Big tech e antitrust: the time they are a’changing?

Andrea Pezzoli commenta i segnali di mutato atteggiamento in USA e UE delle autorità antitrust nei confronti dei Big Tech, sostenendo che la politica della concorrenza è più consapevole dei cambiamenti strutturali indotti dalla diffusione dell’economia digitale, dei rischi di under-enforcement e dell’esigenza di integrare gli strumenti tradizionali per affrontare i fallimenti del mercato in termini di privacy. Pezzoli conclude riprendendo la proposta di Paul Romer di una tassa che spinga le grandi piattaforme verso modelli di business più privacy-friendly.

Qualcosa sta cambiando? Dall’inizio di giugno non solo la stampa specializzata ma anche le grandi testate internazionali hanno iniziato a dar conto di un mutato atteggiamento nei confronti delle grandi piattaforme digitali da parte delle autorità antitrust degli Stati Uniti.

In realtà di ufficiale non c’è (ancora?) nulla. Nessuna istruttoria è stata avviata. Si tratta solo di indiscrezioni relative all’allocazione di competenze tra la Federal Trade Commission e il Department of Justice. In base alle indiscrezioni (e in base ai precedenti giurisprudenziali), la Federal Trade Commission dovrebbe occuparsi di Amazon (e, forse, di Facebook) e il Department of Justice di Google. Ma ciò non implica necessariamente che ci sia qualche caso prossimo ad essere approfondito in istruttoria. È bastato questo, però, per dire che qualcosa sta cambiando nei confronti dei Big Tech anche al li là dell’oceano.

È indubbio, invece, che negli ultimi mesi il dibattito politico sul potere economico delle piattaforme si sia a dir poco scaldato e che anche i profili più squisitamente concorrenziali siano stati oggetto di un notevole approfondimento da parte della Federal Trade Commission.

In Europa, gli sforzi delle autorità per una migliore comprensione del fenomeno si sono coniugati con una serie di istruttorie che si sono concluse di recente e con l’avvio di nuove indagini da parte di autorità nazionali.Agli interventi della Commissione Europea nei confronti di Google, con le conseguenti sanzioni superiori agli 8 miliardi di euro (Commissione Europea, AT.39740 Google Search (Shopping, giugno 2017; AT.40099 Google Android, luglio 2018; AT.40411 Google AdSense, marzo 2019), si sono aggiunti quelli del Bundeskartellamt nei confronti di Facebook e di Amazon (in corso), quelli dell’autorità austriaca nei confronti di Amazon (avviato lo scorso febbraio) e, più di recente, le due istruttorie avviate dall’autorità italiana nei confronti di Amazon e di Google (A528 Amazon/Logistica e A529 EnelX/Google).

Difficile non rilevare, peraltro, che, dopo il primo caso della Commissione Europea e la conclusione del discusso caso Facebook dell’autorità tedesca (in relazione al quale qualcuno sostiene che è stata utilizzata la disciplina della concorrenza per affrontare questioni di privacy o di protezione del consumatore)  sono stati pubblicati ben tre importanti rapporti, uno dei quali commissionato dallo stesso antitrust europeo (Cremer, J., et al., “Competition Policy for the Digital Era”, Rapporto finale per la Commissione Europea, 2019; Furman, J. et al., “Unlocking Digital Competition”, Report of the Digital Competition Expert Panel, 2019, Stigler Center for The Study of the Economy and the State, “Report of Committee for the Study of Digital Platforms”, Market Structure and Antitrust Subcommittee, The University of Chicago Booth School of Business, 2019), e l’attività accademica

sulle sfide dell’economia digitale per la politica della concorrenza è stata a dir poco frenetica (per una rassegna completa si vedano i più recenti contributi dell’Ocse sul tema). La politica della concorrenza per l’economia digitale si può oggi declinare su basi meno emozionali, con una maggiore consapevolezza di quale possa essere l’effettivo contributo dell’antritrust e delle opportunità offerte da un intervento attento a più voci: quella dell’antitrust, della protezione del consumatore, della tutela del pluralismo e della privacy (cfr. ad esempio l’ indagine conoscitiva sui Big Data, avviata congiuntamente dall’Agcm, l’Agcom e il Garante della Protezione dei Dati Personali).

È interessante notare come tutti gli approfondimenti, pur con differenze più o meno marcate, convergano su alcuni punti, alla luce dei quali si possono meglio comprendere sia il recente interesse delle autorità antitrust degli Stati Uniti sia la maggiore consapevolezza che caratterizza le più recenti istruttorie della Commissione e delle autorità nazionali in Europa sia, più in generale, i toni più preoccupati con i quali si svolge il dibattito politico in merito alle grandi piattaforme digitali su entrambe le sponde dell’oceano. Un’attività di enforcement più incisiva dovrebbe prestare particolare attenzione alle concentrazioni e ai comportamenti che possono frenare l’ingresso o la crescita di nuove imprese innovative in grado di sfidare il potere di mercato dei cosiddetti giganti del web o “datopolist”, che dir si voglia; soprattutto essa dovrebbe porsi i seguenti tre obiettivi.

Trovare un nuovo equilibrio tra under e over-enforcement. Innanzitutto, tutti i citati rapporti invitano a riflettere sulla necessità di trovare un diverso equilibrio tra i rischi di over-enforcement e quelli di under-enforcement. Il timore di interventi che possano scoraggiare l’innovazione va sempre più bilanciato con il rischio che, in ragione delle specificità dei modelli di business prevalenti (basati sugli effetti rete, sui Big Data e sulla logica del “winner takes all”), si vengano a cristallizzare posizioni di quasi-monopolio e, più in generale, di potere difficili da scalfire.

Tutti e tre i rapporti, oltre ad auspicare un enforcement più rigoroso, aprono alla possibilità di integrare il diritto antitrust con interventi ex-ante di natura regolamentare, fino ad ipotizzare modifiche della disciplina antitrust che consentano di fronteggiare le restrizioni (ad oggi solo ipotetiche) derivanti dalla diffusione degli algoritmi di prezzo pro-collusivi (cfr. Harrington, J., “Developing Competition for Collusion By Autonomous Artificial Agents”, Working Paper, The Wharton School, University of Pennsylvania, 2018) ovvero la costituzione di nuove autorità dedicate all’economia digitale.

Individuare le nuove forme del potere di mercato. In secondo luogo, le caratteristiche dell’economia digitale sembrano mettere in discussione l’approccio tradizionale all’analisi del potere di mercato. La natura delle piattaforme (mai tanti aspetti della nostra vita sono stati toccati contemporaneamente da un unico soggetto), gli effetti rete, la centralità dei Big Data (una sorta di passe par tout per essere presenti o minacciare/condizionare una pluralità di mercati), la diffusione degli algoritmi con le conseguenti possibilità di discriminazione e profilazione portate all’estremo e l’accresciuta facilità della collusione…sono tutti fattori che richiedono una maggiore attenzione per gli aspetti strutturali del processo competitivo e, in particolare, per il controllo delle concentrazioni. In questa prospettiva, le difficoltà legate alla misurazione della qualità e dei fattori non di prezzo (la stessa privacy può essere vista come un fattore qualitativo della competizione), alla valutazione del potere conglomerale e al controllo delle acquisizioni dei concorrenti delle grandi piattaforme quando sono poco più di start up ancora in culla (le così dette killer acquisition) vanno affrontate e possono essere superate, apartire da un aggiornamento delle regole per il controllo delle concentrazioni (cfr. Lear, Ex-Post Assessment of Merger Control Decisions in Digital Markets, 2019). In particolare, le implicazioni della diffusione degli algoritmi dovranno essere sempre più prese in considerazione nell’analisi delle concentrazioni sia per i maggiori rischi di collusione in mercati oligopolistici che per l’accresciuta possibilità di aumentare i prezzi agevolata dalla profilazione dei consumatori. La capacità di profilazione può consentire, infatti, di mirare gli aumenti di prezzo per categorie di consumatori, in passato non distinguibili dal resto della domanda.

Conciliare privacy, benessere del consumatore e concorrenza. Infine, suscita preoccupazioni l’intreccio, non sempre agevole da dipanare, tra aspetti squisitamente concorrenziali e criticità di altra natura come quelle relative alla privacy, alla tutela di diritti fondamentali o, persino, alla stessa tenuta democratica. Un intreccio molto delicato, per la pressione che può esercitare sulle autorità di antitrust, e indubbiamente complicato, considerato che le restrizioni concorrenziali non si possono ridurre alle sole questioni di prezzo e che il rapporto che esiste tra privacy, benessere del consumatore e concorrenza non è affatto univoco.

Non sempre, infatti, un più elevato grado di concorrenza implica anche una maggiore tutela della privacy. È vero che le piattaforme possono fare della maggiore o minore protezione dei dati individuali un fattore di competizione ovvero un elemento per differenziare la propria offerta (servizio “gratuito” a fronte della “cessione” dei dati individuali; “a pagamento” a fronte di una limitata riduzione della privacy) ma ad oggi né dell’una né dell’altra ipotesi si riscontrano significative evidenze. A ciò si aggiunga che la sensibilità degli individui per la privacy è lontana dall’essere omogenea.

Più spesso, invece, quando il confronto competitivo si manifesta soprattutto attraverso la proposta di beni e servizi innovativi, il miglioramento dei beni e dei servizi offerti risulta possibile proprio a seguito di una maggiore disponibilità di dati personali e, dunque, a fronte di una più intensa concorrenza si determina un maggiore benessere del consumatore ma a costo di una minore privacy collettiva. Si pensi, ad esempio, ai servizi legati alla localizzazione. Analogamente, il benessere del consumatore può crescere quando la messa a disposizione dei dati individuali evita un pagamento monetario.

Una tassa può aiutare? La non univocità dei rapporti tra privacy e concorrenza nonché il così detto “paradosso della privacy” – per cui i consumatori, pur manifestando disagio, non sono disponibili a pagare per aumentare il livello di privacy – richiedono che la politica della concorrenza possa beneficiare anche del contributo di altre politiche pubbliche.

In questo contesto l’antitrust resta senz’altro al crocevia tra tutela della concorrenza, protezione del consumatore, tutela del pluralismo e tutela della privacy. E’ evidente, tuttavia, che un enforcement antitrust più rigoroso e adeguato può non essere sufficiente, anche nella versione più radicale (e per più di un aspetto problematica) come il breaking up delle piattaforme proposto dalla senatrice Warren negli US. Un mercato concorrenziale può garantire il miglioramento del welfare dei singoli consumatori ma finisce per produrre un’esternalità negativa, una riduzione del benessere sociale, nei limiti in cui l’ampia messa a disposizione dei dati personali può minare la tutela di diritti fondamentali e la stessa tenuta del tessuto democratico.

Se, dunque, un enforcement antitrust più efficace e, entro certi limiti, uno spazio maggiore per la regolazione possono rivelarsi necessari per adeguarsi alle sfide dei Big Tech, il ricorso a una strumentazione più ampia può essere auspicabile per affrontare il fallimento del mercato in termini di privacy. In quest’ottica la tassa sui ricavi da pubblicità online proposta da Paul Romer (cfr. “A Tax That Could Fix Big Tech”, New York Times, 6 maggio 2019) va considerata con attenzione, laddove evita di mettere direttamente in discussione il business model privilegiato dalle grandi piattaforme ma, analogamente a quanto si fa per altre esternalità come l’inquinamento, le incoraggia verso modelli più privacy-friendly, meno rischiosi per la tenuta delle istituzioni democratiche.

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