Caro Roberto, caro Michele: Salvati e Tamborini dialogano su adattamento e mutamento del capitalismo

Sullo scorso numero del Menabò, Roberto Tamborini, prendendo spunto critico da un articolo di Michele Salvati, ha sostenuto la necessità, per la sinistra riformatrice, di passare dall' "adattamento" al capitalismo odierno alla sua "mutazione" per renderlo equo e sostenibile. Dopo la pubblicazione dell’articolo, Salvati e Tamborini hanno avuto uno scambio epistolare (digitale) e lo hanno proposto al Menabò, che è lieto di pubblicarlo nella sua forma originaria soprattutto perché può contribuire non poco a formarsi un’idea più precisa su un tema così rilevante.

Michele Salvati

            Caro Roberto, grazie per l’attenzione sul Menabò. Piacerebbe anche a me che i rapporti di forza internazionali consentissero una svolta decisa in favore di un ritorno a Bretton Woods, o quantomeno un rallentamento delle tendenze che oggi creano disuguaglianze intollerabili a danno dei ceti medio-bassi dei paesi capitalistici avanzati. Insomma, col cuore sto dalla parte dei Piketty e degli Stiglitz. Ma, anche nei Trenta Gloriosi, dove finiva il mutamento e ci si rassegnava all’adattamento? Non abbiamo visto solo molto dopo che si trattava di vero Grande Mutamento? I “sinistri” di allora, quorum ego, vedevano solo adattamento, ed erano ferocemente contrari. Se si tengono ferme alcune caratteristiche di base del capitalismo e di una polity liberale -come fanno tutti i riformisti e anche Piketty, Stiglitz, Fred Block, la Mazzuccato e Dosi – è difficile tracciare il confine nel caso di vere, Grandi Trasformazioni. A proposito di un “super-adapter”, ma molto intelligente e informato, leggi Iversen e Soskice, un libro che farà discutere come a suo tempo Hall e Soskice, Varieties of Capitalism, di cui è una sequel: Democracy and Prosperity, Princeton University Press.

Roberto Tamborini

            Caro Michele, posso condividere il punto che tracciare la linea di demarcazione tra adattamento a, e mutazione del sistema non sia semplice, soprattutto in tempo reale. Ma questo aspetto può anche essere considerato secondario rispetto alla sostanza del problema, e della critica, che tratto nel mio articolo. La sostanza sta nelle ultime righe: siamo d’accordo o no che oggi la strategia riformatrice debba includere quei temi ed obiettivi (che sono una breve e inadeguata sintesi di tutto quello che stanno dicendo e proponendo gli autori che entrambi studiamo e citiamo)? Ed è vero o no che un programma del genere, o lontanamente simile, non era, e temo non è, quello del riformismo adattivo, o di quel che ne resta? E siccome è vero, qual è la ragione, forse che quei temi ed obiettivi sono al di fuori del perimetro riformatore ove “si tengono ferme alcune caratteristiche di base del capitalismo e di una polity liberale”? Se è così, allora il dissenso non è tra riformismo e massimalismo o populismo, o quant’altro, ma sull’estensione dell’azione riformatrice, che va commisurata con gli obiettivi di equità, giustizia distributiva, sostenibilità e democraticità del sistema che si desiderano raggiungere, e l’entità degli ostacoli che devono essere superati.

            La mia critica della tua narrazione “distopica” è strettamente connessa a quanto sopra. Lasciami dire con franchezza, pari alla mia stima per te e all’angoscia per quel che sta avvenendo, che la spinta a scrivere è stato lo stupore per la costruzione di una realtà virtuale come “cintura di protezione”, o forse cintura di castità, della Weltanschauung adattiva degli anni ’90. Ti ripeto le domande che ti rivolgo nell’articolo: quali sono e dove sono i paesi che tu citi a modello, quali maggioranze politiche, e in quali paesi  dotati “di settori avanzati di successo e una sufficiente crescita del reddito”, hanno programmaticamente impiegato quelle risorse per “alimentare in modo adeguato le istituzioni dello Stato di benessere”? A me pare che la Weltanschauung adattiva degli anni ’90 sia stata esattamente l’opposto: restringere stato e welfare e affidare la società ai settori avanzati di successo e alla loro creazione di reddito. E dove questo adattamento secondo i canoni delle politiche ortodosse ha prodotto una saldatura spontanea e automatica tra successo tecno-economico-finanziario da un lato e benessere e democrazia dall’altro? Dove, i riformisti adattivi sono ancora saldamente in sella? Negli Stati Uniti che ora votano Trump? Nella Gran Bretagna che ora vuole la Brexit per spartirsi le spoglie del welfare solo tra i nativi? Nei paesi scandinavi con le socialdemocrazie ai minimi e le destre nazionaliste ai massimi? Nella Germania della marea nera a Est e la palude grigia a Ovest? La tua narrazione è piuttosto “quel che doveva succedere e non è successo” .

            Condivido un punto di Soskice e Iversen (che fanno un uso temerario dei dati, e molto dei passati successi estrapolano sul presente e futuro):  la risposta giusta non è quella dei regimi autoritari, populisti o anticapitalisti, perché la storia ci insegna che nel lungo periodo la democrazia liberale è la via alla prosperità in quanto, e nella misura in cui, è in grado d’instaurare sinergia e simbiosi col capitalismo avanzato. Ma  il presente è molto lontano da quello stato ideale. Alla luce di questi fatti,  siccome anch’io tengo sommamente alla democrazia liberale, sono convinto che il perimetro riformatore del regime economico sottostante debba essere esteso, e di molto, tanto quanto è necessario per rimettere ordine nelle nostre società e ridare fiducia nelle nostre istituzioni vitali. Non era forse questo il programma di Keynes?

Michele Salvati 

            Caro Roberto, rispondo al tuo punto più critico: che cosa vuol dire “alimentare in modo adeguato le istituzioni dello stato di benessere”? Non vuol certo dire alimentarle come piacerebbe a noi. Ma soltanto innovare, crescere e alimentare (o non comprimere) lo stato di benessere quanto basta per evitare una rivolta populista e mantenere un consenso elettorale sufficiente ad un governo che voglia affrontare la sfida della fase di straordinaria e velocissima innovazione che è di fronte a noi…e che, come singoli paesi, non siamo in grado di rallentare e controllare E se poi questa sfida ci manderà tutti a gambe all’aria, questo non lo so e mi terrorizza. Insomma, un punto di vista simile a quello di Iversen e Soskice, che sto leggendo e mi lascia intrigato e perplesso. Lì trovi anche un elenco dei paesi che secondo loro ce la stanno facendo, e non sono soltanto i soliti piccoli paesi nordici e scandinavi. Se hanno ragione Iversen e Soskice, è assai probabile che l’Italia uscirà dal gruppo di quelle che loro chiamano Democrazie Capitalistiche Avanzate in cui sinora è rimasta nonostante tutto, almeno  secondo gli indicatori che adottano. Siamo troppo confusi politicamente e inefficienti economicamente e istituzionalmente. Quel che Iversen e Soskice disegnano, per te è probabilmente un perfetto esempio si riformismo adattivo. C’è però di peggio di questo riformismo quando, a livello di stati nazionali, non è possibile politicamente un riformismo di sinistra più coraggioso, e il nostro paese lo esemplifica assai bene.

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