Sono anch’io del Nord-Est, conosco i luoghi e la gente e ho studiato i distretti industriali, anche proprio quelli del mobile imbottito. Capisco e sono partecipe, quindi, del malessere dell’imprenditore, comprendo i suoi dilemmi e condivido anche la sua denuncia circa l’assenza della politica, la pochezza della classe dirigente. Condivido la sua denuncia, ma solo in parte, e ora cercherò di dire perché. Le mie obiezioni (molto sommesse, perché chi ha fatto e fa tanto è prima di tutto degno di grande rispetto) potrebbero essere dette articolando un lungo ragionamento. Ma, in fondo, si possono esprimere anche in modo asciutto e breve e partono da una osservazione quasi banale: quando una società (economia, politica, costume) cade in una grave involuzione, come succede alla società italiana negli ultimi dieci anni, la responsabilità è invariabilmente collettiva. Anche delle forze economico-sociali, specie delle loro organizzazioni. Il singolo imprenditore vede difficilmente questo lato della questione preso com’è a far quadrare i suoi conti, a produrre e vendere quello che sa fare, a competere. Ma tutti ricordiamo la stagione in cui le forze imprenditoriali cominciarono nelle loro organizzazioni collettive a chiedere a gran voce lo smantellamento del diritto del lavoro “troppo garantista”, anche se i singoli imprenditori, e specie i piccoli, interrogati direttamente continuavano a ritenere la fidelizzazione dei lavoratori la leva più importante del loro successo. E, quindi, avrebbero dovuto vedere come un pericolo la precarizzazione del lavoro, non certo un’opportunità che hanno poi ben volentieri sfruttato. Da lì, a mio modo di vedere, comincia la china. Ed allora (eravamo alla fine degli anni Novanta) era molto chiaro e anche ripetutamente detto dagli osservatori più attenti che si trattava di scegliere la “via alta” o la “via bassa” dello sviluppo. Così si diceva per intendere che o si puntava sulla competitività attraverso l’innovazione e la qualità, oppure si doveva per forza puntare sulla riduzione del costo del lavoro. Fu scelta chiaramente e voluta fortemente la seconda via. Lungo la seconda via, però, si sa dove si comincia ma non dove si finisce perché, come ancora era stato detto, c’è sempre nel mondo emergente qualcuno in grado di produrre a meno. Tutto il resto, compresa la scarsa qualità della classe dirigente, è venuto di conseguenza. Per la verità ci sono anche altre cause di questa grave crisi della politica. Ma io sono convinto che anch’essa ha in parte origine in un clima generale, una cultura si potrebbe dire, in cui l’imperativo non è l’impegno a superarsi, semmai l’imperativo è cercare di far pagare chi meno sa e può difendersi. Bloccare questa deriva disgraziata è ora molto difficile, occorre di nuovo un grande impegno collettivo. Rendersene conto è già qualcosa. Ma, di nuovo sommessamente, cercare di attribuire le colpe, per quanto sia naturale e in fondo anche giusto, non risolve nulla.
Scritto da: Gilberto Seravalli