Come combattere il protezionismo “illegale” di Trump?

Giuseppe De Arcangelis si occupa dei recenti interventi di politica commerciale del presidente Trump e ne illustra le ragioni politiche ed economiche e gli effetti attesi. De Arcangelis sostiene che l’invocazione della minaccia alla sicurezza nazionale rappresenta la vera novità rispetto ad azioni simili di precedenti presidenti e ritiene che la reazione dei partner commerciali (in particolare dell’UE) debba avvenire all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio per conservare il patrimonio di relazioni commerciali multilaterali faticosamente costruito negli ultimi 70 anni.

Lo scorso 8 marzo il presidente Trump ha firmato un ordine esecutivo che ha permesso di introdurre un dazio del 25% sull’acciaio importato e del 10% sull’alluminio. Aderendo all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) l’ordinamento statunitense non può permettere l’uso attivo di strumenti tariffari, ma una legge del 1962 lascia la possibilità al Presidente di proteggere con dazi i settori industriali considerati vitali per la sicurezza nazionale attivando l’art. XXI dell’OMC. Si è trattato naturalmente di un escamotage visto che i paesi più colpiti sono per la maggior parte alleati degli Stati Uniti. Tra i primi dieci esportatori di acciaio negli Stati Uniti troviamo paesi “meno amici” come la Russia al quinto posto (8,1%) e la Cina al decimo posto (2,9%). Ad esclusione di Messico e Canada, lasciati fuori all’ultimo momento dalla misura protezionistica, gli altri sei paesi sono Brasile, Corea del Sud, Turchia, Giappone, Germania e Taiwan, da cui gli Stati Uniti non dovrebbero temere nessuna minaccia alla sicurezza nazionale. Pochi giorni dopo, sempre invocando la sicurezza nazionale, il presidente Trump ha bloccato l’acquisizione dell’impresa americana produttrice di microchip Qualcomm da parte della rivale Broadcom di Singapore (rispettivamente terza e quarta produttrice mondiale di microchip e in procinto di sviluppare tecnologie avanzate di comunicazione 5G). Per la prima volta un presidente americano interviene per fermare un’operazione tra imprese private, superando persino le azioni tipiche delle politiche commerciali strategiche degli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso.

Le ragioni di queste misure, in particolare quella dei dazi, sono facilmente annoverabili nella pura sfera politica, sia sul piano nazionale sia sul piano internazionale. La presenza di Trump in Pennsylvania aveva lo scopo di sostenere, di fronte a evidenti difficoltà, il candidato repubblicano Rick Saccone nelle recenti elezioni suppletive. La Pennsylvania è uno degli stati della cosiddetta rust belt in cui l’industria metallurgica statunitense è più presente e dove l’occupazione ha sofferto di più. Inoltre, rappresenta uno degli swing states che giocano un ruolo fondamentale nelle elezioni del presidente.

Su piano internazionale l’inclusione e poi l’esclusione di Messico e Canada serve come avvertimento ai due paesi che si dovranno sedere al tavolo delle negoziazioni per rivedere il North American Free Trade Agreement secondo il programma elettorale di Trump. Il messaggio della volontà di scatenare una guerra commerciale è invece indirizzato a Europa, Cina e Russia e potrebbe riguardare anche altri settori.

Occorre ricordare che Trump non è il primo presidente a pensare una misura restrittiva sull’acciaio. George W. Bush applicò un dazio compreso tra l’8% e il 15% nel marzo del 2002, ma giustificò l’intervento nell’ambito delle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) come misura tariffaria di salvaguardia (safeguard tariff) secondo l’articolo XIX dell’OMC e su proposta dell’International Trade Commission statunitense. La misura era giustificata dall’eccessivo aumento delle importazioni di acciaio che, secondo le autorità statunitensi, era dovuta ad un comportamento sleale dei paesi partner. La giustificazione di Trump è simile, ma occorre ricordare che il ricorso all’OMC da parte dell’Unione Europea e di altri paesi ebbe successo. L’OMC chiese agli USA di ritirare la misura. Sebbene fosse stata dichiarata una misura temporanea per tre anni, e anche a causa delle ritorsioni dei partner, Bush sospese il dazio nel dicembre del 2003. Anche Obama introdusse un dazio sull’acciaio nel 2016, ma specificamente sull’acciaio importato dalla Cina e non da chiunque.

La teoria del commercio internazionale propone una misura dell’effetto reale di una struttura di dazi andando a calcolare l’effetto sul valore aggiunto delle industrie, ovvero considerando se i dazi colpiscono input importati o beni finali. Si tratta del tasso effettivo di protezione. La traslazione del dazio ha generalmente l’effetto di aumentare il prezzo interno del bene colpito dal dazio favorendo così le imprese nazionali che soffrivano della concorrenza straniera. Ma quando il dazio colpisce input produttivi, l’aumento di prezzo che favorisce le imprese del settore dell’acciaio va a sfavorire quelle industrie che devono comprare acciaio per i loro prodotti finali.

Dalle tavole input-output mondiali è possibile ottenere quella per gli USA e avere un’idea generale del peso di alcune materie prime come i metalli di base (basic metal, codice CPA_24) e i prodotti metallici fabbricati (fabricated metal products, CPA_25). Le tavole non forniscono un dettaglio maggiore, ma il loro peso per i settori in cui quei prodotti funzionano da input produttivi può dare un’indicazione dei settori più colpiti. Tutti settori manifatturieri vedono tali prodotti come input con percentuali sul prodotto totale che arrivano ad un massimo del 2,5% (per i manufatti di strumenti elettrici). Nel settore automobilistico e dei mezzi di trasporto le percentuali sono molto basse (tra 0,39% e 0,49%). Questo potrebbe giustificare perché sia Bush che Trump preferiscano proprio l’acciaio essendo l’input con il minor effetto su un settore strategico come quello automobilistico.

Nonostante questa evidenza, proprio l’8 marzo l’organizzazione indipendente Center for Foreign Relations ha pubblicato sul suo sito uno studio che mostra come il settore automobilistico subirebbe un aumento dei costi tale da causare effetti negativi sull’occupazione nel settore calcolati tra le 18.000 e le 40.000 unità, ovvero una quota molto consistente soprattutto se confrontata con il presunto effetto positivo sull’occupazione del settore metallurgico da proteggere.

Alla carente giustificazione economica in termini di struttura industriale dell’effetto dei dazi, si possono aggiungere anche alcune considerazioni macroeconomiche. L’economia americana sta entrando nel suo nono anno di espansione e i dati sul mercato del lavoro dello scorso 9 marzo hanno mostrato una crescita inattesa di posti di lavoro di più del 50% (un aumento di più di 300.000 unità rispetto alle 200.000 attese). L’inflazione è sotto controllo, anche se uno degli effetti tipici delle misure protezionistiche è la crescita dei prezzi interni. Le aspettative per un aumento dei tassi di interesse da parte della Fed sono sempre maggiori con conseguente rafforzamento del dollaro. La misura protezionistica di Trump e l’eventuale guerra commerciale porterebbe certamente ad una diminuzione delle esportazioni e quindi della componente estera della domanda aggregata. Occorre ricordare che nel programma elettorale di Trump (come anche in quello di Hillary Clinton) aveva un ruolo importante l’espansione della spesa pubblica per infrastrutture. La riforma fiscale con il consistente taglio delle imposte avrà anche bisogno di risorse ingenti. La mossa sui dazi di Trump porterebbe a sostituire domanda interna a domanda estera senza surriscaldare l’economia, probabilmente rimandando l’intervento della Fed sui tassi e mantenendo così il dollaro ad un basso valore.

Più volte abbiamo sentito richiami a ciò che accadde negli anni Trenta e l’errore dello Smoot-Hawley Act che nel giugno del 1930 innalzò i dazi su molti prodotti importati negli USA fino al 60%. Siamo lontani da queste misure, ma le modalità di intervento della nuova presidenza Trump sono molto preoccupanti per la forma oltre che per la sostanza. I danni delle guerre commerciali sono ben noti: lasciano solamente macerie che si spera siano limitate alla sfera economica. Un ritorno alle regole dell’OMC è il primo atto che tutti i paesi dovrebbero richiedere. In questo l’Unione Europea e la Cina possono dare un segnale forte. Invece di adottare una indiscriminata strategia tit-for-tat, potrebbero reagire all’interno delle regole dell’OMC. Ad esempio, appellandosi all’OMC sull’uso improprio della clausola della sicurezza nazionale (particolarmente nel caso dell’UE). Sarebbe un segnale importante a tutto il mondo per sperare di non entrare in un mondo senza regole post-OMC.

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