Big Tech: piccole piattaforme crescono?

Andrea Pezzoli osserva che mentre le Big Tech, più spesso che in passato, sovrappongono il loro raggio di azione e almeno negli Stati Uniti, il settore digitale sembra avviarsi verso una fase oligopolistica, le autorità antitrust, su entrambi i lati dell’Oceano, si interrogano su come adeguare la loro strumentazione per fronteggiare il potere delle grandi piattaforme. Pezzoli sottolinea l’importanza di disegnare con attenzione il nuovo quadro regolatorio per evitare che si riveli inefficace o, peggio, scoraggi l’innovazione.

Dal monopolio all’oligopolio? Non è infrequente nei numerosissimi (forse troppi) convegni su antitrust e sfida digitale vedersi riproporre la slide dove si evidenziano gli oltre 8 miliardi di euro di sanzioni irrogati a Google dalla Commissione Europea negli ultimi 6 anni interrogandosi sui motivi per i quali, anche a fronte di sanzioni così importanti, all’orizzonte non si veda nessuna nuova piattaforma in grado di competere e la struttura dei così detti mercati digitali risulti di fatto immutata da oltre un decennio. Eppure stiamo parlando di settori innovativi, dinamici il cui assetto dovrebbe cambiare in continuazione. Ma i giganti della rete, ormai tutti più che maggiorenni (con l’eccezione di Facebook che ha compiuto “solo” 17 anni nel 2021) non sembrano messi in discussione da nessun nuovo sfidante.

Tuttavia, nel numero dello scorso 27 febbraio, l’Economist ci dice che qualcosa si muove. Almeno oltre Oceano il settore digitale (qualunque cosa significhi) sembrerebbe avviarsi verso una nuova fase, una fase oligopolistica dove il secondo e il terzo operatore esercitano una qualche pressione concorrenziale nei confronti dell’incumbent.

Le grandi piattaforme, che per almeno un decennio, si son guardate bene dal competere tra loro, si stanno gradualmente allontanando dal loro core-business per diversificarsi, cogliere le opportunità offerte dalla tecnologia e mettersi al riparo da una regolazione e una disciplina antitrust più minacciose in Europa, negli Stati Uniti e, persino, in Cina. Il risultato è che più spesso che in passato finiscono per operare (non necessariamente competendo) negli stessi mercati. Dal 2015 ad oggi la percentuale di fatturato in sovrapposizione con gli altri tre delle Big Tech sarebbe aumentata dal 22 al 38%. Amazon sta crescendo nella raccolta pubblicitaria on-line; Apple e Google competono con Amazon per i servizi di cloud; Facebook sta entrando nell’e-commerce; Microsoft mostra interesse per i social media e, con un occhio ai motori di ricerca, provoca Google sostenendo l’opportunità di replicare con gli editori europei l’accordo imposto dalle autorità australiane a Facebook e Google; Huawei sembra proporsi (almeno in Cina) come possibile alternativa al duopolio Android-IOS nei sistemi operativi.

A ciò si aggiunga la crescita particolarmente veloce di soggetti più o meno nuovi in alcuni mercati: Disney in meno di due anni ha raggiunto oltre 95 milioni di abbonati nei servizi di streaming, più del 10% dell’e-commerce degli Stati Uniti è detenuto dalla piattaforma canadese Shopify, e la crescita delle vendite online di Wallmart durante la pandemia è stata decisamente sostenuta.

Tuttavia non c’è da emozionarsi più di tanto, giacché stiamo parlando di un passaggio da monopoli a oligopoli, peraltro piuttosto ristretti e non necessariamente competitivi. La regola aurea “cane non morde cane” potrebbe rapidamente prevalere e per le autorità antitrust sarà allora necessario arricchire le preoccupazioni “digitali” per gli abusi di posizione dominante con quelle, altrettanto insidiose, per le condotte collusive.

Non ci si può nascondere, però, che almeno in astratto un oligopolio con potenziali rivali è meglio (quanto meno, meno peggio) di un monopolio. L’eventualità che gli attuali assetti di potere (non solo di mercato) possano essere messi in discussione potrebbe sembrare oggi meno improbabile.

Dall’antitrust alla regolazione? E’ allora lecito chiedersi se a questi cambiamenti abbia contribuito e in che misura il mutato clima culturale che si percepisce da entrambi i lati dell’Oceano.

E’ indubbio che l’atteggiamento delle autorità antitrust nei confronti delle grandi piattaforme digitali sia radicalmente mutato nel corso degli ultimi anni. Spesso anche in ragione di preoccupazioni estranee all’ambito strettamente concorrenziale, legate alla protezione della privacy, ai rischi per il pluralismo e per la stessa tenuta democratica.

Soprattutto in Europa da almeno 3 anni si è iniziato a parlare di under-enforcement, e dell’esigenza di intervenire rapidamente prima che il potere di mercato delle Big Tech diventasse troppo grande per poter essere tenuto a freno. Con il rischio di reagire anche prima di avere compreso le complessità del settore digitale. In particolare in tema di concentrazioni si è ravvisata la necessità di guardare alle operazioni “conglomerali” con più attenzione al lungo periodo. Oggi è lecito sostenere, ad esempio, che la valutazione dell’acquisizione di WhatsApp da parte di Facebook avrebbe potuto essere più severa. Poi sono arrivate le già citate sanzioni nei confronti di Google. Infine, il dibattito è virato sull’opportunità di arricchire la strumentazione antitrust con interventi ex ante. Ed eccoci ai giorni nostri e alla discussione in corso sul Digital Market Act (DMA), all’ipotesi del Governo inglese di creare un’unità specializzata nell’ambito della Competition and Market Authority per l’applicazione di un nuovo codice di condotta digitale e alla riforma della legge antitrust tedesca approvata all’inizio di quest’anno.

Negli Stati Uniti il clima è iniziato a mutare nell’ultima fase della Presidenza Trump. Già lo scorso autunno, il Rapporto del Congresso degli Stati Uniti a conclusione dell’Indagine sui mercati digitali esplicita la necessità di misure più incisive fino a ipotizzare separazioni strutturali (i cosiddetti break out). Negli Stati Uniti, più che altrove, si è registrata la progressiva affermazione di una visione dell’antitrust più attenta alla struttura dei mercati che alle condotte e ai loro effetti, alle dimensioni delle piattaforme digitali e al potere che ne può derivare; una visione riassunta nel bel libro di Tim Wu, The Curse of Bigness (Columbia Global Reports, 2018). Tim Wu è stato da poco nominato consigliere di Biden e un’altra rappresentante della rilettura neo-brandesiana dell’antitrust, Lina Kahn autrice del famoso saggio Amazon’s Antitrust Paradox (Yale Law Journal, vol. 126, n. 3, 2017), poco più che trentenne, è tra i candidati più accreditati a essere nominata componente della Federal Trade Commission (una delle due autorità antitrust statunitensi).

Oggi dunque la necessità di adeguare e arricchire la strumentazione a disposizione delle autorità antitrust per meglio fronteggiare il potere delle grandi piattaforme digitali appare ampiamente condivisa.

C’è un consenso piuttosto diffuso anche sull’opportunità di dotare le autorità antitrust di poteri quasi-regolamentari che le mettano in condizione di intervenire ex ante e tempestivamente nei confronti di quelle piattaforme con caratteristiche tali da essere indispensabili per l’accesso al mercato, quelle piattaforme che possono essere definite gatekeeper. In questo senso, la discussione sul se avvalersi di misure ex ante, se contaminare la “purezza” dell’antitrust con la regolazione appare obsoleta, fuori tempo. Più interessante sembra interrogarsi su come il processo, almeno in Europa, sta prendendo corpo.

La recente riforma della disciplina antitrust tedesca, rimanendo legata per quanto possibile a una logica antitrust, introduce la possibilità di regole ex ante (più correttamente, presunzioni) da applicarsi solo a soggetti dotati di uno speciale potere di mercato, derivante da un insieme di fattori: la dimensione, gli effetti di rete, la disponibilità di big data, la capacità finanziaria, l’integrazione verticale e la natura del business. Nei confronti di piattaforme con queste caratteristiche, soprattutto al fine di prevenire l’espansione abusiva in mercati non dominati (quella che in gergo antitrust si chiama tipping) è possibile per il Bundeskartellamt attivare i propri poteri senza dover dimostrare la restrittività delle condotte.

In questo contesto la nuova legge presume abusive le condotte volte a; i) ostacolare i concorrenti su mercati nei quali l’impresa potrebbe rapidamente espandere la dominanza; ii) creare barriere all’ingresso sfruttando la raccolta di dati effettuata su un mercato dove l’impresa non è dominante; iii) limitare l’interoperabilità dei prodotti o iv) la portabilità dei dati; v) favorire i propri prodotti rispetto a quelli dei concorrenti (il così detto self-preferencing). La presunzione di illiceità può tuttavia essere confutata in presenza di giustificazioni oggettive. L’assertività delle presunzioni trova un suo contrappeso e l’analisi economica non viene ignorata.

Il DMA si muove, invece, in una logica più esplicitamente regolatoria, presentando peraltro non trascurabili problemi di coordinamento con la disciplina antitrust e con l’attività delle autorità nazionali.

La stessa Margrethe Vestager ha di recente paragonato il DMA a un filtro posto a monte di un fiume per intercettare i rifiuti, lasciando alla disciplina antitrust, applicata sia dalla Commissione che dalle autorità nazionali, il compito di intervenire sui “rifiuti” non filtrati. Non risulta chiaro, invece, cosa accada per quelle condotte alle quali si rivolge il “filtro” a monte.

Da un lato, infatti, il perimetro di applicazione delle regole del DMA (obblighi e divieti, un ibrido tra regolazione e antitrust) apparentemente circoscritto a piattaforme più che dominanti, i così detti gatekeeper, potrebbe in realtà risultare assai più ampio e includere discrezionalmente anche piattaforme meno grandi. Dall’altro, la lunga lista di obblighi e divieti si caratterizza sia per un’eccessiva specificità, sia per un’inevitabile incompletezza, laddove è sostanzialmente il risultato delle esperienze maturate nell’ambito dei casi fin qui istruiti dalla Commissione. Gli obblighi di comportamento per i gatekeeper potrebbero essere più efficacemente ricondotti a principi generali. Per esempio, l’obbligo di garantire la contendibilità dei mercati, di esercitare il potere di intermediazione in modo equo e di non ostacolare l’indipendenza delle decisioni degli altri soggetti (cfr, R. Podszun et al., 2021), Proposals on how to improve the DMA, Heinrich Heine University Dusseldorf). Diversamente da quanto previsto dalla legge tedesca, poi, il DMA non lascia spazio per giustificazioni fondate sull’analisi economica e anche il meccanismo di adeguamento delle regole al mutare del contesto non appare sintonizzato con la velocità dei cambiamenti del settore digitale.

Si può pertanto affermare che in Europa il processo di arricchimento della strumentazione antitrust e di definizione di un quadro regolatorio più appropriato per fronteggiare il potere delle grandi piattaforme digitali è in pieno sviluppo. Sicuramente ce n’è bisogno. Forse procede fin troppo rapidamente. In questa prospettiva, il suggerimento di Frederic Jenny – di imparare a camminare, prima di correre – va tenuto in seria considerazione (F. Jenny, 2021), Competition law and digital ecosystems: learning to walk before we run, working paper). Soprattutto se si vuole che i timidi segnali “oligopolistici” che si intravedono oltre Oceano possano replicarsi virtuosamente anche in Europa, senza che un quadro regolatorio disegnato affrettatamente si riveli inefficace o, peggio, finisca per scoraggiare concorrenza e innovazione. Facendo riemergere quel dubbio di fondo per il quale tra le ragioni alla base della scarsità di piattaforme di successo e di start up europee ci sia anche la propensione a una regolazione orientata più alla protezione che all’innovazione.

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