Cambiamenti climatici e migrazioni

Un approccio sconsiderato alla natura da parte dell’uomo è sempre esistito. Quello che risulta nuovo ai nostri giorni è la dimensione universale che il problema ha assunto in conseguenza dell’espansione tecnologica. L’uomo ha così sviluppato una mentalità sulla base della quale pretende di esercitare un dominio assoluto sulla natura. La brutalità del cambiamento del nostro clima è visibile anche in relazione al tema delle migrazioni di popolazione a causa di cambiamenti climatici.

Le migrazioni forzate per ragioni climatiche non sono una novità dei nostri tempi. Fin dall’antichità popolazioni intere si sono spostate da uno spazio all’altro per ragioni legate al clima. Tuttavia, sebbene i problemi climatici sono stati una delle ragioni principali per le prime migrazioni delle società antiche (si pensi all’Egitto o alla Mesopotamia), è altrettanto vero che queste comunità si trasferirono in cerca di migliori condizioni di vita più che per ragioni esclusivamente ambientali.
Ai nostri giorni, degrado ambientale e cambiamenti climatici si stanno convertendo in cause strutturali per la migrazione (e secondo molti esperti lo saranno sempre di più nel futuro).
Molti studiosi della materia sostengono che alcune parti del pianeta diverranno veri e propri “punti di espulsione” a causa dei cambiamenti climatici, originando trasferimenti di popolazione a causa della carenza di cibo e acqua, con inondazioni e tempeste che, come è già ampiamente visibile, aumenteranno in frequenza e gravità.

“Profughi del clima”, “rifugiati climatici”, “migranti climatici”, etc. In questo contesto anche la terminologia da adottare assume una fondamentale importanza. Il termine che verrà utilizzato per descrivere coloro che saranno costretti a spostamenti a causa di cambiamenti nel clima, avrà concrete ripercussioni sul diritto internazionale e sui conseguenti impegni da parte della Comunità internazionale. Tuttavia, la realtà è che allo stato attuale non c’è nessuna definizione internazionale accreditata per definire le persone che si spostano a causa di fattori ambientali.

L’Organizzazione Internazionale dei Migranti (OIM) suggerisce la seguente definizione: “Un migrante per cause ambientali è la persona o gruppo di persone che sono costrette a lasciare le loro case o decidono di farlo volontariamente a causa dei cambiamenti ambientali inevitabili, improvvisi o progressivi”. D’altra parte, per il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), migranti ambientali sono quegli individui che sono costretti ad abbandonare il loro habitat tradizionale, temporaneamente o permanentemente, a causa di un disturbo ambientale, sia se si tratti di un pericolo naturale come siccità, inondazioni o uragani, sia che si tratti di disturbi provocati da attività umane come i progetti industriali che diventano un pericolo per la salute e la sicurezza.

Secondo analisi del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), la maggior parte delle persone che emigrano a causa di questioni climatiche lo fanno spesso all’interno dei loro paesi. Questi migranti (che sono più numerosi dei rifugiati a causa di ragioni politiche o della guerra) si trovano in una sorta di limbo legale e concettuale, e non sono spesso visibili per quelle organizzazioni internazionali responsabili di raccogliere informazioni sul loro numero, sulla loro posizione o relativamente alla garanzia dei loro diritti umani.

A parere dell’OIM, ci sono stati almeno 25 milioni di sfollati e profughi ambientali nel 1995,  diventati 50 milioni nel 2010 e la stima del numero di persone che potrebbero essere a rischio è di 250 milioni per l’anno 2050 (altri studi stimano 700 milioni!). Numeri inquietanti, non c’è dubbio. È da osservare, inoltre, che si rafforza la cosiddetta “femminilizzazione” del fenomeno, in altre parole sempre più donne in fuga (rapporto donne-uomini è 3-1), e si conferma la media stimata in 6 milioni di donne e uomini costretti ogni anno a lasciare i propri territori.

Fattori determinanti per la migrazione ambientale sono la vulnerabilità, l’esposizione ai rischi e la capacità di ripresa. In questo senso è facilmente immaginabile una risposta diversa fra paesi del “nord” e del “sud” del mondo. Le stime dell’UNEP, infatti, ci dicono che le aree più interessate saranno l’Africa sub-sahariana, ma anche l’Asia, il golfo del Bengala e l’America centrale, nelle aree già aride. Più in dettaglio, è possibile già individuare delle popolazioni che a causa dei cambiamenti climatici dovranno nei prossimi decenni abbandonare le loro terre. Principalmente si tratta di popoli collocati nelle isole dell’Oceano Pacifico. Dal 2003, in Papua Nuova Guinea, le centinaia di abitanti delle isole Carteret sono costrette all’evacuazione, che potrebbe completarsi già alla fine di questo decennio, a causa del progressivo innalzamento delle acque oceaniche e a cui è stato riconosciuto il primato di essere i primi effettivi profughi ambientali a causa del riscaldamento globale. Sempre nel Pacifico, poi, i duemila abitanti dell’Isola di Ontong Java rischiano di vedere inghiottite dal mare le loro terre entro i prossimi anni. In quest’isola già da diversi anni sono ingenti i danni causati dall’intrusione dell’acqua salata che ha devastato le coltivazioni. Ma anche nelle isole Maldive, come nel resto del mondo, l’allarme ambientale sta facendo breccia al punto che nel 1990 si sono riunite nell’AOSIS (Alliance of Small Island States – http://aosis.info/) più di quaranta stati insulari appartenenti a Africa, Caraibi, Oceano Indiano, Mediterraneo, Pacifico e Mar Cinese Meridionale.

Tutto questo è già una realtà. Se il riscaldamento globale determina scarsità d’acqua, se intensifica il processo di desertificazione, se si procede alla distruzione delle foreste, se si determina un innalzamento delle acque dei mari, se i disastri naturali continuano a  moltiplicarsi, diviene logica conseguenza che, soprattutto le regioni più vulnerabili sia dal punto di vista geografico che politico-economico, siano maggiormente esposte ai pericolosi effetti del cambiamento climatico. Le popolazioni del “sud del mondo” saranno così vittime inconsapevoli a causa di quei “mali”, come le emissioni e i modelli di consumi irresponsabili, cui loro hanno contribuito soltanto in maniera marginale. A questo proposito si osservi che, secondo un rapporto pubblicato pochi anni fa dal Global Humanitarian Forum di Ginevra (organizzazione internazionale no-profit che nel 2010 ha cessato le sue attività per mancanza di fondi a causa della crisi economica), le venti nazioni più colpite dai cambiamenti climatici sono responsabili del 1% del totale delle emissioni mondiali e si calcola che il 98% delle persone colpite dai cambiamenti climatici, il 99% di tutte le morti e più del 90% delle perdite economiche sono sopportate dai Paesi in via di sviluppo.

Le cause che generano le migrazioni forzate, dunque, possono ostacolare lo sviluppo dei popoli in diversi modi. Secondo l’OIM, alcuni esempi possono essere l’aumento della pressione sui servizi e le infrastrutture urbane, che mina la crescita economica, aumenta il rischio di conflitti e, anche tra gli stessi migranti, porta al deterioramento delle condizioni sanitarie, educative e sociali.
È verosimile che una delle peggiori conseguenze di questi massivi e forzati spostamenti umani sarà il collasso delle città. Decine di milioni di persone, infatti, potrebbero trovarsi a vivere in quartieri disagiati, in case inadeguate, con scarse risorse idriche e con pessimi servizi sanitari ed educativi. Indebolimento delle prestazioni sanitarie e dei programmi di vaccinazione poi, potrebbero rendere difficile il trattamento di malattie con conseguente aumento della mortalità.
Un ulteriore aspetto negativo deriverebbe dal fatto che per molte comunità del “sud del mondo” spostarsi significa perdere il collegamento con le proprie tradizioni ed essere costretti ad adottare stili di vita completamente diversi da quelle dei propri antenati.
Allo stesso tempo, ulteriori effetti di queste migrazioni forzate potrebbero essere: la disorganizzazione dei sistemi e l’indebolimento del mercato interno. La perdita di “capitale umano” sotto forma di forza lavoro. Tutto ciò può contribuire a limitare le opportunità economiche che a loro volta causerebbero ulteriori migrazioni. Lo spostamento di intere comunità su larga scala potrebbero ridisegnare la mappa etnica di molti paesi, accorciando la distanza tra i gruppi che vivevano separatamente e che potrebbero trovarsi a lottare per le stesse risorse.
Se i conflitti interni si esaspereranno, gli effetti arriveranno lontano, fino ad interessare anche i paesi più ricchi. Uno scenario estremamente serio in cui le società colpite maggiormente dai cambiamenti ambientali potrebbero trovarsi coinvolte all’interno di una spirale negativa di degrado ecologico, che le trascina in basso, dove scompaiono reti di sicurezza sociali, mentre violenza e tensioni aumentano.
In realtà, nonostante le numerose previsioni, nessuno allo stato attuale può chiaramente indicare gli effetti e le conseguenze, nella loro concezione più vasta, che su scala globale un fenomeno in così rapida evoluzione potrà avere. Riguardo alle conseguenze economiche, nell’ottobre 2006, il mondo è stato scosso da un Rapporto commissionato dal Governo inglese il quale sostiene che se si persevera sulla strada fino ad oggi intrapresa i mutamenti climatici potranno provocare una crisi, in termini economici, pari se non peggiore a quella della Grande Depressione.

Come è evidente, dunque, i mutamenti climatici provocano già spostamenti della popolazione e nei prossimi decenni vi sono a rischio intere comunità. Pensare che tutto ciò riguardi solo i paesi più poveri è un’illusione: le ripercussioni, come è stato detto, si faranno sentire per tutti su scala globale.
Oltre a consistenti investimenti per i paesi più a rischio, ed un approccio pratico alla preparazione di sistemi specifici per affrontare meglio i disastri naturali, la Comunità internazionale dovrà inoltre cercare un accordo su come trovare una sistemazione per le popolazioni coinvolte da questi fenomeni. In questo senso l’OIM rappresenta una importante realtà essendo la principale agenzia migratoria del mondo. Questa, oltre a garantire un aggiornamento sulle questioni che determineranno i flussi migratori negli anni a venire e ad incoraggiare un approccio ampio e completo alla mobilità umana, dovrà assistere i governi negli interventi operativi per affrontare con determinazione e capacità di gestione le sfide dei cambiamenti climatici.
Alla prossima Conferenza sul clima delle Nazioni Unite, che si aprirà nel dicembre 2011 a Durban, in Sudafrica, i delegati dovranno trovare lo spazio per affrontare anche questo importante tema dando risposte concrete ad intere comunità. Tuttavia, è facile prevedere che anche la Conferenza dovrà fare i conti con la nuova crisi economica che colpisce in maniera particolare i bilanci dei Paesi più ricchi. Se questo accadrà, il costo più alto lo dovranno pagare ancora una volta le popolazioni del “sud del mondo” già duramente colpite, loro malgrado, dai cambiamenti climatici.

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