Come valorizzare i finanziamenti per la ricerca universitaria?

Elena Granaglia interviene nella recente discussione, ospitata da La Stampa, fra Barca e Esposito, da un lato, e Boeri, dall’altro in materia di finanziamenti alla ricerca universitaria. La tesi sostenuta è che occorra evitare di fare cani di paglia. Diversamente da quanto sostenuto da Boeri, la proposta di Barca e Esposito di privilegiare il finanziamento di progetti di interesse collettivo è del tutto coerente con meccanismi competitivi di valutazione. In ogni caso, anche se volessimo premiare chi pubblica meglio, come suggerisce Boeri, resterebbero da definire molti importanti dettagli.

La Stampa ha ospitato in questi ultimi giorni uno scambio di idee sulle modalità di ripartizione dei finanziamenti alla ricerca universitaria che ha visto, da un lato, Fabrizio Barca e Fulvio Esposito e, dall’altro, Tito Boeri. Merita riflettere sulle argomentazioni presentate che vanno innanzitutto ricapitolate.

Barca e Esposito sostengono la centralità del finanziamento di progetti di interesse collettivo. Il programma europeo Horizon ne è un esempio. Al contempo, andrebbero assicurati finanziamenti diffusi volti ad assicurare il pluralismo, il valore della ricerca “trainata dalla curiosità” nonché la possibilità di non fermare idee che potrebbero rivelarsi utili solo molti anni dopo. Metodi basati sul mero parametro del numero di articoli pubblicati sulle riviste considerate migliori mettono a repentaglio le finalità appena esposte, sancendo le visioni del merito detenute dalle comunità egemoni che governano le pubblicazioni scientifiche.

Boeri risponde rilevando i rischi di nebulosità del concetto di interesse collettivo nonché di vera e propria ingerenza dei pochi che dovrebbero selezionare fra chi risponde all’interesse collettivo e chi no. I finanziamenti dovrebbero allora privilegiare i Dipartimenti che meglio riescono a collocare i propri prodotti in “pubblicazioni scientifiche il cui valore viene rapportato all’impatto sulla ricerca nei vari campi (misurato in base al numero di citazioni su altre riviste scientifiche, a loro volta, pesate in base all’impatto degli articoli di queste pubblicazioni). Il giudizio dovrebbe essere affidato al referaggio fra pari. Certo, riconosce Boeri, non si tratta di un sistema perfetto, ma, parafrasando Churchill, sarebbe comunque il male minore. Tralascio altri dettagli, per quanto fastidiosi, quali quello secondo cui le indicazioni di Barca e Esposito sarebbero la via per “premiare i propri ambiziosi amici” misurando il valore delle ricerche nel numero di tweet.

Prima di entrare nel merito, solo alcune brevi informazioni su me stessa, non per egocentrismo, ma perché so benissimo che la posizione che occupiamo può influenzare ciò che vediamo. E allora, ho iniziato una carriera “meritevole” essendo stata accettata tre volte a Harvard (ho preso un BA in Scienze Politiche, un Master in Public Administration e ho declinato l’accettazione alla Business School); ho continuato, vincendo un concorso in Italia in un Dipartimento che non avevo mai frequentato, che potremmo qualificare di eccellenza, essendo il Dipartimento di Cesare Cosciani e ho continuato con i concorsi nazionali. Ma, poi, potrei dire per scelta o i critici potrebbero dire per limiti miei, ho mantenuto un percorso di ricerca molto nazionale e molto mosso dall’interesse intrinseco in alcune questioni pubbliche. La prospettiva di Boeri mi giudicherebbe poco meritevole ed è chiaro che non è bello essere ritenuti poco meritevoli. Dunque, questa sensazione potrebbe influenzarmi.

Ciò riconosciuto, a me sembra difficile potere accettare la posizione difesa da Boeri per almeno tre ragioni.

Primo, è inaccettabile la schematizzazione/polarizzazione proposta. Da un lato, vi sono coloro che vogliono promuovere la migliore ricerca e, dall’altro, vi sono coloro che vogliono dare i soldi a pioggia a tutti riservando alcuni finanziamenti aggiuntivi a cosa piace loro. Da un lato i buoni e dall’altro i cattivi. Ci troviamo, al contrario, di fronte a due visioni diverse di come valorizzare la ricerca universitaria. La critica, per essere utile, non può basarsi su cani di paglia.

Barca e Esposito pensano che i finanziamenti addizionali debbano rivolgersi allo studio di grandi questioni collettive o, potremmo estendere, di questioni che mirano a avanzare la conoscenza. In questa prospettiva, la selezione stessa dei bandi richiede processi competitivi basati sulla valutazione fra pari così come dovrebbe contemplare anche una valutazione ex post. Negare la possibilità di definire obiettivi generali verso cui orientare la ricerca pubblica appare difficilmente sostenibile. Solo per fare un esempio, se lo credessimo non finanzieremmo la ricerca sui monoclonali o su farmaci contro le malattie rare che i privati sono disinteressati a finanziare come quelle sulle tante domande in cerca di risposta per disegnare uno sviluppo sostenibile. Boeri sembra, invece, abbracciare una visione dei finanziamenti addizionali come premio/medaglia al valore per il lavoro svolto, affidando il compito della valutazione ai referee delle riviste scientifiche. Il premio avrebbe anche effetti di incentivo, seppure in tale caso, dovremmo assumere miopia e/o deficit motivazionali nei beneficiari.

Peraltro, non si dimentichi che, anche in assenza di un sistema premiale a favore di chi pubblica meglio, l’Università già oggi offre una pluralità di schemi premiali. Le carriere sono uno schema premiale. La reputazione è un premio importante per i singoli, in particolare per chi fa ricerca.

Secondo, anche se accettassimo la proposta di Boeri, occorre occuparsi del disegno. Non basta dire che non esistono alternative, nonostante i limiti, che sono tanti. Come notano Barca e Esposito, vi è, innanzitutto, il rischio di marginalizzare la ricerca che si allontana dalle impostazioni predominanti, che appare meno produttiva, ad esempio, perché una seria interdisciplinarietà richiede tempo. Certo, anche negli ambiti di ricerca minoritari è possibile attivare cooperazioni internazionali, iniziare nuove riviste, pubblicare libri. Ma la strada è più difficile e bisogna, in ogni caso, attrezzarsi affinché la valutazione tenga conto delle differenze.

Si pongono, inoltre, i rischi di conformismo e di opportunismo: si privilegiano le domande di ricerca e le tecniche più adeguate ad avere un articolo di successo, si pianificano le citazioni, si distorcono i comportamenti per essere parte dei network di riferimento, alla luce anche del fatto che il mercato delle riviste è ben lontano dalla concorrenza perfetta. I gruppi di potere contano. Senza dimenticare, e su questo certamente anche Boeri sarebbe d’accordo, le tendenze nostrane provinciali a reputare la collaborazione con qualche straniero segnale automatico di bravura.

E, ancora, vi è il rischio di disuguaglianze che producono trappole per chi sta indietro. Certo, resterebbe il Fondo ordinario per il finanziamento delle Università. Ma se non si fissa un importo adeguato, il rischio è quello della creazione dei classici effetti Matteo: alcuni avranno sempre di più e altri sempre meno. Paventare una simile situazione, di nuovo, non ha nulla a che fare con la difesa tout court di finanziamenti a pioggia. Semplicemente, riflette una preoccupazione per le disuguaglianze di opportunità che si verrebbero a creare, ostacolando le possibilità di migliorare per chi sta indietro.

E, comunque, appare uno spreco pagare a qualcuno lo stipendio e non metterlo nelle condizioni di lavorare qualora il Fondo ordinario non assicurasse la base necessaria per fare il proprio lavoro, compresa l’attività di ricerca. Qualcuno potrebbe fare poco o nulla, ma allora non si vede perché punire tutti per errori compiuti nel processo di selezione. A ciò si aggiungono i rischi di inefficienza nell’utilizzo stesso delle risorse addizionali. Le capacità di spesa e i rendimenti dipendono, infatti, dai singoli contesti. Peraltro, grazie anche alle innovazioni tecnologiche e la internalizzazione, la scala fisica dei luoghi non appare oggi così dirimente, quanto meno per molte discipline.

Infine, il merito è frutto anche del caso. Scrive Philippe van Parijs (trad. mia), “nella vita reale, le opportunità di cui godiamo sono modellate in modi complessi e in gran parte imprevedibili dall’interazione delle nostre caratteristiche genetiche con innumerevoli circostanze, dai sorrisi dei nostri genitori alla presenza di fratelli maggiori alla presenza di un insegnante di scuola elementare congeniale o di un partner d’affari fantasioso, dal nostro aver imparato la lingua giusta o al ricevere un suggerimento per il lavoro giusto al momento giusto” e, ancora prima, affermava Virginia Wolff, “i capolavori non nascono soli e isolati. Sono il risultato di molti anni di pensiero in comune, il pensiero del popolo, sicché tutta l’esperienza di massa si aduna dietro quella voce isolata”. Tornando all’Università, solo per fare un esempio, eventuali successi nella ricerca di base possono arrivare dopo decenni, quando chi li ha resi possibile è già in pensione.

L’indicazione di Rawls secondo cui le carriere devono essere rette dal principio del merito, mentre, proprio in ragione del caso, le remunerazioni devono essere tendenzialmente ugualitarie, a meno di considerazioni di efficienza, è forse estrema. Ha, tuttavia il pregio di portare la nostra attenzione sul ruolo del caso, pur facendoci vedere come l’ugualitarismo stesso possa essere compatibile con il riconoscimento dei meriti, con buona pace del semplicismo delle posizioni contrarie.

Se così, bene sforzarsi il più possibile per fare al meglio la ricerca; bene vincere la gara competitiva se si è più bravi e bene anche ricevere remunerazioni addizionali. Ma, bene anche essere consapevoli della pluralità di meriti e della natura in parte casuale di questi ultimi. Diversamente il rischio è sempre presente di atteggiamenti arroganti e di superiorità, come ben mettevano in guardia già i moralisti scozzesi e successivamente Young nel suo libro sulla meritocrazia.

Certo, Boeri afferma di non volere parlare di merito, categoria scivolosa. Ma chi sono i migliori se non coloro che sono considerati più meritevoli?

In conclusione, non ci si divida ad arte. Nessuno nega l’importanza di valorizzare i finanziamenti alla ricerca. Il contrasto è fra visioni diverse di come effettuare la valorizzazione. In ogni caso, già oggi esistono diversi schemi premiali per chi fa ricerca dentro l’Università. Se si vuole aggiungerne altri, quali i finanziamenti a favore di chi pubblica nelle riviste considerate migliori, bisognerebbe occuparsi di come minimizzare i rischi ad essi associati. Non basta dire che i costi sono da accettare perché non esiste scelta. Infine, occorre comunque essere consapevoli degli elementi di casualità all’origine del merito nonché della pluralità di meriti al fine di evitare i rischi di arbitrari sensi di superiorità.

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