Chi ha la visione che non c’è?

Roberto Tamborini osserva che nel dibattito sul Piano di Ripresa e Resilienza risuona l'allarme della "visione che non c'è" nel governo e nella politica e ritiene che una visione del modello di sviluppo in realtà non esista più da tempo. Tamborini sostiene che il problema ha radici nella società civile, mentre troppa enfasi viene posta sulle colpe della "politica" e mette in guardia contro tre errori che, ignorando le conseguenze della pandemia e della risposta europea, rischiano di condizionare le scelte politiche.

Come sarà, e come dovrà essere l’Italia dopo il Covid-19? Saremo capaci di sfruttare al meglio il programma europeo Next Generation EU (NGEU)? Su queste domande cruciali per il nostro futuro risuona l’allarme della “visione che non c’è” nel governo e nella politica. Ma se ripercorriamo la storia italiana degli ultimi trent’anni (diciamo dall’inizio della cosiddetta Seconda Repubblica), non dovrebbe stupire che “non c’è la visione”. Per la semplice ragione che una visione del paese, del suo futuro, del suo modello di sviluppo, non esiste più da tempo. Il problema affonda le radici nella società civile organizzata, mentre troppa enfasi, un po’ ipocrita, viene posta sulle colpe della “politica”.

In primo luogo, sorprende che l’allarme provenga con particolare veemenza dalle fila del liberismo nostrano, che ha contribuito al clima intellettuale e politico favorevole all’abbandono dell’intervento pubblico nella e sulla economia (programmazione, politica industriale, settori strategici, interessi nazionali, sono diventati tabù), diffondendo altresì la convinzione che i governi, lo Stato, non devono essere portatori di alcuna visione, ma limitarsi ad amministrare e a garantire che ciascuno possa realizzare sé stesso grazie alle libertà individuali, in primo luogo la libera iniziativa economica, che troverà da sé la via della prosperità del paese.

In secondo luogo, è avvenuto che l’offerta politica ha corrisposto alla domanda proveniente da una società che si è divisa in centri d’interessi organizzati con lo scopo di non subire, e trasferire su altri, i costi necessari per affrontare, con “meno Stato e più mercato”, le sfide dell’euro e del mondo globalizzato, rispetto alle quali l’Italia dello sviluppo insostenibile degli anni ’80 era inadatta e impreparata (cfr. A. Capussela, Declino. Una storia italiana, LUISS University Press, 2020). Un’offerta di rappresentanza protettiva organizzata dalle forze politiche di centro-destra molto meglio di quelle di centro-sinistra, che infatti sono state punite per essersi mostrate disposte a chiedere sacrifici a buona parte del proprio elettorato senza avere né le idee né la forza per chiedere e ottenere la partecipazione degli altri schieramenti allo sforzo di rinnovamento e alla condivisione dei costi. Dunque, sarebbe davvero stupefacente se da questa storia fosse scaturita una classe politica, un partito, in grado di esprimere “la visione”.

D’altra parte, NGEU una visione ce l’ha, e pure le risorse. Il programma è stato giustamente salutato come un cambiamento di paradigma del governo dell’Unione europea, o almeno il primo passo che si spera non svanisca con la pandemia. Ma NGEU è anche un cambio di paradigma sotto il profilo della definizione degli assi portanti dello sviluppo economico futuro e del campo d’azione delle politiche pubbliche, ben al di là del solitario totem della salvaguardia della concorrenza. Le novità sono in particolare due.

Le finalità. L’idea è semplice: realizzare interessi collettivi non serviti dal mercato. Si tratta, nella sostanza, di una nozione elementare di economia (nonché un principio cardine dell’UE come la sussidiarietà), che però è stata dimenticata per il diffondersi della convinzione che gli interessi collettivi non serviti dal mercato fossero diventati residuali, “senza più domanda”, mentre il mercato potesse assicurare tutto ciò che conta veramente per il benessere (individuale). Però con la crisi mondiale degli anni ’10, prima, e con la pandemia, poi, per milioni di persone si è aperta una voragine tra la (ri)scoperta di beni e servizi collettivi, ma anche individuali, necessari per una vita degna e quelli che possono offrire le sole forze di mercato. E infatti le ormai ben note aree d’intervento di NGEU – tutela ambientale, crescita sostenibile e inclusiva, innovazione e digitalizzazione, salute pubblica, istruzione – rimandano a beni che, anche se non corrispondono alla definizione manualistica di “beni pubblici puri”, sono male o per nulla serviti dal mercato, se non adeguatamente sostenuto, guidato, e se necessario sostituito, dall’intervento pubblico.

Il metodo. Tre sono le parole chiave per inquadrare il metodo NGEU: programmazione, intervento diretto, allocazione di risorse. I documenti di accompagnamento di NGEU colpiscono per il livello di dettaglio richiesto nel controllo e governo dei processi (M. Buti e M. Messori, SEP-LUISS Policy Brief 39, 2020 ffrono un’utile presentazione). Da questo punto di vista, le preoccupazioni di un insuccesso italiano sono fondate, non tanto per via della burocrazia in sé, ma in quanto, come ricordato prima, la capacità d’indirizzo e di governo dell’economia è stata smantellata da tempo, mentre lo scheletro giuridico-amministrativo, senza più corpo, è cresciuto, senza per altro riuscire a impedire collusioni e reciproche corruzioni tra affari e politica.

Entro questa cornice, come ben evidenziato da M. Franzini sul Menabò n. 133, 2020 e dal gruppo degli economisti della SEP-LUISS (Policy Brief 42, 2020), i governi devono presentare piani nazionali finalizzati a due obiettivi, ripresa e resilienza (PNRR). Il primo è un obiettivo di più breve termine che richiede misure fiscali atte a ridurre il più possibile i danni economici e sociali creati dalla pandemia e a rimettere in moto l’attività economica. Il secondo è un obiettivo di più lungo termine concernente la capacità di sviluppo lungo le linee prospettiche richiamate in precedenza, andando quindi sul terreno assai impegnativo delle modificazioni strutturali del sistema economico. Ovviamente i due obiettivi, e i relativi strumenti, sono e devono essere interconnessi, ma essi richiedono anche approcci e strumenti diversificati, e ciascuno andrà valutato con criteri appropriati. Nella prospettiva di un’efficace integrazione dei due obiettivi del PNRR, l’importanza di NGEU per l’Italia non sta soltanto nell’entità delle risorse disponibili. Non saranno 200 miliardi, per quanto ben spesi, a consentirci di rendere il nostro paese più solido, equo, prospero. Sono le finalità e il metodo di NGEU richiamati prima ad aprirci una porta e indicare una via sia per una riforma di sistema, sia per un ridisegno dell’intervento pubblico nell’economia. In questa prospettiva occorre innanzitutto evitare tre errori, che in forme diverse ignorano le conseguenze della pandemia e dalla risposta europea.

Primo: concentrarsi solo sull’obiettivo di breve termine, puntando tutto su ristori, agevolazioni, sussidi, aiuti a famiglie e imprese per riportare il PIL in linea coi valori pre-pandemia e il sistema economico allo status quo ante. Questo approccio, purtroppo molto agevole e popolare, non sarebbe coerente coi criteri di NGEU, ma soprattutto sarebbe errato perché la pandemia ha prodotto effetti strutturali profondi sia nel sistema produttivo (lato dell’offerta) sia nei comportamenti e nei fabbisogni individuali e sociali (lato della domanda).

Secondo: rispolverare qualche agenda delle riforme del passato. Seguendo questo approccio, all’apparenza più ambizioso e che vanta molti autorevoli sostenitori, si commetterebbe in realtà un errore analogo al precedente. Non aver realizzato riforme ritenute necessarie secondo idee, criteri, finalità predominanti dieci o venti anni fa, non ne giustifica ipso facto la loro realizzazione oggi, in un contesto e condizioni del tutto diverse.

Terzo: complemento e corollario del precedente, impantanare il dibattito pubblico sulla vecchia contrapposizione statalisti-mercatisti.

Purtroppo questi tre errori sono incombenti, ed è concreta la possibilità che condizionino le scelte politiche. Il variegato fronte di chi punta alla ricostituzione dello status quo ante, possibilmente con un rafforzamento della propria posizione, può contare su consolidati canali di rappresentanza-protezione politica (prevalentemente, ma non soltanto, nel centro-destra), e su molti strumenti di creazione del consenso, già all’opera da mesi. Tra chi propugna la necessità di realizzare un disegno di più ampia portata e lunga durata sembra prevalere l’attrazione fatale degli altri due errori. Vediamoli più in dettaglio.

Le analisi predominanti delle cause della stagnazione italiana hanno via via individuato le condizioni al contorno del sistema produttivo che ne ostacolerebbero il pieno sviluppo, come le leggi e gli accordi che regolano i rapporti di lavoro, il sistema fiscale, la pubblica amministrazione, la giustizia civile e amministrativa, il sistema formativo. Non c’è dubbio che inefficienze e storture in questi ambiti concorrono a frenare la dinamicità del sistema produttivo, e che occorre rimuoverle. Non è però credibile che tutto in Italia debba essere riformato tranne il sistema imprenditoriale stesso, il “modello di capitalismo”, si sarebbe detto in altri tempi. Solo vittima incolpevole? Eppure anche su questo fronte vi sono numerose analisi accurate che restituiscono un quadro assai problematico, riguardo non solo al passato, ma anche e soprattutto al salto di paradigma richiesto per il futuro post-pandemico delineato da NGEU. Le eccellenze che ci tengono a galla non mancano ma sono poche, e politicamente ininfluenti.

Come documenta ad esempio Capussela (p. 356 e seg.), le imprese italiane occupano le posizioni basse delle classifiche internazionali in quasi tutti gli indicatori di qualità ed efficienza, dalle forme di governo societario alla qualità dei bilanci, dagli assi ereditari inamovibili al livello di formazione di proprietari e manager.

Inoltre (cfr. tra gli altri F. Hassan e G. Ottaviano su Vox-EU, 30-11-2013), vi è una relazione tra la stagnazione della produttività della manifattura italiana (la parte più avanzata del nostro sistema) e il basso tasso d’investimento in nuove tecnologie digitali, a sua volta dovuto a inadeguate competenze manageriali (elevata età media e non elevato titolo di studio), e a processi di selezione basati più su fedeltà e relazioni personali che su risultati e performance.

I processi di riallocazione delle risorse produttive essenziali per i salti quali-quantitativi dei sistemi economici – la “distruzione creatrice” di Schumpeter – sono insufficienti e inefficienti. Tra le cause, le cosiddette “rigidità del mercato del lavoro” sono state oggetto di attenzione pressante e interventi ripetuti, ben rilevati dai cambi di posizione dell’Italia nelle graduatorie OCSE (cfr. Hassan e Ottaviano, p. 3). Non altrettanto può dirsi di altre ben note, e non meno rilevanti, cause riguardanti il sistema bancario (relazioni clientelari soprattutto tra banche e imprese locali, insufficiente capacità di analisi del merito di credito industriale e del potenziale di crescita d’imprese nascenti e innovative) e il mercato azionario (insufficiente partecipazione, bassa capitalizzazione, scatole cinesi, non contendibilità, scarsità di investitori orientati al rischio di lungo termine).

Su molti di questi problemi incide il nanismo e familismo di troppe imprese, o forse presunte tali, che sopravvivono solo ai margini delle grandi correnti commerciali aperte e competitive, richiedendo dosi crescenti d’incentivi per fare, spesso, ciò che un imprenditore dovrebbe fare per sua natura e missione (e di cui infatti non c’è chiara evidenza dell’efficacia), ma anche dosi crescenti di lassismo fiscale e regolativo (su sistemi di sicurezza, tutela ambientale, tutela del consumatore, relazioni sindacali, criteri di responsabilità sociale, ecc.). Invece è sempre più diffusa a livello mondiale la consapevolezza che per ricostituire il consenso sociale lacerato, e ricreare condizioni di sviluppo equo e sostenibile, occorre procedere nella direzione opposta, alzando, non abbassando, l’asticella della struttura dell’impresa e della sua responsabilità sociale (si veda lo studio sulla riforma del governo societario pubblicato dalla Commissione europea lo scorso luglio). Si pensa davvero di poter realizzare al meglio obiettivi coerenti con le risorse europee, e farne la leva per rimodellare il paese, senza un programma accurato e incisivo di riforma anche del sistema delle imprese, delle banche e della finanza?

Da un lato continua incessante la pressione per interventi sulle condizioni di contorno del (mal)funzionamento del sistema produttivo, il quale appare persino inconsapevole dei propri problemi, incapace di esprimere esso stesso una visione, un disegno di auto-riforma. Dall’altro lato, si contrapporranno a specchio i difensori dei residui diritti del lavoro, o di protezioni che riguardano settori del lavoro sempre più ristretti e residuali, e le constituency degli apparati burocratico-amministrativi di vario livello. Se questo sarà il clima, cioè la riproposizione di quello che ha ammorbato il paese fino ad oggi, la paura del cambiamento prevarrà sull’evidenza della sua necessità creata dalla dura esperienza della pandemia. Su tutto si stenderà una diffusa richiesta di aiuti, risarcimenti, rivalse in forza della quale il ripristino dello status quo non apparirà altro che un atto dovuto. I tre errori incombenti si fonderanno in uno solo, fatale.

È possibile scongiurare questo esito nefasto? Non facile, ma potrebbe riuscirci una forza politica in grado di a) ascoltare e raccogliere le idee e le istanze di cambiamento diffuse ma disperse nella società, lontane dai megafoni comunicativi b) organizzarle e inquadrarle in un disegno organico basato su chiari princìpi discriminanti, c) raccogliere, su tale base, il consenso della più ampia parte possibile dei portatori d’interessi in forza dell’impegno a far sì che il programma di rinascita del paese richieda un equo passo indietro da parte di tutti per poter fare tutti un grande passo in avanti.

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