Capire e contrastare la povertà in Italia: la fertilità di un approccio strutturale

Elena Granaglia porta l’attenzione su un importante contributo fornito dal recente libro di Chiara Saraceno, David Benassi e Enrica Morlicchio, Poverty in Italy. Features and Drivers in a European Perspective (Policy Press, 2020) ossia sulla necessità di adottare un approccio strutturale al contrasto della povertà. Questa prospettiva richiede di occuparsi dei processi sociali che generano la povertà, prestando attenzione al ruolo del mercato, della ripartizione delle responsabilità fra la collettività e la famiglia, delle divisioni di genere del lavoro e delle norme sociali.

Nel discorso pubblico oggi prevalente sulla povertà e sulle politiche contro la povertà un elemento spicca in modo netto. La povertà è concepita essenzialmente come una questione personale, originata dalla carenza di risorse. Di conseguenza, l’attenzione si concentra sulla definizione e sulla conta dei poveri – coloro che appunto mancano di risorse – nonché su politiche distributive centrate su trasferimenti personali di risorse.

Certo, nel dettaglio, le posizioni variano. Alcuni prediligono una definizione di povertà in termini assoluti, altri in termini relativi e, in entrambi i casi, sono molteplici le specificazioni. Ad esempio, la soglia assoluta può basarsi su panieri diversi di beni (cui sono associati prezzi omogenei oppure differenziati territorialmente); la soglia relativa può basarsi su percentuali diverse di valori medi o mediani e entrambe le soglie possono utilizzare scale di equivalenza diverse. I trasferimenti raccomandati possono essere minimali, come nelle prospettive più liberistiche oppure molto più generosi, anche attraverso trasferimenti di servizi, come nella prospettiva attivante dello Stato sociale.

A prescindere dalle singole posizioni, una visione resta, tuttavia, comune. La povertà concerne la carenza di risorse personali, sia essa ascrivibile a colpa o a sfortuna, e le politiche di contrasto devono fare leva su trasferimenti personali volti a sopperire a tale carenza.

Il libro di Chiara Saraceno, David Benassi e Enrica Morlicchio, Poverty in Italy. Features and Drivers in a European Perspective (Policy Press, 2020) ha il merito di richiamare l’attenzione sulle cause strutturali di povertà, ossia, sui processi sociali che ne sono all’origine. Il mutamento di prospettiva è immediatamente visibile fin dall’incipit del volume: “la povertà è il risultato di modalità di regolazione dei processi sociali che, da un lato, modellano il sistema delle opportunità e degli svantaggi e, dall’altro, costruiscono alcuni gruppi sociali come svantaggiati” (trad. mia). La povertà cessa, dunque, di essere solo un attributo personale. È al contrario frutto di un processo sociale. Il che non significa, ovviamente, che i trasferimenti ai singoli non servano. Dirimente, tuttavia, è porre attenzione ai più complessivi processi sociali che producono povertà nonché al modo in cui i trasferimenti stessi sono regolati.

Si tratta di un contributo importante poiché ignorare le cause strutturali significa sia accettare che la povertà non abbia mai fine sia, di fatto, colpevolizzare ingiustamente chi rimane povero – mettendo così in discussione la comune uguaglianza morale – sia ancora correre il rischio di contribuire, con politiche mal disegnate, all’ostilità stessa nei confronti dei poveri. Il che vale anche per la prospettiva attivante. Se la società ha fatto tutto il possibile per aiutare i poveri e “loro” rimangono poveri non saranno forse responsabili della loro povertà?

Saraceno, Benassi e Morlicchio non si limitano alla generica difesa di un approccio strutturale alla povertà. Se così fosse, potremmo semplicemente tornare al labourismo fabiano e al pensiero dello stesso Beveridge, caratterizzati entrambi da un approccio strutturale alla povertà (peraltro, potremmo aggiungere, l’approccio strutturale è rimasto prevalente fino a quando è stato spazzato via dal neoliberismo). Le autrici e l’autore propongono anche una declinazione innovativa di tale approccio che va oltre la presa in considerazione del ruolo del mercato quale produttore di povertà e include, da un lato, il rapporto fra la sfera della produzione e quella della riproduzione sociale e, dall’altro, il ruolo delle norme sociali.

Al riguardo, Saraceno, Benassi e Morlicchio fanno leva sulla categoria dei “regimi di povertà” intesi come l’insieme di “una specifica combinazione di condizioni del mercato del lavoro, di equilibrio fra responsabilità pubbliche e private (della famiglia) nella protezione dai rischi sociali, di divisione di genere del lavoro all’interno della famiglia e della società e di norme sociali (di genere) e valori culturali” (trad. mia). In posizione intermedia fra le responsabilità collettiva e quelle della famiglia vi sono quelle del terzo settore. Contano, dunque, le configurazioni e le relazioni fra i diversi lati del cosiddetto diamante del welfare.

Le responsabilità pubbliche nella protezione dai rischi sociali vanno poi considerate sotto almeno tre profili. Il primo è quello delle aree di intervento che includono le pensioni; gli ammortizzatori sociali in caso disoccupazione; i trasferimenti monetari per sostenere il costo dei figli e le politiche di assistenza, abbiano esse a che fare con l’erogazione di un reddito minimo o con la cura. Con riferimento alle politiche di assistenza, è rilevante anche il profilo (il secondo) della scelta del peso da attribuire rispettivamente al sostegno al reddito (alla protezione reddituale) e alle politiche attivanti. Infine, vi è il profilo degli schemi di governance delle politiche.

Il regime italiano di povertà si caratterizza, da sempre “per la segmentazione del mercato del lavoro e la differenziazione territoriale nel grado di sviluppo economico; la parallela differenziazione nelle dotazioni di servizi; un welfare che, da un lato, in modo implicito o esplicito fa ancora in gran parte leva sulla solidarietà della famiglia estesa, e, dall’altro, produce una specie di familismo forzato, il quale esaspera la divisione di genere nella famiglia, soprattutto nelle famiglie più povere, spesso monoreddito; e il ruolo importante degli enti di beneficienza e della organizzazioni non governative, ma (di nuovo) con differenze territoriali importanti in termini di incidenza e di capacità di intervento” (trad. mia). Vi sono, poi, le profonde debolezze e frammentazioni nei meccanismi di governance dell’assistenza. Il che ha portato a una concentrazione della povertà nelle famiglie numerose e nel Mezzogiorno dove la domanda di lavoro e i servizi sono più carenti.

A questi tratti costitutivi del regime di povertà italiano sono venuti ad affiancarsi, negli anni recenti, alcune trasformazioni che hanno investito il mercato del lavoro e la famiglia. In breve, il mercato del lavoro è sempre più caratterizzato da bassi salari e impieghi intermittenti e le famiglie sono sempre meno in grado di assicurare protezione dai rischi sociali. L’effetto complessivo è non solo che si aggravano i tradizionali rischi di povertà, ma anche che ne sorgono di nuovi. La povertà si diffonde al Centro-Nord e colpisce anche famiglie poco numerose: il rischio di povertà, ad esempio, aumenta a partire dal primo figlio anche nelle aree del Centro – Nord, penalizza settori rilevanti delle famiglie operaie e colpisce in modo pesante le famiglie con persone che non sono nate nel nostro paese seppure siano in esso regolarmente residenti. I giovani riscontrano, poi, difficoltà sempre maggiori ad uscire dalla famiglia d’origine e a farsene una propria.

Un dato, fra i tanti citati nel libro, mi ha particolarmente colpito. Si tratta della percentuale di disoccupati in povertà assoluta, la quale (secondo l’ISTAT) è cresciuta dal 7% nel 2007 al 27% nel 2018. Un incremento siffatto avrebbe difficilmente potuto verificarsi se le famiglie non avessero incontrato difficoltà crescenti a offrire una rete di sicurezza. Basandomi su Morelli, aggiungo che il tasso di risparmio delle famiglie italiane è sceso dal 16% nel 1995 al 2,5% nel 2018 e, sulla base dell’Indagine campionaria della Banca d’Italia, il 40% circa della popolazione adulta in Italia avrebbe 1000 euro pro-capite di ricchezza liquida (all’interno di questo 40%, ben 10 milioni avrebbero circa 300 euro, sempre di ricchezza liquida)

Il Reddito di cittadinanza ha certamente rappresentato una innovazione che va nella direzione della riduzione dei rischi di povertà. Nonostante i meriti, la misura contiene, però, una presunzione lavoristica – non a caso, la misura è stata presentata come parte delle politiche attive del lavoro –, che è cieca nei confronti esattamente di una delle due modificazioni del regime di povertà appena ricordate, ossia, della presenza di un mercato del lavoro dove molte occupazioni offerte non riescono a proteggere dalla povertà. Al riguardo, il libro ricorda un dato emblematico rilevato da Baldini e Gallo: nel 56% delle famiglie in povertà assoluta con componenti fra i 18 e i 59 anni almeno una persona lavora per il 70-80% del tempo. Esaltare le potenzialità dell’attivazione contribuisce altresì alla persistenza di norme sociali che vedono nei poveri soggetti di seconda classe, parassiti cui il sostegno al reddito dovrebbe essere il più possibile ridotto.

Nel libro c’è molto di più, in primis, una dettagliata ricostruzione dello sviluppo del regime di povertà italiana e un focus sulle povertà urbane. Ci sono, altresì, parti che varrebbe la pena approfondire, ad esempio, come specificare le caratteristiche strutturali dei mercati che potrebbero influenzare la povertà. Il libro si concentra sull’incidenza dei lavoratori poveri. Anche se definiamo i lavoratori poveri in termini di basse retribuzioni (anziché di povertà dovuta ai carichi familiari o altri bisogni), queste ultime appaiono più un esito del funzionamento dei mercati che non una caratteristica strutturale. E, comunque, potrebbe essere utile sapere se esista o no una regolazione del salario minimo (e in quale configurazione), se esistano o no forme di democrazia economica, se esistano o no regolazioni dei rapporti di lavoro nelle piattaforme e più complessivamente quale siano le principali caratteristiche dei contratti di lavoro e degli schemi di governance dell’impresa. Puntare l’attenzione sulle sole dimensioni delle imprese appare, invece, insufficiente: Germania e Italia, ad esempio, hanno entrambe un numero molto elevato di piccole imprese, eppure le loro prestazioni sono molto diverse.

A prescindere da queste ultime osservazioni, il contributo del volume dovrebbe essere evidente, richiamandoci alla necessità di un netto cambiamento di rotta. Dobbiamo smettere di guardare solo ai singoli poveri, qualche che sia l’obiettivo: evitare qualsiasi abuso o disincentivo al lavoro oppure ricercare aiuti più sostanziosi di quelli ai quali oggi molti hanno accesso. Dobbiamo, al contrario, volgere il nostro sguardo alla pluralità di condizioni che sono all’origine della povertà. Lungi dall’ignorare le sorti dei singoli poveri, questo è il modo più giusto e più efficace per prendersene cura e contrastare la povertà.

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