Barak Obama tra guerre e crisi

Credo che nessuno al modo invidi Barak Obama. La mole delle responsabilità che gravano su di lui in questo avvio di un nuovo anno è tale, non ostante la fine degli imperi, da spaventare qualsiasi governante o politico. Il sommarsi della tensione esistente nell’Iran e con l’Iran (frutto in gran parte di disegni tracciati ben prima di Obama da chi, nel contempo, armava talebani) con le minacce del terrorismo e con il suo fallito attacco ad un aereo pieno di passeggeri in una situazione già tesa – e che richiede il massimo dell’attenzione ai problemi posti in luce dalla crisi economica – , esige tale lucidità, freddezza, e allo stesso tempo, fedeltà ai propri ideali, da richiedere doti eccezionali. I predecessori di Obama, per decine di anni, hanno fatto fronte a difficoltà minori, aprendo un nuovo fronte di guerra e facendo pagare qualche anno di apparente respiro per se stessi a migliaia e migliaia di morti innocenti: americani, coreani, vietnamiti, serbi, libanesi, palestinesi, cubani, inglesi, francesi, tedeschi, italiani, irakeni, afghani, pakistani, etiopi, somali. Sappiamo che Obama non vuole farlo, ma il non farlo, anche a fronte di provocazioni, esige una tale intelligenza e capacità di egemonia, che se riuscirà a mantenere il suo impegno di pace, non solo non aprendo nuovi fronti di morte ma chiudendo quelli ereditati da Bush, diverrà, solo per questo, uno dei più grandi presidenti americani.

Intanto Obama ha incassato il sì della Camera e del Senato al suo piano sanitario teso ad garantire le cure mediche a trenta milioni di americani non in grado di accedere ai servizi privati. In Italia grazie all’unità realizzata in Parlamento abbiamo acquisito il riconoscimento del diritto alla salute come un diritto universale di cittadinanza già negli anni settanta. Ma non possiamo non salutare la conquista americana, fatta in un in periodo di profonda crisi economica e di altissimo debito nazionale, come un grande fatto che aiuterà anche l’Europa a difendere diritti oggi minacciati e già intaccati da ritenute, sia pur piccole, esclusioni di alcuni prodotti e servizi, invenzione delle medicine per i poveri – i cosiddetti medicinali generalisti -, tempi eterni per alcune analisi. Non si tratta, d’altra parte, solo di una vittoria del diritto all’uguaglianza. Si tratta anche di una innovazione di grande importanza nei modi di fronteggiare la crisi.

Esistono due modi di affrontare la crisi (oltre quello di negarla e di non fare niente). Il modo di chi ritiene che il diritto all’eguaglianza, alla salute, all’acqua, ad un ambiente vivibile per noi e per i nostri nipoti, a trasporti efficienti, ad una tutela per la disoccupazione sia per l’economia e per la società un “costo” da ridurre in caso di crisi e di profitti calanti e il modo di chi ritiene che tali diritti facciano invece parte del fondamentale diritto degli esseri umani al benessere e alla felicità e che il favorire la felicità di tutti e non solo quella di una elite cafona e miliardaria sia il primo compito della politica economica, il compito in nome del quale essa esiste come scienza. In questo secondo caso i diritti di cittadinanza non vengono assunti come costi ma come fini da perseguire quanto più la crisi ne rende più urgente e significativa la difesa. Obama ha scelto non da oggi, ma dalla formulazione del suo programma elettorale, questa seconda via e il successo da lui conseguito e che avrà positive ripercussioni anche nel mondo della produzione e sulla domanda di mercato, va pertanto salutato come un successo di tutti coloro che credono in una società più egualitaria per quanto riguarda i diritti di cittadinanza. Ad essi si possono unire in via di fatto tutti gli italiani che attendono da mesi una risonanza magnetica o che assistono frastornati al rapido decadimento del servizio ferroviario, servizio pubblico per antonomasia, dopo le privatizzazioni o quanti temono le conseguenze, anche sulle tariffe, della privatizzazione dell’acqua.  

Su un punto certamente Obama non ha dato prova di convinzioni maturate: il punto relativo all’ambiente, ai pericoli presenti e futuri originati dalle migliaia di tonnellate di anidride carbonica che scarichiamo nell’atmosfera.

Su questo punto abbiamo ascoltato a Copenaghen la importante riaffermazione di impegni non accompagnati tuttavia da dati e scadenze vincolanti. Sappiamo che stabilire il giusto rapporto tra ciò che debbono “dare” i paesi maggiormente inquinanti e ciò che debbono ricevere i paesi inquinati e bisognosi nello stesso tempo di svilupparsi non è compito facile. Così come non è facile trovare un indice di benessere – Sen, Stiglitz e Fitoussi ci hanno lavorato mesi – che sia compatibile e possa intrecciarsi con l’indice PIL e correggerne i gravi limiti. Ma i ghiacciai dell’Europa e quelli polari non sono più in grado di aspettare, nè noi, i nostri figli e nipoti siamo in grado di aspettare. Il livello dei mari continua a crescere, la natura inquinata produce tzunami e uccide migliaia di specie. La campana è suonata e chiunque governi di questi tempi senza tener conto di ciò dovrà risponderne.

L’appuntamento fissato tra sei mesi deve, assolutamente deve, approdare ad una conclusione. L’augurio è che l’Unione Europea faccia suo questo impegno. Altrimenti il passaggio da un mondo unipolare con centro Washington ad un mondo pluripolare avrà ben poco significato per i cittadini del mondo.

 

03/01/2010

 

 

 

 

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