Che cosa hanno in comune Rousseau e l’analisi del progresso tecnico da parte di un sindacato confederale?

Claudio Treves sostiene che i Diari di Bruno Trentin relativi agli anni 1995-2006 (recentemente pubblicati) siano una straordinaria occasione per riflettere sul difficile rapporto tra libertà ed eguaglianza nel pensiero del movimento operaio, soprattutto ora che si discute del futuro del Paese. Da un'idea di autonomia progettuale fondata sul riconoscimento della libertà cosciente delle persone i soggetti collettivi potrebbero elaborare una strategia dei diritti come valorizzazione, qui ed ora, delle potenzialità della persona che lavora.

Anche se la questione tende a essere trascurata, in queste settimane, si sta giocando una partita centrale che ha come oggetto il ruolo del sindacato confederale rispetto all’autonomia dei partiti, del governo e delle altre associazioni. Il riferimento è al Recovery Fund. Al riguardo, è indispensabile – per il sindacato, se non vuole essere costretto alla rappresentanza dei soli interessi organizzati – avere un proprio progetto autonomo sul destino dell’Italia, sulle scelte e sulle opzioni che si devono compiere, da misurare da pari a pari con la politica e le rappresentanze datoriali e sociali. Passa da qui un treno che non ripasserà per molto tempo, se non decidiamo di giocare questa partita, con i rischi ma anche con le possibilità che si presentano.

In questo contesto, si dimostra di straordinaria utilità ritornare a riflettere sul pensiero di Bruno Trentin. Ce ne offre l’occasione la recentissima pubblicazione dei suoi Diari nella sapiente ed amorevole edizione curata da Andrea Ranieri ed Ilaria Romeo per Castelvecchi (Bruno Trentin e l’eclisse della sinistra – dai Diari 1995-2006), cui la domanda apparentemente bislacca posta a titolo di questo articolo fa da filo rosso. A differenza dell’edizione dei Diari 1988-1994 curata da Iginio Ariemma per Ediesse, qui vengono riportate pagine selezionate, significative del pensiero e degli stati d’animo di Trentin, corredate da un’importante Appendice documentaria di scritti “pubblici”, a riprova della relazione tra pensieri “privati” ed azione pubblica dell’Autore, e a conferma della persistenza nel pensiero trentiniano di alcuni punti fermi. Il primo dei quali è il primato della libertà su ogni altra idea nella vita e nell’azione delle persone e delle loro organizzazioni collettive. E qui bisogna intendersi.

Libertà per Trentin è un concetto né semplice né consolatorio, ma strettamente legato alla condizione soggettiva nella vita reale: insomma non si tratta di un’astratta petizione di principio (kantiana, si potrebbe dire), né di un vagheggiamento futuribile; anzi, il bersaglio polemico costante di Trentin è proprio la scissione tra soggezione attuale (nel capitalismo) e liberazione futura (nel socialismo), cui si accompagna l’altro costante avversario di Trentin, la divisione dei compiti tra partito (con visione generale e proiettata al futuro) e sindacato (obbligato all’immediato e strutturalmente subalterno al partito). E a differenza dei Diari 1988-94 qui assumono più rilievo le riflessioni filosofiche a fondamento delle opzioni più strettamente politiche.

Ed è qui che arriva Rousseau, o meglio è qui che Trentin si arrovella sull’oblio in cui nel pensiero della sinistra è caduto un filone del pensiero moderno che ha fatto della tensione tra la libertà della persona e l’”oggettività” dell’assetto sociale il fulcro della propria elaborazione. Stiamo parlando del Marx dei Manoscritti del 1844, del Gramsci della “Rivoluzione contro il Capitale”, dell’austromarxismo dei dirigenti socialdemocratici dei primi decenni del XX secolo, e di tanto pensiero cristiano (Simone Weil) sul valore insopprimibile della persona umana rispetto alle costrizioni mondane.

Per una sintesi straordinaria di questa tensione, si dovrebbe ricordare la formulazione dell’articolo 2 della Costituzione, inspiegabilmente poco ricordato (per memoria lo ricopio: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, corsivo mio), dove la correlazione “sia…sia” esprime esattamente il fine ma anche la difficoltà. L’idea di libertà di Trentin non cancella, anzi si direbbe che parta proprio da quanto di negatore della libertà sia ravvisabile nella condizione lavorativa, non solo nei termini di arbitrio derivante dalle differenze di classe, ma – soprattutto – in termini di mancato riconoscimento di quanto di originale sia nascosto nella prestazione lavorativa nel capitalismo.

Ho usato la parola “nascosto”, che ha qui due significati: non visto (e non valorizzato), e misconosciuto (ridotto a pura esecutività); a entrambi questi significati non può corrispondere – nel pensiero di Trentin – la sola “compensazione” salariale, né sotto forma di cottimo né sotto forma di aumento individuale paternalisticamente concesso dal padrone. E il fondamento non riconosciuto della libertà sta nel “sapere” che anche nella condizione di privazione estrema (i reparti confino della Fiat negli anni ‘50) resta sempre a fondamento della irriducibilità della persona che lavora a merce, e su cui costruire la strategia di liberazione. Di qui l’opzione costante pur nello scorrere degli anni per la conquista di “diritti”, intesi proprio come spazi di accrescimento della libertà intesa a sua volta come riconoscimento di sapere e pertanto di potere: dalla lotta per le qualifiche (riconoscimento dei saperi delle persone validi anche al di fori della relazione con il singolo padrone), alla rivendicazione di un ruolo per l’indirizzo delle scelte degli investimenti, fino alle 150 ore, ma contestualmente la scelta dei delegati quale forma di rappresentanza, il Piano d’impresa e l’invocazione di un welfare non più (solo) risarcitorio ma promozionale con la costante insistenza sulla formazione lungo tutto l’arco della vita quale variabile strategica per una nuova Italia.

Trentin si interroga nei Diari sulle vicende drammatiche della sinistra tra il 1995 e il 2006, tra le speranze insite nella riscossa anti-berlusconiana e i fallimenti nella costruzione di un soggetto politico della sinistra dopo lo scioglimento del PCI. E ritorna ossessivamente su due concetti inseparabili – l’autonomia progettuale e il suo fondamento sulla libertà delle persone. E ripercorre con angoscia crescente l’evaporazione di entrambi, vittime del prevalere di quello che chiama “leninismo senza rivoluzione”, che identifica come il vero tratto di continuità tra il “vecchio PCI” e le formazioni politiche ad esso succedute. Ossia il prevalere da un lato della subordinazione del progetto alla “conquista del potere”, e dall’altro della limitazione del ruolo del sindacato all’azione di tutela salariale.

Qui sta per Trentin il vero limite della sinistra e scorrendo i testi che opportunamente Ranieri e Romeo hanno pubblicato nell’Appendice documentaria si scopre come il giovane Trentin non ebbe paura di misurarsi su questo tema nel 1957 scrivendo con Renzo Cardini addirittura a Togliatti per criticare l’affermazione togliattiana sul compito esclusivamente salariale del sindacato, a fronte di un “progresso tecnico” ritenuto neutrale, il cui valore dipendeva dall’essere al potere il Partito oppure la borghesia. E questo filone di pensiero lo si rintraccia con assoluta evidenza in uno scritto a quattro mani con Vittorio Foa del 1960 in cui si intravede il nesso – poi costante nella riflessione di Trentin – tra la contestazione della neutralità del progresso tecnico e l’affermazione del ruolo della classe operaia che partendo dalle condizioni materiali di svolgimento della prestazione e conoscendo da queste il ciclo produttivo può addivenire ad un confronto paritario con l’impresa per l’indirizzo dell’innovazione, e non solo per contrattarne gli effetti attraverso il salario. Sono pagine di straordinario valore, e di sconcertante attualità.

Condizione perché ciò si verifichi – per Trentin – è che si affermi la libertà delle persone al lavoro – che esse possano cioè realizzarsi nel lavoro – e per questo si devono contrattare qualifiche professionali che siano il riconoscimento delle conoscenze proprie di quella prestazione e non il frutto dell’elargizione padronale; e, inoltre, si deve investire sulla formazione e sulla conoscenza dei lavoratori, affinché dal diritto conquistato collettivamente si scopra il legame solidaristico che lega le persone al lavoro, i cittadini nella società, la politica con la quotidianità delle persone. E ancora, per fare questo, il sindacato deve essere in grado – a partire da una parzialità di rappresentanza mai negata – di elaborare e proporre un progetto complessivo di riforma sociale che si misuri paritariamente con le forze politiche e con le istituzioni.

Il concetto di libertà che emerge da Diari è quindi inestricabilmente connesso al concetto di conoscenza ed informazione: si è liberi per Trentin se si è in grado di sapere e di conoscere, e quindi di giudicare. Da qui le opzioni contrattuali sui diritti d’informazione (la “prima parte dei contratti” nel gergo dei sindacalisti), conquistate nei rinnovi contrattuali del 1976-77, ma anche il dissenso radicale sul concetto di partecipazione come partecipazione agli utili (ingresso nei Consigli di amministrazione), e invece il costante ribattere sul confronto sulle prospettive dell’impresa. C’è qui un grumo di questioni che hanno attraversato la discussione sindacale e anzi la vita di ogni dirigente sindacale o politico: come stabilire l’ordine delle priorità tra esigenze diverse. Trentin non ha dubbi: la priorità va a quelle istanze che mettono le persone in condizione di essere…libere. E quindi l’articolo 18, ma anche le tutele sulla sicurezza nel luogo di lavoro e il riconoscimento professionale, anche salariale, e pertanto non egualitario. Con un vincolo, costante nell’elaborazione di Trentin: non ci può essere libertà senza ricerca dei fili solidali che legano persone diverse. E questo sarà tanto più importante nel proseguire della differenziazione del lavoro (“dei lavori” come spesso scrive negli ultimi anni), fino a spingere Trentin a immaginare una nuova forma di contratto di lavoro cui dare “certezza”, ossia cui conferire valore pubblico oltre alla durata forse non indeterminata. Uno sforzo difficile, specie a fronte dell’arroganza neoliberista di quegli anni (legge 30/03), e forse inadeguato, cui si contrappose però il cedimento di tanta parte della sinistra alle sirene della flessibilità e del “modello danese”.

È lo sviluppo di queste libertà che è simboleggiato in due elaborazioni tipicamente trentiniane – il Piano d’impresa e le 150 ore. Cioè la possibilità di un confronto paritario con l’impresa per decidere sui suoi destini, e lo strumento affinché quel confronto non avvenga tra “scienziati” delle due parti, ma si fondi sull’esperienza e sul sapere di chi nell’impresa lavora e sperimenta come il suo sapere sia misconosciuto dai rapporti di potere.

È riflettendo su questi temi che Trentin scrive nei Diari che è il momento di unire, anzi di fare sintesi della libertà degli antichi con quella dei moderni. Confesso che ho fatto un salto sulla sedia alla lettura di quel passo. Perché è qui che Rousseau e le 150 ore si stringono la mano, in un’altezza teorica che credo nessuno abbia mai raggiunto. Cercando di essere più comprensibile, Trentin fa qui riferimento ad un importante scritto di un filosofo francese – Benjamen Constant – che aveva contrapposto nel 1819 le due libertà, indicando in quelle degli antichi le forme di partecipazione pubblica (gli Ateniesi nell’agorà, che però non solo escludevano donne, schiavi e non cittadini, ma definivano una supremazia della polis sui singoli, vedi Socrate condannato a morte per empietà), mentre quelle dei moderni privilegiate da Constant sarebbero quelle di tipo individualistico-privato da cui ogni ingerenza pubblica (politica) doveva essere bandita (lo Stato doveva preoccuparsi solo della sicurezza interna – polizia, ed esterna – esercito).

Di qui la lunga storia della “libertà da” per usare i termini di Norberto Bobbio (libertà negativa, cioè divieto per le istituzioni di interferire nelle attività “privata ed egoistica” degli individui), cui nel Novecento si contrappose la “libertà di” (i diritti riconosciuti che lo Stato si impegna a perseguire nella loro effettività), che è – se ci facciamo caso – la storia delle conquiste del movimento operaio e sindacale, incardinate alla fine nella Costituzione repubblicana. Ma proprio questa sintesi di libertà negative e libertà positive corre costantemente il rischio di sfaldarsi, se i due lati si autonomizzano: se cioè ci si affida solo all’azione dello Stato senza la partecipazione dei soggetti, ovvero se si contrappongono i soggetti (collettivi) alle istituzioni. Di qui lo sforzo costante di Trentin di segnalare come non si possa delegare il progresso alla sola azione politica, di come il sindacato confederale sia a pieno titolo in grado di promuovere l’avanzamento della società partendo dalla propria azione rivendicativa solidale. Ma se ciò non accade, se cioè si ritorna ad una “divisione dei compiti” tra sindacato e partito il ripiegamento corporativo e la sconfitta sono inevitabili.

Non voglio togliere ai lettori il gusto amaro della scoperta, dalla lettura delle pagine, di quanto sforzo, dolore e depressione questa fatica abbia comportato per Trentin. La lettura spesso angosciosa delle pagine di questi Diari ci deve servire oltre che a vedere con quanta fatica ed abnegazione Trentin non abbia mai cessato di riflettere e ragionare su cose di grandissima complessità, anche ad essere sempre più persuasi che la sinistra e il sindacato o sono capaci di elaborare un progetto di società e raccordare ad esso la loro quotidianità, oppure non potranno che subire sconfitte culturali prima ancora che politiche o sociali. Il che per il sindacato significherebbe ripiombare nella sua natura corporativa.

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