Come se la passano i nostri Dottori di Ricerca?

Michela Boldrini e Ludovica Galotto illustrano i dati recentemente resi noti dall’Istat sull’inserimento professionale dei Dottori di Ricerca che riguardano le caratteristiche dei dottori di ricerca che si formano negli atenei italiani, il loro grado di soddisfazione per il percorso intrapreso e le loro prospettive occupazionali a 4 e 6 anni dal conseguimento del titolo. Boldrini e Galotto si soffermano anche sulle differenze di genere, sulla distribuzione geografica e sulla rilevanza della materia di studi e forniscono elementi per una comparazione internazionale.

L’Istat ha recentemente pubblicato i risultati della terza indagine sulle caratteristiche e sulla situazione lavorativa degli studenti che hanno conseguito il dottorato di ricerca in atenei italiani, a otto anni dalla prima edizione del 2010. Chiamati a rispondere al sondaggio del 2018 sono gli studenti proclamati dottori negli anni 2012 e 2014, rispettivamente 11.459 e 10.639 neo-dottori. L’immagine che lo studio riporta, a 4 e 6 anni dal conseguimento del titolo, è quella di ricercatori occupati nelle università o in centri di ricerca pubblici e privati, spesso all’estero. Sono più donne che uomini, molti di loro hanno conseguito il titolo dopo i trent’anni d’età e uno su dieci è straniero. Sempre meno soddisfatti dall’esperienza di dottorato, la consiglierebbero tuttavia come strumento per entrare nel mercato del lavoro.

Come primo dato, lo studio riporta l’andamento del numero di dottorandi che ogni anno consegue il titolo: dopo una fase di forte crescita dal 1998 al 2008, la cifra si è attestata intorno ai 10.000 dottori proclamati ogni anno fino al 2014, valore che ci colloca, in percentuale rispetto alla popolazione di età 25-34, lievemente al di sotto della media europea (Figura 1; primi per quota di dottori di ricerca sulla popolazione in Europa sono la Danimarca e la Germania, ultima è Malta).

Le prospettive sul numero di futuri dottori sono, però, incerte: l’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani denuncia nella sua indagine  del 2017 che i posti di dottorato messi a bando dalle università italiane sono diminuiti del 40% nei dieci anni tra il 2007 e il 2017 (da più di 15.000 borse offerte nel 2007 a circa 9.000 nel 2017). Il 2017 torna tuttavia ad essere un anno positivo con una offerta di borse di dottorato del 5% più alta rispetto all’anno precedente.

Tra i dottori con un titolo italiano, poco più di metà sono donne (53,3% nel 2012, 52,6% nel 2014) e l’età media al momento della proclamazione è di circa 33 anni. È raddoppiata la quota di chi ottiene il dottorato a più di quarant’anni: mentre solo 5 su 100 superava i quaranta anni d’età nel 2008, gli ultra quarantenni sono 10 su 100 nel 2014. La motivazione di questo trend crescente non è chiara, ma il confronto internazionale indica che l’età media dei nostri studenti di dottorato è in linea con gli altri paesi: l’osservatorio professionale dello European University Institute (che stima a 31 anni l’età media di conseguimento per gli italiani) riporta che solo in Inghilterra il dottorato si ottiene prima (26-27 anni), mentre in tutti gli altri paesi l’età è pari o superiore a quella italiana (37 anni negli Stati Uniti, 38 in Norvegia). E’ anche sempre più alto il numero di stranieri che sceglie di formarsi nei dottorati italiani: nei dieci anni successivi al 2004 la percentuale di stranieri è quintuplicata, fino ad ammontare nel 2014 a uno su dieci iscritti, di cui più di uno su quattro è di origine asiatica.

Ottima la situazione occupazionale di chi possiede un dottorato: nel 2018 il 93,8% dei dottori del 2012 è occupato, mentre meno del 5% sta attivamente cercando un lavoro. Il confronto con la condizione dei dottorandi di anni precedenti rivela una sostanziale stabilità nel tempo nei tassi di occupazione (lavorava il 93,3% della coorte 2008), solo leggermente inferiori a quanto registrato per la coorte del 2004 (94,2%).

Per quanto riguarda l’area di specializzazione, ingegneria industriale ed economia e statistica sono le specializzazioni che contano il maggior numero di occupati (oltre il 96% lavora a quattro anni dal dottorato e oltre il 98% a sei anni); all’ultimo gradino si trovano i dottori in scienze politiche e sociali, che comunque mantengono alti livelli di occupazione (lavora il 90,7% della coorte 2012 e l’87,8% della coorte 2014; Figura 2).

Nonostante la quota di occupati sia costante nel tempo, trovare lavoro è meno immediato che in passato: mentre nel 2008 un dottorando su tre aveva trovato una occupazione già prima di conseguire il titolo, solo uno su cinque dottorandi del 2012 può vantare la stessa fortuna. In generale, si osserva un graduale allungamento dei tempi d’ingresso nel mercato: se la coorte del 2008 ha impiegato 2,4 anni per raggiungere la posizione osservata all’intervista, ne servono 2,6 per la coorte del 2008 e 3 anni per quella del 2012 (il 21,3% dei neo-dottori dichiara di aver però iniziato l’attuale lavoro prima del conseguimento del titolo).

I tempi di accesso al lavoro dipendono molto dall’ambito di studio prescelto: uno su tre fra i dottori in Scienze Giuridiche trova lavoro ancora prima di conseguire il titolo, e i restanti due terzi trovano un impiego entro i tre anni successivi. Più difficile è l’inserimento per i dottori in professioni scientifiche (scienze fisiche, matematiche e informatiche e chimiche) dove almeno 8 su 10 dichiara di aver iniziato l’attività lavorativa solo successivamente al conseguimento del titolo, la maggior parte almeno dopo un anno dal termine del dottorato. Una simile dinamica emerge tra i laureati ed è riportata nello studio Istat sull’inserimento lavorativo di diplomati e laureati: anche per chi consegue la laurea specialistica, infatti, le competenze maggiormente richieste sul mercato del lavoro sono quelle scientifiche, ma gli studi di stampo giuridico presentano una quota maggiore di studenti che iniziano a lavorare prima del compimento degli studi. La ragione di questo fenomeno potrebbe riflettere una diversa organizzazione strutturale dei corsi di laurea e dottorato che nel campo giuridico, a differenza di quello scientifico, favoriscono la sovrapposizione fra studio e lavoro. Un’altra possibile spiegazione si trova nell’obbligo di svolgere un periodo di praticantato per accedere alla professione di avvocato, spesso iniziato prima del conseguimento del titolo di studio.

Per quanto riguarda le differenze geografiche, la situazione lavorativa dei dottori che vivono al Nord-Ovest è la più favorevole, con tassi di occupazione attorno al 96%, che superano anche i tassi registrati da coloro che vivono all’estero (attorno al 95%). Sebbene elevati, risultano inferiori i tassi di occupazione di chi ha conseguito il dottorato nel Mezzogiorno, che oscillano tra l’89 e il 90%.

Appare in netta crescita la quota di dottori che al termine degli studi decide di andare all’estero, pari a circa il 17% del totale. Le destinazioni principali sono, come in passato, Regno Unito, Stati Uniti, Germania e Francia, e le motivazioni sono essenzialmente legate alla maggiore possibilità di trovare un lavoro – in generale – o un lavoro più qualificato e meglio retribuito.

Non mancano però anche fenomeni migratori interni al nostro paese: circa un dottore su 5 decide infatti di spostarsi in un’area diversa del nostro paese per cercare lavoro, tipicamente seguendo la direttrice Sud-Nord. Il bilancio finale delle diverse regioni italiane dipende dalla loro i) attrattività (Figura 3a), e ii) capacità di trattenimento dei dottori sul territorio (Figura 3b, dove sono riportate anche le percentuali di dottori che decidono di spostarsi all’estero). Trentino, Emilia-Romagna, Lombardia e Lazio chiudono con un bilancio positivo mentre le regioni del Sud presentano un bilancio negativo, particolarmente severo per Basilicata e Calabria, che arrivano a perdere più del 50% dei dottori.

Dopo sei anni dal conseguimento del titolo il 65% dei dottori è occupato in un lavoro dipendente, percentuale in aumento soprattutto per quanto riguarda i contratti a tempo determinato – pari a circa il 20% – mentre il 13% svolge un lavoro autonomo. La quota di dottori rimanente è occupata con borse o assegni di ricerca e contratti di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.).

In generale, i dottori assegnano una valutazione complessiva di 7,1/10 al loro grado di soddisfazione per il lavoro svolto, con i punteggi più alti assegnati agli aspetti di maggiore autonomia e alle mansioni svolte e quelli più bassi alle opportunità di arricchimento culturale.

Quasi uno su quattro tra i dottori del 2012 è impiegato nel settore dell’istruzione universitaria (non necessariamente, però, come docente), dove si registra una maggiore rappresentanza maschile, pari a circa il 52%. Tuttavia, solo il 10% del totale dei neo-dottori lavora come professore o ricercatore in una università italiana e anche in questo caso si registra uno squilibrio di genere: gli sbocchi lavorativi nella ricerca universitaria sono più elevati per gli uomini che per le donne (13,4% vs. 7,2%). Tra coloro che si sono trasferiti all’estero dopo il conseguimento del titolo italiano, invece, uno su quattro lavora come professore o ricercatore universitario. E’ interessante confrontare questo dato con quanto riportato da Almalaurea nell’Indagine sul Profilo dei Dottori di Ricerca del 2016, secondo cui quasi il 50% degli intervistati indica tra le motivazioni dell’avvio del percorso di dottorato la volontà di svolgere attività di ricerca e studio in ambito accademico.

A sei anni dal conseguimento del titolo il reddito mediano netto mensile dei dottori di ricerca è di 1.789 euro: i redditi più alti si registrano tra i lavoratori dipendenti e quelli più bassi tra i ricercatori e i collaboratori. Anche in termini di reddito non mancano differenze geografiche e di genere: le donne guadagnano in media 370 euro in meno (in parte anche per una maggiore propensione al part-time) e i dottori occupati al Centro-Nord percepiscono circa 200 euro in più dei loro colleghi al Sud. La distinzione più marcata è però quella con i colleghi occupati all’estero, che arrivano a guadagnare quasi 1.000 euro in più dei dottori occupati al Centro-Nord.

Rispetto a una laurea specialistica il premio reddituale del conseguimento del dottorato non sembra molto elevato: a quattro anni dal conseguimento del titolo il reddito mediano netto di un laureato di secondo livello è infatti pari a 1.400 euro. Al contrario, però, i Dottori di Ricerca risultano premiati sul piano dell’occupazione: l’indagine Almalaurea 2017 sull’inserimento professionale dei dottori di ricerca riporta che 71% dei laureati magistrali del 2015 sono occupati ad un anno dalla laurea, 14 punti percentuali in meno rispetto ai colleghi che possiedono il dottorato. Servono 5 anni perchè i laureati della specialistica raggiungano lo stesso tasso di occupazione dei dottori di ricerca, un tempo comunque superiore ai tre anni di durata della scuola di dottorato.

In generale, il dottorato viene ritenuto una scelta utile per l’ingresso nel mondo del lavoro dalla maggior parte degli intervistati della coorte del 2012: circa il 37% dichiara che il dottorato era un requisito essenziale per l’accesso alla posizione lavorativa attuale e, se si sommano anche coloro per cui il dottorato – sebbene non espressamente richiesto – si è rivelato utile per la mansione svolta si arriva ad una percentuale pari a quasi l’80%. La valutazione di utilità è variabile tra le diverse aree disciplinari: il dottorato si è rivelato requisito necessario e utile nel 61% dei casi per i dottori in Scienze fisiche, e in meno del 30% dei casi per i dottori di Scienze giuridiche, contribuendo forse a spiegare perché i dottorandi di giurisprudenza trovano un lavoro prima del conseguimento del titolo.

Più contenuto è, in generale, il livello di soddisfazione espresso dai dottori sulla loro esperienza complessiva: quasi il 40% dei dottori del 2014 dichiara infatti che, se dovesse scegliere oggi, non rifarebbe la stessa scelta o sarebbe perlomeno incerto. Tuttavia, questo dato è in netta crescita rispetto a dieci anni fa, quando la percentuale era pari al 24%.

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