Chi si preoccupa delle disuguaglianze e chi no

FraGRa riflettono su alcuni degli argomenti di chi non si preoccupa delle disuguaglianze economiche. L’occasione è offerta da un recente editoriale di Alesina sul Corriere della Sera. Gli argomenti esaminati da FraGRa sono quello secondo cui non occorre preoccuparsi delle disuguaglianze ma solo della mobilità sociale; quello per il quale le disuguaglianze creano incentivi essenziali per il benessere sociale e infine quello, spesso implicito, che l’alternativa alle disuguaglianze correnti è un’assoluta e immeritocratica eguaglianza

In un fondo pubblicato sul Corriere del 19 giugno dal titolo “Il merito nelle società diseguali” Alberto Alesina formula alcuni giudizi sulle disuguaglianze che sono molto utili per rispondere alla domanda “Dobbiamo preoccuparci delle disuguaglianze”?

Alesina apre il suo articolo facendo riferimento a quelli che chiama economisti-guru della sinistra (Piketty, Stiglitz e Krugman, in particolare) i quali in più occasioni – e anche nell’ultimo Festival dell’Economia di Trento al quale erano presenti – non hanno nascosto le loro preoccupazioni per le disuguaglianze. Alesina è certamente molto meno preoccupato di loro e l’articolo, pur nello spazio ristretto di uno scritto giornalistico, permette di individuare le ragioni di questa sua maggiore tranquillità. Si tratta, in realtà, di argomenti già piuttosto noti e molto utilizzati da chi poco si preoccupa delle disuguaglianze. Ma ci sembra opportuno riflettere sui principali tra di essi anche per mettere ognuno nelle condizioni migliori per decidere quanto preoccuparsi.

Il primo argomento riguarda il rapporto tra disuguaglianza e mobilità sociale. Molti sostengono che il problema non è la disuguaglianza economica, ma eventualmente l’immobilità sociale tra generazioni. In altri termini, se i ricchi fossero molto più ricchi dei poveri non sarebbe un grave problema; mentre ci sarebbe da preoccuparsi se i ricchi di oggi fossero i figli dei ricchi di ieri e così anche per i poveri. Per molto tempo si è affermato, in particolare, che dell’alta disuguaglianza degli Stati Uniti non ci si doveva preoccupare perché in quel paese era assicurata la mobilità sociale – e questo faceva la differenza con l’Europa. Anche Alesina in passato ha sostenuto questa tesi (A. Alesina e E. Glaeser, Fighting Poverty in the US and Europe. A world of difference, 2008).

Quell’affermazione era, però, formulata nella conoscenza quanto meno incompleta dei dati. Da qualche anno quella conoscenza è notevolmente migliorata e si è potuto verificare che negli Stati Uniti le origini familiari contano molto per il successo economico dei figli, molto di più che nella gran parte dei paesi europei. Si è anche potuto verificare che l’accoppiamento di alta disuguaglianza dei redditi e bassa mobilità sociale non è una stranezza degli Stati Uniti. In generale, dove la disuguaglianza è più alta la mobilità sociale è più bassa; in altri termini, dove i ricchi sono molto più ricchi dei poveri, i ricchi sono più probabilmente figli di ricchi e così anche per i poveri. Si tratta della cosiddetta curva del Grande Gatsby che da quando è stata così denominata da Alan Krueger ha conosciuto una certa notorietà.

Dunque, l’argomento tranquillizzante basato sulla mobilità dovrebbe perdere un bel po’ del proprio potere persuasivo. Non è chiaro se Alesina concordi con questo. Forse no, visto che nell’articolo fa riferimento ai dati raccolti da Raj Chetty i quali “dimostrano che la mobilità sociale, negli Stati Uniti, è alta in alcune città, come Seattle, ed è bassa in altre. Insomma: il sogno americano esiste in parte degli Stati Uniti, non dovunque”. Bene, ma va aggiunto che Chetty, nella pagina del suo website di presentazione delle proprie ricerche, scrive anche che la mobilità “è significativamente più bassa negli Stati Uniti che nella maggior parte dei paesi sviluppati”. Dunque, il fatto che alcune città americane siano più mobili di altre non sembra sufficiente per sostenere la tesi che dell’alta disuguaglianza (degli Stati Uniti, e forse in generale) ci si può disinteressare perché la mobilità sociale è ciò che conta e questa (negli Stati Uniti e forse in generale) è largamente indipendente dalla disuguaglianza. In realtà i nessi tra i due fenomeni – messi in evidenza dalla curva del Grande Gatsby – possono essere, e sembrano essere, molto stretti.

Posti di fronte alla limitata mobilità sociale molti invocano, come unica e decisiva soluzione, l’istruzione – anche precoce – per chi proviene da background familiari svantaggiati. Alesina fa riferimento a questo soluzione e sostiene che sarebbe la mancanza di meritocrazia anche nelle scuole a frenare la mobilità sociale. Il tema è troppo complesso per essere affrontato qui, ma una domanda che a noi pare rilevante è questa: anche ammesso (ma da noi non concesso) che il mancato riconoscimento del merito sia l’unico ostacolo alla mobilità sociale, quali sono le ragioni per le quali il merito non viene riconosciuto? Se nei paesi dove la disuguaglianza è maggiore la mobilità sociale è minore potrebbe anche pensarsi che la disuguaglianza non faciliti l’affermarsi del merito e il buon funzionamento delle istituzioni che dovrebbero promuoverlo. O qualcosa del genere. Insomma a noi pare che l’invito a guardare alla mobilità sociale per disinteressarsi della disuguaglianza poggi su un terreno ben poco solido

Il secondo argomento tranquillizzante è questo: le disuguaglianze che si formano nei mercati sono necessarie a provvedere incentivi indispensabili per innovare e fare “cose buone”. Qui occorre essere precisi: un conto è affermare che per indurre determinati comportamenti occorrono incentivi e quindi disuguaglianza (affermazione con la quale si può concordare), altro conto è che occorrono sempre e precisamente incentivi (e disuguaglianze) dell’entità che si forma nei mercati. Alesina con riferimento all’industria farmaceutica scrive: “Alcune società hanno fatto profitti enormi. Preferiremmo forse averle tassate così tanto da avere ridotto ricerca e sviluppo, tornando a qualità e lunghezza della vita garantite dai medicinali degli anni 50?”

La risposta a questa domanda è certamente negativa. Ma se essa implica che più tasse (quante?) su quei profitti enormi avrebbero avuto, come esito finale, il ritorno della qualità e della lunghezza della vita ai livelli degli anni ’50, allora c’è molto da dissentire.

Per iniziare, ricorderemo – senza voler troppo insistere su questo punto – che molti ricercatori, straordinari benefattori dell’umanità, non hanno voluto brevettare le proprie scoperte. E’ risaputo come Salk rispose a chi gli chiese se intendesse brevettare il suo vaccino contro la poliomelite: “forse si può brevettare il sole?”. E anche Sabin non brevettò il proprio vaccino. Talvolta gli incentivi non sono soltanto monetari. E molto spesso sono sufficienti incentivi monetari assai inferiori a quelli che producono gli enormi profitti ricordati da Alesina. In realtà, la loro origine potrebbe nascondersi nella capacità delle imprese di appropriarsi, in vario modo, di rendite.

Un primo esempio interessante al riguardo concerne gli Stati Uniti. Per legge, Medicare (l’assicurazione pubblica per chi ha più di 65 anni) non può ricorrere a pratiche concorrenziali, come l’indizione di gare, per acquisire i farmaci al minor prezzo. Tale possibilità è, invece, concessa all’amministrazione sanitaria dei veterani che così riesce a risparmiare circa la metà. E’ lecito pensare che il prezzo non concorrenziale pagato da Medicare permetta alle imprese farmaceutiche di lucrare rendite e quindi di incassare ben più che lo stretto necessario per investire in ricerca e sviluppo.

Peraltro, molte rendite sono certamente consentite dalla pratica che consiste nel richiedere brevetti “preventivi” collegati a possibili innovazioni che potrebbero seguire a innovazioni già fatte. Ciò probabilmente è parte della spiegazione dell’assenza di correlazione fra prezzi dei farmaci e loro benefici rilevata da alcuni ricercatori (Mailankody e Prasad, Jama Oncology, 2015). Il fatto che, secondo alcune fonti (Cfr. Rapporto Oxfam su Global Wealth, 2015) l’industria farmaceutica è, negli Stati Uniti, tra quelle che impegnano più risorse nell’attività di lobbying non è, probabilmente, un argomento irrilevante. E questo non vale solo nel farmaceutico. Sbaglieremo, ma non riusciamo a credere che Bill Gates sarebbe stato un innovatore meno efficace se invece di accumulare 70 miliardi di dollari ne avesse accumulati la metà.

Va anche detto, tornando al farmaceutico, che non dobbiamo soltanto alla ricerca privata, incentivata dagli enormi profitti, il miglioramento della qualità della vita degli ultimi 60 anni. Il pubblico contribuisce non poco con sussidi alla ricerca privata e, d’altro canto, svolge direttamente ricerche che contribuiscono a quel risultato: un lavoro recente (Stevens et al. 2011, New England Journal of Medicine) ricorda come negli ultimi quarant’anni quasi il 20% delle molecole più innovative registrate in Usa dalla Federal Drug Administration sia stato scoperto da istituti di ricerca pubblici. .

Come ultima osservazione si può ricordare che l’allungamento della speranza di vita non dipende solo dai farmaci, diversamente da quanto sembra affermare Alesina. Come ci hanno ricordato Costa e Marra sul Menabò le condizioni economiche sono molto importanti e, con esse, il grado di disuguaglianza nella distribuzione del reddito – sottolineiamo disuguaglianza e non solo povertà. Contano, altresì, alcuni stili di vita, anch’essi in parte correlati alle disuguaglianze economiche. Ad esempio, in Gran Bretagna, ben metà della riduzione della mortalità per malattie coronarie fra il 1981 e il 2000 è attribuibile a una riduzione dei fattori di rischio, in primis, fumo (Belgin et al 2004, Circulation). Dunque, anche ridurre le disuguaglianze – e non solo tollerarle, evitando di tassare profitti enormi – può allungare la vita.

Ma il punto più generale è questo: ammettere che occorra un premio (o, con diversa formulazione, riconoscere che il merito deve essere premiato) non equivale a ritenere accettabile e necessario qualsiasi premio si formi nei mercati. Questa confusione tra premio e sua entità ci pare molto frequente e non chiarirla equivale a creare contrapposizioni inutili. La questione è complessa, ma si può senz’altro affermare che se i mercati non sono ragionevolmente concorrenziali i premi tenderanno a contenere rendite, cioè remunerazioni in eccesso rispetto a quanto è sufficiente per motivare determinati comportamenti, come abbiamo già sostenuto sul Menabò. Le disuguaglianze, in generale, cresceranno e si tratterà di disuguaglianze che non possono essere considerate accettabili.

Il terzo argomento è che per ridurre le disuguaglianze non vi è altra strada che tassare e questo vogliono coloro che considerano le disuguaglianze un problema. Questo argomento è abbastanza intrecciato con il quarto e ultimo argomento che consideriamo, quello per cui chi critica le disuguaglianze del mondo reale non vuole altro che l’eguaglianza assoluta. Non ci sembra che le cose stiano così.

Anzitutto, quanto si è detto poco sopra dovrebbe chiarire che il problema principale (anche se non l’unico) non è tassare per togliere incentivi, ma semmai tassare le rendite o meglio ancora cercare di prevenire la formazione stessa delle rendite. Questo richiede politiche più sofisticate della mera redistribuzione e molti dei guru della sinistra a cui Alesina fa riferimento hanno in mente esattamente questo tipo di politiche. E’ questo certamente il caso di un guru non citato da Alesina, Tony Atkinson, il quale, nel suo ultimo libro (Inequality. What can be done?, Harvard University Press, 2015), propone anche una serie di misure volte a prevenire le disuguaglianze che non sono necessarie per il buon funzionamento della società. Per parte nostra ,abbiamo modestamente cercato in più occasioni di richiamare l’attenzione sull’importanza di queste misure di pre-distribution, che possono modificare ex ante le regole del gioco. Ad esempio, nel caso delle imprese farmaceutiche si tratterebbe di bandire le norme che limitano in modo ingiustificato la concorrenza.

La tassazione non è l’unica risposta, molto altro può essere fatto soprattutto per disegnare diversamente i mercati e renderli più amichevoli nei confronti delle disuguaglianze accettabili (e perciò contenute). Un po’ ci sorprendiamo che sull’esigenza di questo diverso disegno non si coaguli il consenso di coloro che “credono” nei mercati. Ma forse tutto dipende dalla preoccupazione che non c’è.

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