Cambiamento climatico, disuguaglianze e crony capitalism

Maurizio Franzini riflette sui rapporti tra cambiamento climatico e disuguaglianze richiamando l’attenzione sugli effetti di reciproca influenza che esistono tra i due fenomeni. Franzini sottolinea anche il ruolo che le disuguaglianze esistenti possono avere non soltanto nell’ostacolare politiche di contrasto al cambiamento climatico ma anche nel favorire una ripartizione dei loro costi che le aggravi. In questa prospettiva un ostacolo molto serio è la forza del cosiddetto crony capitalism.

Ha ricevuto grande attenzione mediatica l’intenso intervento di Vanessa Nakate, attivista per il clima ugandese di 24 anni, all’apertura dello Youth4Climate a Milano di fronte alla platea di giovani provenienti da tutto il mondo chiamati a avanzare proposte di contrasto al cambiamento climatico in vista di importanti incontri internazionali sul tema, tra i quali spicca il COP26 di Glasgow.

Al di là delle molte ragioni che possono spiegare quella attenzione si può dire che Vanessa, giovane e africana, simboleggia le due dimensioni dell’impatto disegualitario del cambiamento climatico: quella tra generazioni, che ricorre con grandissima frequenza (‘noi danneggiamo l’ambiente e i giovani del futuro ne pagheranno i costi’) e quella all’interno della nostra stessa generazione che, invece, riceve assai meno attenzione.

Le specifiche disuguaglianze intragenerazionali contro cui Vanessa ha levato un grido di dolore sono quelle territoriali. L’ Africa che contribuisce in misura infinitesima alle emissioni globali di CO2 soffre in modo drammatico degli effetti che quelle emissioni producono sul clima, ha detto. E, per converso, vi sono aree e territori che contribuiscono moltissimo alle emissioni globali e sopportano costi (in senso lato) assai contenuti. In effetti l’esame dei dati rivela che le emissioni pro capite in paesi come il Mozambico, il Rwanda e il Malawi sono circa 2000 volte inferiori a quelle di paesi ricchi, in termini di reddito medio, come Stati Uniti, Lussemburgo o Singapore.

Ma l’impatto disegualitario del cambiamento climatico non si manifesta soltanto a livello territoriale. Nello stesso territorio i costi (e anche, per qualcuno, i benefici) del cambiamento climatico possono distribuirsi in maniera assai diversa.

Un problema molto simile si è posto, e si pone, per la pandemia. Si è sostenuto, e soprattutto sperato, che potesse essere una grande livellatrice; ma non lo è stata e non poteva esserlo. Lo stesso può dirsi per il cambiamento climatico. Ma esaminiamo, velocemente, qualche dettaglio riferendoci a ciò che è accaduto e a ciò che potrà accadere.

Il cambiamento climatico provoca l’innalzamento dei livelli dei mari. Chi vive sulla costa sarà maggiormente danneggiato e danni economici molto rilevanti potranno subire i proprietari di case al livello del mare. Chi lavora all’aperto in prossimità di zone inquinate e chi vive in quelle zone corre rischi di salute assai maggiori. Inoltre, secondo uno studio di J. Currie (“Pollution and Infant Mortality”, Child Development Perspectives, 2013), una gravidanza portata avanti in zone inquinate rischia di danneggiare permanentemente il nascituro o la nascitura.

Questi esempi suggeriscono anche che molto spesso le conseguenze negative del cambiamento climatico si scaricano su chi è già più debole economicamente. Non sempre è così – tra i molto danneggiati possono talvolta esservi anche i ricchi – ma assai di freqeunte è così. Sono i più poveri che vivono e lavorano in zone inquinate. E sono i più poveri tra i poveri africani i tragici protagonisti dell’emigrazione per ragioni climatiche. Al riguardo si può ricordare che la Banca Mondiale ha da poco pubblicato uno studio secondo cui oltre 200 milioni di persone potrebbero essere costrette a emigrare per motivi climatici entro il 2050.

Il cambiamento climatico di per sé genera anche degli avvantaggiati, che sarebbero gli omologhi – per fare un esempio – delle piattaforme di e-commerce nel caso della pandemia. Possiamo pensare ai produttori e rivenditori di impianti di condizionamento o anche ai gestori di alberghi in zone ‘fresche’. Ma gli avvantaggiati dalle conseguenze del cambiamento climatico, se ve ne sono, non possono di certo competere con chi si avvantaggia danneggiando l’ambiente e, in particolare, emettendo CO2. E’ banale osservare che se non risultasse privatamente conveniente non si inquinerebbe così tanto, ed è banale ricordare che il problema del cambiamento climatico nasce in larga parte dalla diseguale distribuzione dei benefici e costi delle azioni inquinanti e dei costi (e benefici, se ve ne sono) delle loro conseguenze. Esternalità non corrette, direbbero gli economisti. E si può anteporre l’aggettivo ‘tragiche’ al sostantivo ‘esternalità’.

Uno studio, che non sono in grado di valutare, giunge alla conclusione che 2/3 delle emissioni di CO2 e di metano sono riconducibili a 90 corporations. Sorprendente, forse, ma non troppo. Ben più sorprendente, anzi sconvolgente, è la lunghezza del periodo al qual fa riferimento questa affermazione: più di 150 anni, dalla rivoluzione industriale ai nostri giorni (Heede, R. “Tracing anthropogenic carbon dioxide and methane emissions to fossil fuel and cement producers, 1854–2010”Climatic Change, 2014). Quasi tutte quelle corporations producevano petrolio, gas e carbone. Le poche restanti erano cementifici.

Al di là della fondatezza di questo risultato si può certamente sostenere che i vantaggi economici del danneggiamento dell’ambiente sono molto rilevanti e molto concentrati. E anche questo rileva sotto il profilo delle disuguaglianze. In realtà vi sono buoni motivi per ritenere che i peggiori inquinatori siano i più ricchi e, anche, che i vantaggi economici conseguenti alle azioni inquinanti aiutino a diventare molto ricchi. In breve, tra disuguaglianze e cambiamento climatico possono esservi rapporti che vanno in entrambe le direzioni, come abbiamo già argomentato sul Menabò. Con riferimento specifico al segmento dei più ricchi, si stima che i maggiori inquinatori sono coloro che rientrano nell’1% più ricco dei paesi ricchi (L. Chancel e T. Piketty, ‘Carbon and inequality from Kyoto to Paris,’ Paris School of Economics, 2015) inoltre, con riferimento alla direzione opposta, vi sono segnali che i ‘proprietari’ e i manager delle imprese che inquinano di più si collocano molto in alto nella scala della distribuzione dei redditi (e forse anche della ricchezza). Si può, comunque, aggiungere che su queste relazioni vi è ancora molto da conoscere, ed in particolare sulle loro reciproche interazioni come hanno osservato di recente i molti autori di uno studio sul rapporto tra disuguaglianza e biosfera (M. Hamann et al., “Inequality and the Biosphere”, Annual Review of Environment and Resources, 2018).

Un mondo in cui si perpetua il privilegio di pochi avvantaggiati a fronte dei danni subiti da moltissimi, ha qualcosa, forse più di qualcosa, che non va. Si potrebbe pensare che comunque la somma dei vantaggi ecceda quella dei danni e sentirsi anche moralmente protetti dall’etica utilitarista. Ma non sembra proprio che le cose stiano così. Certo, calcolare accuratamente tutti i costi e benefici, economici e non, è un’impresa titanica. Ma vi è la ragionevole certezza che se tra i costi sociali del carbonio si includono anche quelli connessi alla disuguaglianza all’interno dei paesi, come di recente hanno fatto D. Klenert e M. Fleurbaey “The social cost of carbon and inequality”, VoxEu, 2021) il saldo risulta essere negativo.

Dunque, le disuguaglianze nei benefici e nei costi incidono sulle decisioni assunte, in particolare rispetto all’uso dei combustibili fossili. Buona parte della spiegazione di ciò che osserviamo si rivela al nostro sguardo se concediamo il rilievo che merita all’ipotesi che viviamo un un’epoca di crony capitalism. Si è già avuto modo di far notare come l’enfasi posta sul neo-liberismo come cifra distintiva del presente rischi di oscurare l’importanza che oggi assume il capitalismo clientelare che nell’attività di lobbying – che assorbe ingentissime risorse – ha la sua faccia più presentabile. Come altro si potrebbe spiegare non soltanto la pressoché totale mancanza di restrizioni all’uso di combustibili fossili ma, addirittura, la concessione di sussidi per il loro utilizzo? Come risulta da uno studio del Fondo Monetario Internazionale i governi di molti paesi hanno nel complesso concesso nel 2017 sussidi di questa natura per il 6,8% del PIL. Contribuendo in modo straordinario a peggiorare l’ambiente e, direttamente o indirettamente, le disuguaglianze.

In una fase in cui si moltiplicano gli interventi e le proposte, di giovani e meno giovani, su come contrastare il cambiamento climatico è forse utile tenere ben presente questo punto. Il quale rileva non soltanto per meglio comprendere gli ostacoli che incontra la cosiddetta transizione ecologica ma anche per tenere gli occhi bene aperti su chi sopporterà i suoi eventuali costi. Il tema della distribuzione dei costi di questa transizione, ovviamente anch’esso assai rilevante dal punto di vista delle disuguaglianze, viene spesso menzionato, ma sembra di potere dire che ciò non riguarda tutti i suoi aspetti. Una domanda di fondo è la seguente: i costi della trasformazione produttiva – che potranno essere rilevanti prima che si materializzino benefici per tutti – incideranno sui salari, sul potere d’acquisto dei consumatori o suoi profitti? Considerando l’impatto oltre che sull’ambiente anche sulla disuguaglianza – perché il cambiamento climatico può aggravare la disuguaglianza sia se procede indisturbato sia se si cerca di frenarlo – appare auspicabile che quei costi incidano soprattutto sui profitti. Ma occorre chiedersi come si possono far ricadere i costi della transizione soprattutto sui profitti.

Nella risposta non può non assumere rilievo lo strumento con il quale si ritiene di assicurare quella trasformazione. Se si trattasse soltanto di tasse ambientali o di permessi negoziabili si avrebbero fondate ragioni per temere che non saranno i profitti a soffrirne. I costi che quegli strumenti determinano possono facilmente essere trasferiti sui consumatori e anche sui lavoratori. Peraltro, come osserva K. Pistor (“The Myth of Green Capitalism”, Project Syndicate, 2021) in vigenza del principio dello shareholder value, cioè della massimizzazione del valore per gli azionisti, è più che legittimo cercare di sottrarre i profitti al rischio di una decurtazione. Naturalmente a meno che gli azionisti non considerino l’ambiente un valore comparabile a quello del danaro; un’eventualità assai improbabile soprattutto in un epoca figlia dell’idea che ‘greed is good’, che l’avidità fa bene, alla quale gli economisti hanno contribuito in modo assai efficace (sul tema si può vedere M. Franzini, “L’homo economicus e le sue conseguenze: le indulgenze degli economisti”, Meridiana n. 100, 2021).

 Dunque, solo se ‘costretti’ dall’esterno i manager potrebbero prestare un’attenzione crescente ed adeguata all’ambiente. E a costringerli dovrebbero intervenire norme rigide, quelle che nella competente letteratura si chiamano misure di ‘comando e controllo’, dove la parola controllo ha un peso molto rilevante. Ma è possibile tutto questo nel crony capitalism se prima non smette di essere troppo crony?

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