Cambiamenti tecnologici e del lavoro nei principali paesi UE

Sergio De Nardis e Francesca Parente analizzano l’influenza delle innovazioni tecnologiche sulla domanda di lavoro in Francia, Germania, Italia e Spagna, mostrando il ruolo che a partire dagli anni ‘80 hanno avuto le dinamiche della produttività e gli effetti che ne sono derivati di compressione della quota dei salari. Rilevante, soprattutto in Italia, è stata anche la riduzione delle mansioni ad alta intensità di lavoro non bilanciata dalla creazione di nuovi task, soprattutto nel basso terziario.

Il dibattito sugli effetti del progresso tecnologico su salari e occupazione è antico tanto quanto la scienza economica stessa. I primi dubbi sugli impatti negativi della meccanizzazione per i lavoratori risalgono infatti ai tempi di Ricardo e Marx. Sono stati poi ripresi da Keynes e Leontief, che sottolineano il pericolo di “disoccupazione tecnologica” derivante dall’introduzione di innovazioni che permettono di automatizzare alcune fasi del processo di produzione e quindi di sostituire il capitale al lavoro. A questi rischi per i lavoratori sono stati contrapposti, sin dall’inizio della discussione, i vantaggi derivanti dall’aumento della produttività e dalla creazione di nuove opportunità di lavoro connesse allo stimolo che ne deriva per la domanda dei (vecchi e nuovi) beni prodotti.

La recente ondata di nuove tecnologie dell’automazione, in concomitanza con diffusi fenomeni di deterioramento del mercato del lavoro accentuatisi con la pandemia da Covid-19, ha dato nuova linfa a questo antico dibattito. Si è intensificata la diatriba tra coloro che giudicano l’attuale fase di automazione come di natura totalmente diversa dalle precedenti, e dunque foriera di disoccupazione di massa e crollo del livello dei salari, e coloro che, invece, non riscontrano sostanziali differenze rispetto alle precedenti rivoluzioni tecnologiche e perciò prevedono un effetto finale di aumento della domanda, con esiti positivi sui livelli sia dei salari, sia dell’occupazione.

Con il revival di questo dibattito si è avuto anche un profondo cambiamento del modo stesso di interpretare l’influenza del cambiamento tecnologico su produttività e domanda di lavoro. Si è passati da una modellizzazione standard, che ne inquadrava l’impatto o sul singolo input “effettivo” (factor-augmenting technological change) o sull’output di una data combinazione di fattori produttivi (Hicks-neutral technical change),e che sostanzialmente si limitava a quantificare gli effetti negativi in base all’elasticità di sostituzione tra capitale e lavoro, ad una visione del processo produttivo come combinazione di singoli task che possono essere allocati al lavoro o al capitale. In tale approccio l’automazione, sostituendo il capitale al lavoro umano – in task precedentemente intensivi di lavoro – conduce invariabilmente alla compressione della quota dei salari. L’effetto ultimo sulla domanda di lavoro dipende dall’intensità del miglioramento di produttività derivante dall’automazione nonché dalla quota di nuovi task, conseguenti al mutamento tecnologico, nei quali il lavoro umano ha un vantaggio comparato rispetto al capitale. Quest’ultimo fenomeno, oltre a impattare positivamente sulla produttività, sostiene la quota dei salari sul valore aggiunto. In definitiva l’effetto della tecnologia sulla domanda di lavoro dipende dal bilanciamento tra forze diverse (produttività, sostituzione del lavoro e sua reintegrazione): se prevarranno quelle positive o quelle negative dipende da specifiche condizioni che possono mutare nel tempo e da paese a paese.

Facendo riferimento al framework proposto nel 2019 da Acemoglu e Restrepo, abbiamo applicato il modello di scomposizione della domanda di lavoro da loro elaborato per mettere in luce i diversi effetti del cambiamento tecnologico. Nello studio originale riferito agli USA, Acemoglu e Restrepo trovano che sia il monte salari (utilizzato come proxy della domanda di lavoro) sia la quota del lavoro sono stati influenzati negativamente, a partire dagli anni 90, dalla contrazione del contenuto di lavoro dei task produttivi. Ciò è imputabile alla più intensa introduzione di tecnologie che sostituiscono il lavoro rispetto a quelle che lo reintegrano.

Nell’applicazione al caso europeo che ne proponiamo, abbiamo riscontrato che, seppure con un ordine di grandezza più contenuto e con rilevanti specificità nazionali, un effetto negativo ai danni dei lavoratori si è verificato anche in Francia, Germania, Italia e Spagna, soprattutto negli ultimi 30 anni. La decelerazione osservata nel trend della domanda di lavoro (approssimata come in Acemoglu-Restrepo dal monte salari) è stata guidata principalmente dal rallentamento della produttività. Tuttavia ha svolto un ruolo anche la compressione della quota dei salari, sulla quale ha inciso la diminuzione dei task intensivi di lavoro indotta da effetti di spiazzamento non sufficientemente compensata dalla reintegrazione del lavoro attraverso la creazione di nuovi task.

Nel modello interpretativo adottato, quando nuove tecnologie vengono introdotte nel processo produttivo, gli effetti (diretti o indiretti) che si generano sulla domanda di lavoro possono dipendere da tre classi distinte di cambiamento tecnologico. Prima di tutto l’automazione, che genera un aumento di valore aggiunto tramite un effetto positivo sulla produttività, ma anche un effetto di spiazzamento ai danni del lavoro: aumenta l’output totale, ma il lavoro ne rappresenta una quota minore (in particolare l’impulso alla domanda di lavoro può essere inferiore all’impatto depressivo sulla stessa nel caso di innovazioni di portata limitata, ossia le cosiddette so-so technologies che aumentano la produttività solo di poco a fronte di uno spiazzamento di lavoro elevato). Poi ci sono i nuovi task creati, che generano a loro volta un effetto produttività, ma allo stesso tempo reintegrano il lavoro, sostenendo la labor share. Infine le factor augmenting technologies, che oltre ad un effetto di produttività danno luogo a un effetto sostituzione, perché non intervengono sul singolo task produttivo, ma influenzano trasversalmente tutti i task svolti (o con lavoro o con capitale), generando una sostituzione rispetto al fattore produttivo di cui riducono l’utilizzo. L’adozione di una prospettiva multisettoriale permette di tenere conto dell’impatto sui diversi settori produttivi. Inoltre, differenziandoci dal framework originale, consideriamo la possibilità di concorrenza imperfetta nel mercato dei prodotti e perciò introduciamo un fattore di markup tra le componenti ricavabili con l’esercizio di scomposizione del monte salari.

Utilizzando dati di fonte EU KLEMS per il periodo 1970-2017, vediamo come un effetto di spiazzamento dei lavoratori ad opera delle nuove tecnologie introdotte nei processi produttivi era già in atto all’inizio del periodo analizzato, ma l’impatto negativo era più che compensato – o, almeno, limitato – dalle altre componenti. Successivamente – in Francia e Spagna già dagli anni 80, in Italia e Germania intorno ai primi anni 90 – quell’effetto si è fatto più consistente procedendo ad un ritmo superiore a quello della creazione di nuovo lavoro, che pure è cresciuto in molti paesi. Dall’analisi emerge che questo maggior displacement del lavoro è spiegato quasi interamente dall’espansione del cambiamento nel contenuto dei task produttivi. Ci sono poi alcune peculiarità proprie di ogni paese, che differenziano gli andamenti a livello nazionale e che si spiegano in parte con il diverso andamento dei prezzi dei fattori produttivi e con specificità di tipo istituzionale.

Troviamo poi che la sostituzione dei task ad alta intensità di lavoro ha riguardato in misura maggiore i servizi a basso valore aggiunto, diversamente da quanto emerge per gli USA, dove il settore maggiormente esposto allo spiazzamento da automazione è quello manifatturiero. Allo stesso tempo, è proprio il basso terziario il comparto che mostra il contributo maggiore alla creazione di nuovo lavoro, in particolar modo in Italia.

Gli effetti stimati , oltre che dalle ipotesi sottostanti alle relazioni tra le componenti stesse del modello di scomposizione (produttività, sostituzione tra capitale e lavoro, composizione settoriale del valore aggiunto, markup di prezzo), dipendono da una molteplicità di fattori che abbiamo cercato di cogliere con un’analisi econometrica. In particolare, l’analisi si è focalizzata sullo spiazzamento del lavoro e si è controllato per fattori ulteriori che possono aver influito sulle dinamiche osservate, come ad esempio il tipo di task colpito dai cambiamenti o di tecnologia introdotta, le differenti capacità innovative delle imprese o le scelte di policy e gli interventi di welfare nazionale. Abbiamo quindi considerato tre dimensioni: il cambiamento tecnologico (utilizzando dati sugli investimenti di capitale in hardware e software ed insieme a questi, alternativamente, statistiche sulla penetrazione settoriale dei robot o sulla percentuale di jobs a rischio di automazione), l’internazionalizzazione (misurata sia con il peso dei beni intermedi che con le import dalla Cina) e il contesto istituzionale (con la partecipazione sindacale e con una dummy paese che vale 1 nel caso della Spagna – il paese con le caratteristiche più peculiari tra i quattro analizzati). Otteniamo che il displacement del lavoro appare più forte all’aumentare delle variabili usate per identificare la sfera tecnologica, al netto degli effetti di forze comunque importanti come quelle rappresentate dalle altre due dimensioni incluse nell’analisi.

Al variare delle specificazioni del modello stimato, la direzione della relazione tra automazione e spiazzamento è sempre confermata, ma emerge un ruolo particolarmente significativo degli investimenti in componenti software. Per quanto riguarda l’effetto della globalizzazione si riscontra come l’internazionalizzazione delle reti produttive abbia avuto un impatto più rilevante del solo aumento della competizione sui mercati esteri. Infine, diversamente da quanto è emerso da analisi simili su dati USA, il fenomeno analizzato non risulta prettamente legato al manifatturiero, ma riguarda piuttosto i servizi.

Tali evidenze, nell’insieme, portano a sottolineare che ciò che conta per la dinamica del monte salari e la quota del lavoro non è solo l’intensità degli effetti di spiazzamento indotti dalla tecnologia, ma anche la tipologia dei settori in cui hanno luogo i fenomeni di reintegrazione del lavoro. Le specificità settoriali sono rilevanti anche per la spinta alla produttività ottenibile dall’automazione. I guadagni di efficienza sono, infatti, proporzionali ai risparmi di costo ottenibili sostituendo lavoro umano con automazione, e tali risparmi sono limitati quando la sostituzione si verifica nelle attività caratterizzate da bassi salari, quali quelle del basso terziario. Se poi tali settori sono anche quelli che, come nel caso italiano, contribuiscono in misura maggiore alla reintegrazione di lavoro, la crescita della produttività sarà contenuta a causa non soltanto del basso contributo dei fenomeni di sostituzione, ma anche delle limitate possibilità di miglioramento dei livelli di efficienza permesse dai nuovi task lavorativi.

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