Chi ha pagato la crisi e chi finanzierà la ripresa in Francia?

Federico Bassi illustra brevemente le politiche di sostegno al reddito introdotte in Francia per fare fronte alla crisi e sottolinea che tali politiche se, da un lato, hanno attenuato le conseguenze della crisi, dall’altro, escludendo dai benefici le fasce di popolazione più deboli, non hanno impedito alle disuguaglianze pre-esistenti di aggravarsi. Anche considerando le tensioni politiche e sociali precedenti alla crisi, Bassi teme che la ripresa economica sarà lenta e vedrà un’accelerazione dei processi di riforma neoliberali del governo francese.

La crisi sanitaria legata al COVID-19 sta avendo delle ripercussioni senza precedenti sull’economia francese. Il rischio di saturazione del sistema sanitario nazionale, indebolito da anni di politiche di austerità, ha infatti reso necessaria la sospensione delle attività economiche ‘non essenziali’ a partire dal 17 marzo scorso. La perdita di 5,8 punti percentuali di PIL che ne è conseguita (-8,2 su base annuale, secondo le stime della Banca di Francia) rappresenta, ad oggi, un picco storico.

Benché la reazione non sia stata tempestiva né priva di contraddizioni (tra la chiusura delle attività non essenziali e l’annuncio ufficiale del confinamento si è tenuto il primo turno delle elezioni municipali), il Governo è intervenuto con un ampio spettro di dispositivi di sostegno al reddito dei lavoratori e delle lavoratrici che avrebbero subito una perdita di attività o che semplicemente avrebbero dovuto far fronte all’esigenza di occuparsi di figlie e figli minorenni in seguito alla chiusura delle scuole.

Secondo l’OFCE (Observatoire Français pour la Conjoncture Economique) si tratta di più di 9 milioni di persone, circa un terzo dell’occupazione totale. Di questi, 6,5 milioni di lavoratori e lavoratrici avrebbero avuto diritto al dispositivo chômage partiel, equiparabile alla Cassa Integrazione Italiana, che consente, su richiesta dell’impresa, di coprire fino al 70% del salario lordo (circa l’84% del salario netto) per le ore non lavorate. Nelle imprese soggette a chiusura obbligatoria l’accesso al dispositivo è stato automatico e totale. Nelle imprese che hanno registrato una perdita di attività senza obbligo di chiusura, l’OFCE stima che ne abbia potuto beneficiare solo il 75% dei lavoratori e delle lavoratrici; il restante 25% ha subito il licenziamento e ha potuto ricorrere, nel migliore dei casi, al sussidio di disoccupazione classico.

Circa un milione e trecentomila lavoratori e lavoratrici hanno avuto accesso al dispositivo garde d’enfants, che consentiva a chi non aveva la possibilità di lavorare da casa e doveva occuparsi di almeno un figlio minorenne, a causa della chiusura delle scuole, di ottenere un sussidio pari al 90% del salario netto, finanziato dallo Stato nella misura del 50% del salario iniziale e dall’impresa per il restante 40% (a partire dal 1° maggio, il dispositivo garde d’enfants si è trasformato automaticamente in chômage partiel).

Circa un milione sono i lavoratori e le lavoratrici indipendenti che hanno potuto usufruire di altre misure specifiche quali il rinvio o la sospensione di determinate scadenze fiscali, il rinvio del pagamento del canone d’affitto e delle utenze per acqua, elettricità e gas, e soprattutto un fondo di solidarietà che consentiva di ottenere fino a 1.500 euro di contributo per chi avesse subito una riduzione di attività pari almeno al 50% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente o, se più favorevole per l’impresa, rispetto alla media dell’anno precedente. Un ulteriore contributo compreso tra i 2.000 e i 5.000 euro si aggiungeva per coloro che 1) non fossero comunque in grado di affrontare scadenze finanziarie e costi fissi, 2) non fossero in grado di accedere al credito bancario e 3) avessero almeno un dipendente al proprio servizio o fossero soggetti ad un divieto di apertura al pubblico tale da compromettere l’attività.

Per i restanti lavoratori e le lavoratrici titolari di un contratto a tempo determinato della durata residua inferiore a un mese – che non hanno potuto beneficiare dei due principali dispositivi di sostegno al reddito – le sole alternative a disposizione sono state il sussidio di disoccupazione classico per chi rispettasse i requisiti oppure il revenu de solidarité active (reddito minimo) per chi avesse un’età superiore a 25 anni. Per chi non avesse i requisiti per accedere alla disoccupazione e non avesse raggiunto i 25 anni di età non è stata prevista alcuna compensazione specifica.

Queste misure di sostegno hanno compensato, secondo le stime dell’OFCE, il 60% del crollo totale del reddito nazionale, portando il rapporto tra deficit pubblico e PIL dal 3% al 10%, e quello tra debito pubblico e PIL dal 98% al 115% stanti le proiezioni su base annuale. La perdita di reddito non compensata da queste misure (rispettivamente, il 5% per le famiglie e il 35% per le imprese, secondo le stime dell’OFCE), ha contribuito ad amplificare le forti disuguaglianze economiche e sociali già presenti prima della crisi. Tralasciando l’alta percentuale di chi pur avendo diritto a sussidi e misure di sostegno al reddito non ne fa richiesta, sono infatti rimaste scoperte fasce di popolazione in condizioni di fragilità economica pregressa. Si tratta di lavoratori e lavoratrici con contratto a termine della durata inferiore a un mese, cui abbiamo già accennato, nonché lavoratori e lavoratrici o libere/i professioniste/i del settore informale che non hanno potuto giustificare un’attività economica (e che perciò sfuggono in parte dalla rilevazione statistica). Inoltre, benché meno evidente, a pagare è stata anche quella fetta di popolazione – principalmente inoccupate/i o disoccupate/i che vivono con un reddito inferiore alla soglia di povertà (circa un terzo del totale) – fortemente dipendente dal sostegno di associazioni, mense caritatevoli o altri enti di volontariato, pubblici o privati, che hanno dovuto interrompere l’attività durante il confinamento. A questo costo economico si è aggiunto il costo sanitario e sociale legato alla difficoltà di rispettare le norme sul confinamento per chi vive in domicili piccoli e sovra-abitati (si tratta di 5 milioni di persone secondo l’INSEE, l’istituto nazionale di statistica francese) e non ha potuto garantire la continuità formativa ai propri figli e figlie, né l’isolamento adeguato dei membri del nucleo familiare malati, esponendosi a un maggiore rischio di contagio.

Le aspettative sulla ripresa economica rimangono ancora caratterizzate da un’incertezza di fondo, nonostante sia già iniziato il gioco delle previsioni che assomiglia a un’estrazione di lettere. Chi vuole dare prova di ottimismo conta sul fatto che le famiglie consumeranno nei prossimi mesi l’intero risparmio accumulato durante il periodo di confinamento e scommette su una V, ovvero una crisi temporanea () a cui fa seguito una pari ripresa (/). Un effet rebond, come lo definiscono i francesi, ovvero un effetto rimbalzo. Chi dà prova di maggior cautela privilegia scenari alternativi, ad U, caratterizzati, cioè, da una fase intermedia di stagnazione seguita da una ripresa. I più pessimisti scommettono invece su scenari a L, con una lunga e persistente stagnazione o una lenta ripresa. I più fantasiosi si avventurano a ipotizzare scenari a W o a WL.

Le stime più recenti tenderebbero a dare ragione ai (più o meno) pessimisti. Il tasso di disoccupazione è rimasto relativamente contenuto nel mese di marzo – per effetto delle misure di sostegno al reddito che hanno permesso di minimizzare i licenziamenti e del crollo del tasso di partecipazione – ma è esploso nel mese di aprile registrando un aumento record del 22%. Dal lato delle imprese, nonostante le misure di sostegno al reddito messe in campo dal Governo e la chiusura dei Tribunali abbiano contribuito a tenere basso il numero di fallimenti, secondo una stima recente della CPME (Confédération des Petites et Moyennes Entreprises) metà delle imprese francesi dichiara di non avere liquidità sufficiente per resistere a tre mesi di chiusura, e più di un terzo di non poter resistere neppure un mese. Risultato: più della metà delle piccole e medie imprese francesi teme di non essere in grado di far ripartire l’attività. In linea con il quadro delineato dalla CPME, Coface (Compagnie Française d’Assurance pour le Commerce Extérieur) stima che il tasso di fallimento delle imprese crescerà del 25%.

La lettera che verrà estratta nella ruota della ripresa economica francese dipenderà perciò dalla capacità (e dalla volontà!) del Governo di sostenere la domanda finale attraverso misure di sostegno al reddito e investimenti pubblici nei settori strategici, una prospettiva certamente auspicabile ma poco verosimile. Bisogna ricordare che la crisi sanitaria è giunta al culmine di una fase di tensione sociale altissima legata ai progetti di riforma in materia di pensioni, disoccupazione e università, rispetto ai quali il Governo aveva categoricamente escluso di fare marcia indietro, salvo poi sospenderli temporaneamente con l’inizio del confinamento. Appare perciò poco probabile un definitivo abbandono di questa agenda di riforme, in particolare in un contesto di aumento del debito pubblico senza un proporzionale alleggerimento dei vincoli fiscali. Peraltro, il Governo ha dimostrato sin dall’inizio del confinamento grande ambiguità delineando scenari opposti: dal ritorno alle politiche keynesiane all’aumento del tempo di lavoro, quest’ultimo peraltro già avvenuto in alcuni settori durante il confinamento. In merito alla possibilità di reintrodurre l’lSF (impôt de solidarité sur la fortune, la tassa sui grandi patrimoni la cui eliminazione aveva dato vita al movimento di protesta dei Gilet Jaunes) la posizione è invece più chiara ed esclude la partecipazione forzosa dei grandi patrimoni alla ripresa economica. Probabilmente – come in occasione dell’incendio della Cattedrale di Notre-Dame di Parigi – si fa affidamento sulle donazioni filantropiche che da quei patrimoni potranno provenire in cambio di sgravi fiscali tra i più generosi al mondo. Chi finanzierà la ripresa e di quale ripresa si tratterà? Queste sono le grandi incognite.

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