire ai giovani di seguire percorsi formativi che portano poi ad attività poco qualificate, fosse invece rivolta alla valorizzazione del capitale umano, utilizzato come strumento di competitività? Se fossero quindi le imprese ad aumentare la domanda di lavoratori altamente istruiti, in grado di garantire competenze elevate in termini di problem solving, maggiore adattabilità ai cambiamenti dei processi produttivi imposti dai mercati e più elevata propensione all’innovazione? Il Rapporto sulla conoscenza, recentemente diffuso dall’Istat, rivela che l’istruzione del personale delle imprese è fortemente associata al comportamento innovativo delle aziende; all’aumentare del livello medio di istruzione degli addetti aumenta la propensione delle aziende all’innovazione organizzativa, di processo e di prodotto. In altre parole l’istruzione degli addetti (il riferimento è al livello di istruzione non alle competenze tecniche acquisite con la formazione professionale) è fortemente legata ai livelli di produttività. Inoltre, nel rapporto Istat si afferma che “l’istruzione di imprenditori e dipendenti è associata positivamente alla performance delle imprese: la dinamica del valore aggiunto è più favorevole, i salari sono migliori e, soprattutto, i tassi di sopravvivenza sono più elevati” (sul tema del capitale umano di imprenditori e lavoratori si veda anche V. Ferri, A. Ricci e S. Sacchi, Demografia imprenditoriale e tessuto produttivo in Italia, Inapp, Policy Brief, 2018)

La seconda. L’Italia registra livelli medi di istruzione decisamente più bassi rispetto alla media comunitaria: “L’Italia ‑ riporta ancora il Rapporto Istat ‑ presenta un ritardo storico nei livelli d’istruzione rispetto ai paesi più avanzati. Nel 2016, la quota di persone tra i 25 e i 64 anni con almeno un titolo di studio secondario superiore ha raggiunto il 60,1%. Nonostante un aumento di 8 punti rispetto al 2007, la quota resta inferiore di 16,8 punti percentuali rispetto alla media europea“. Inoltre, il flusso annuale di coloro che hanno conseguito un titolo di studio universitario sulla popolazione in età compresa tra 20 e 29 anni, pur aumentato in Italia dal 42 al 57 per mille tra il 2010 e il 2016, resta anch’essa ben al di sotto della media europea (74 per mille nel 2015). Strategie poco inclini allo sviluppo del capitale umano e all’impiego di lavoratori con elevati livelli di istruzione nei processi produttivi rischiano di relegare il nostro paese ai margini dello sviluppo produttivo e tecnologico. Se al contrario si considerassero razionali e motivate le esigenze comunicate dalle imprese, saremmo portati a concludere che in un contesto di declino economico non c’è altro da fare che competere sui costi, concentrando la domanda di lavoro verso le basse qualifiche, evitando gli investimenti in capitale umano e rassegnandosi ad arretrare nelle catene del valore. Eppure non mancano in Italia esperienze positive diffuse: le imprese definite top performers, vale a dire quelle con tassi di crescita dell’occupazione più elevati, si caratterizzano per una più elevata produttività, salari più alti della media e una forza lavoro più istruita.

La terza. L’istruzione serve solo per il lavoro? Il capitale umano è un bene molto particolare, la conoscenza è considerata generalmente sia un bene d’investimento che di consumo, vale a dire che chi studia lo fa per il rendimento che può ottenerne sul mercato del lavoro ‑ in termini di migliore occupazione e retribuzioni più elevate ‑ ma anche per il mero desiderio di conoscere, che qualifica l’identità personale e aumenta la capacità di discernere. La conoscenza è inoltre un bene comune, la crescita del capitale umano individuale tende a generare una serie di esternalità positive collettive, che promuovono direttamente lo sviluppo e danno vita alle condizioni per la crescita del benessere; l’incremento del livello medio di istruzione genera un ampliamento dell’insieme di valori seguiti dalla collettività, favorisce lo sviluppo del senso di appartenenza alla comunità e una maggiore condivisione di virtù civiche.

La ministra Valeria Fedeli, spesso inutilmente segnata a dito perché, non laureata, ricopre un ruolo cruciale per l’istruzione in Italia, ha giustamente stigmatizzato le parole del presidente di Confindustria di Cuneo, definendole inaccettabili, e ricordando che accanto alle competenze tecniche e specialistiche è necessario un bagaglio di capitale umano da tenere costantemente aggiornato, in grado di adattarsi ai mutamenti dei mercati. Quello posto dalla ministra è un tema cruciale per un tessuto produttivo in rapida evoluzione e riguarda la scarsa opportunità di seguire un percorso formativo che porti esclusivamente a competenze tecniche fortemente specialistiche, trascurando gli aspetti più astratti del capitale umano, che consentono più elevati livelli di flessibilità e di adattabilità alle modifiche repentine dei lavori richiesti. Il processo di innovazione tecnologica, rispetto al quale il nostro paese è ancora indietro, richiederà competenze molto diverse da quelle che oggi soddisfano la domanda di lavoro espressa dal sistema produttivo ed è compito delle istituzioni promuovere e anticipare gli scenari futuri (cfr V. D. Guarascio, R. Quaranta e V.Gualtieri, Cambiamento tecnologico, mansioni e occupazione, sul Menabò.. E’ quindi saggio per le famiglie spingere i propri figli ad acquisire competenze specifiche e circoscritte, oggi richieste dalle imprese, ma che tra pochi anni potrebbero divenire obsolete? E’ saggio per le imprese sostenere un’impostazione schiacciata sul breve periodo, trascurando completamente, in una prospettiva temporale più ampia, gli effetti della riduzione delle quote di diplomati e laureati in un paese che su tali aspetti già presenta un deficit elevato rispetto alle altre economie avanzate?

Un ultimo appunto. Numerose evidenze empiriche, ormai consolidate in letteratura, sono concordi nel rimarcare che la propensione all’aumento del livello di istruzione dei giovani è determinato in larga misura dal profilo della famiglia di origine: il confronto generazionale rivela che nel 2016 il 43% di coloro che provengono da famiglie con bassa istruzione non è andato oltre la scuola dell’obbligo, mentre la quota scende al 4% per chi ha genitori con titolo universitario. Il disincentivo a investire nel proprio futuro, spingendo le famiglie ad abbandonare i desideri di un futuro migliore per i propri figli, rivela pertanto un’idea triste, prima ancora che iniqua, della società, che sarebbe così divisa in modo rigido e immutabile, scoraggiando ulteriormente la mobilità sociale, pericolosamente ferma ormai da tempo.

Se le prospettive per i giovani cuneesi sono quelle riportate nel messaggio di Confindustria, non dovremmo stupirci se chi non è disposto a rinunciare agli aspetti emotivi e ideali per il proprio futuro invece di seguire i consigli che dal quel messaggio discendono, si laurei e abbandoni il paese.

* Le opinioni espresse in questo articolo sono personali e non coinvolgono l’istituzione di appartenenza dell’autore.

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