Azione volontaria fra dinamismo e scelte legislative in chiaroscuro

Ugo Ascoli e Emmanuele Pavolini si occupano di volontariato, uno dei fenomeni più dinamici ed interessanti di partecipazione socio-politica. Dopo averne illustrato i caratteri di fondo e le trasformazioni in atto, sostengono che da un attento esame del mondo del volontariato risulta confutata l’idea che vi sia una crisi della partecipazione socio-politica, anche se permangono alcune preoccupanti criticità. La loro conclusione è che la riforma del Terzo Settore, di cui offrono una prima valutazione, rischia di danneggiare più che aiutare una vasta parte di tale mondo.

Nel presente scritto si cerca di illustrare l’importanza e l’evoluzione del fenomeno volontariato in Italia così come di valutare quanto la recente riforma del Terzo Settore aiuterà o creerà problemi a tale mondo.

E’ da alcuni decenni che ci si è resi conto, sia nella comunità scientifica che in quella politica e degli attori sociali, dell’importanza di soggetti organizzati che si muovono senza finalità di lucro e con obbiettivi solidaristici e mutualistici. Questa galassia di soggetti viene in genere identificata con il termine ‘terzo settore’. Il ruolo di tali soggetti non è solo quello di fornire risposte a bisogni sociali in sistemi di welfare, che trovano sempre più complesso rispondere ad esigenze crescenti e differenziate, ma anche favorire una maggiore partecipazione sociale e socio-politica degli individui. In tale contenitore il volontariato si trova ad occupare una posizione fondamentale.

Da una recente ricerca da noi curata (U. Ascoli e E. Pavolini, Volontariato e innovazione sociale oggi in Italia, Il Mulino, 2017), così come da altre (Volontariato post-moderno, a cura di M. Ambrosini, Franco Angeli, 2016; Italia civile, a cura di R. Biorcio e T. Vitale, Donzelli, 2016; Volontari e attività volontarie in Italia, a cura di R. Guidi et al., Il Mulino, 2016), emerge un quadro articolato di che cosa stia accadendo dentro il modo del volontariato.

Innanzitutto, se da tempo ci si lamenta della crisi della partecipazione socio-politica, l’analisi sul fenomeno volontariato e associazionismo sconfessa l’idea di tale crisi. Da vari anni covano sotto le ceneri nuove tracce e modalità di partecipazione, che in parte sfuggono ai canoni tradizionali cui eravamo abituati, quelli dentro i partiti o fra i cosiddetti interessi organizzati (sindacato, associazionismo professionale e imprenditoriale). Attualmente il volontariato rappresenta l’unica forma di partecipazione associativa in forte e costante diffusione, perlomeno se confrontata con le altre modalità tradizionali di impegno comunitario di questo tipo (partiti, sindacati, etc.) (fig. 1). Si può stimare che dagli anni ’80 in poi, ad ogni passaggio da un decennio a quello successivo, le organizzazioni di volontariato in Italia siano quasi raddoppiate, passando dalle poche migliaia alle oltre 45000 di oggi. La percentuale di persone che fanno volontariato dentro un’organizzazione rispetto al totale della popolazione almeno quattordicenne è passata da circa il 7% nei primi anni ’90 ad oltre 10% a metà dell’attuale decennio: tale incremento percentuale corrisponde in termini reali ad un aumento dei volontari da circa 3,3 milioni a 5,5 milioni. L’Istat ha stimato anche la presenza di persone che individualmente, quindi non dentro organizzazioni, svolgono attività di volontariato. Se si tiene conto anche di questa forma di azione gratuita si superano i 6,6 milioni di volontari in Italia.

La crescita della partecipazione al volontariato è un fenomeno che ha toccato tutta la società italiana: non vi è nessun profilo di residente in Italia (socio-demografico, socio-economico o culturale) per il quale non si registri un tasso maggiore di partecipazione passando dai primi anni ’90 alla metà dell’attuale decennio. La componente etico-religiosa, una volta largamente maggioritaria, ispira in maniera forte oggi solo circa un terzo degli attuali volontari. Accanto a tale motivazione, si profilano come rilevanti l’impegno per la promozione sociale ed il cosiddetto ‘attivismo civico’.

Essere volontari significa, inoltre, per molti un impegno non irrilevante: in media chi dona gratuitamente il proprio tempo è impegnato per circa 16-20 ore al mese.

Inoltre, il volontariato non riguarda solo il fare ma anche il maturare potenzialmente un senso di appartenenza e di partecipazione ad una comunità. Un insieme di studi ha messo in luce come svolgere attività di volontariato possa avere un impatto positivo sui volontari stessi in termini di costruzione dell’identità personale ed di maggiore fiducia e partecipazione socio-politica. Questa letteratura è riassumibile sotto il concetto di “volontariato come scuola di democrazia”: tramite un meccanismo di “socializzazione”, il coinvolgimento e l’impegno in associazioni di volontariato favorisce la trasmissione di valori civici, la partecipazione politica e la fiducia inter-personale e nelle istituzioni.

Le recenti ricerche sul caso italiano confermano l’esistenza di una forte correlazione positiva fra attività di volontariato e partecipazione socio-politica. Inoltre, molti volontari ritengono che il loro livello di partecipazione socio-politica e di fiducia negli altri sia aumentato grazie all’esperienza di volontariato, anche se rimane bassa, se non bassissima, la fiducia verso le istituzioni.

Accanto a molti aspetti incoraggianti, emergono, però, alcune pesanti criticità: vi sono numerose organizzazioni dove il personale retribuito inizia a giocare un ruolo preponderante rispetto ai volontari. Rispetto al passato si stanno diffondendo in molte realtà forme di rimborso spese ai volontari, che destano preoccupazione per i rischi di trasformazione della logica di azione volontaria che possono generare.

E’ dentro questo quadro che si può valutare la recente riforma del Terzo Settore, destinata ad influenzare in modo assolutamente non irrilevante il futuro delle organizzazioni di volontariato e l’azione volontaria: c’è il rischio che si rafforzino le criticità appena menzionate.

In questo senso, gli aspetti più significativi di tale normativa sono quelli che riguardano la caratterizzazione dell’azione volontaria, la strutturazione dei nuovi Centri di Servizio per il Volontariato, il peso strategico delle Fondazioni e il nuovo rapporto fra soggetti pubblici e volontariato organizzato. Allorché si delineano le caratteristiche del ‘volontario’, pur ribadendo la gratuità di tale attività ed il divieto di ricevere rimborsi forfettari, si ammette in legge la possibilità di ‘autocertificare’ spese di cui ottenere il rimborso fino ad un massimo di 10 euro giornalieri e di 150 euro mensili. Tuttavia tale possibilità può essere usufruita nello stesso periodo più volte da chi fa volontariato, nel caso faccia parte di più organizzazioni, accumulando quindi un reddito mensile non trascurabile. Il controllo delle molte ‘autocertificazioni’ che potrebbero essere prodotte appare, realisticamente, alquanto problematico. C’è quindi il concreto pericolo che possa venire meno per molti volontari il principio di gratuità e che l’azione volontaria possa così risultare sempre meno facilmente distinguibile da mini-remunerazioni di lavori svolti in modo irregolare. Tutto ciò renderebbe certamente assai più fragile l’architrave su cui da sempre si poggia l’attività delle organizzazioni di volontariato e potrebbe condurre ad importanti processi di ibridazione organizzativa.

Anche nel nuovo quadro previsto dalla Riforma il Centro di Servizio per il Volontariato (CSV) continua ad occupare un ruolo strategico: tuttavia mutano alcuni tratti cruciali del suo operare. I CSV hanno svolto in questi anni un prezioso ruolo di promozione, supporto e consulenza a migliaia di organizzazioni di volontariato. Sicuramente tutto non ha funzionato bene, ma è innegabile che sono stati un volano per la crescita di molte realtà. Con la Riforma il CSV dovrà essere un’agenzia al servizio di tutto il Terzo Settore, pur rimanendo la fonte di funzionamento quella stessa prevista dalla legge 266/91: le Fondazioni Bancarie, che si comporteranno in base ai meccanismi finanziari già previsti nella normativa vigente. Non si prevedono altre fonti di finanziamento, a fronte di una crescita a dismisura della potenziale platea dei beneficiari; i CSV potranno tuttavia disporre anche di altre risorse ‘liberamente percepite e gestite’. Il CSV appare quindi destinato a diventare una Agenzia al servizio di tutti gli Enti del Terzo settore ed a porsi sul mercato, a fianco delle altre società private di consulenza, specie in uno scenario prevedibile di risorse fondazionali in diminuzione. Il numero di CSV sul territorio nazionale, in base ai meccanismi previsti dal legislatore, si ridurrà drasticamente di oltre il 50% (si stima che dovrebbero passare da 90 a 37): ciò sicuramente presenta il vantaggio della razionalizzazione e della eventuale riduzione degli sprechi, ma allo stesso tempo rischia di creare agenzie che debbano governare un territorio troppo vasto (ed allargato, non dimentichiamolo, a tutto il Terzo Settore) e che potrebbero perdere il contatto e l’interazione con gli Enti di minore dimensione, che costituiscono la maggioranza delle organizzazioni, almeno nel campo del volontariato organizzato e dell’associazionismo. Siamo destinati a vedere crescere la distanza fra le iniziative civiche più genuine e significative da un lato e il CSV della regione sempre più ‘burocratizzato’, dall’altro? L’intera partita dei servizi al Terzo settore è posta saldamente nelle mani delle Fondazioni Bancarie che governano in maggioranza l’Organismo Nazionale di Controllo (ONC), così come gli Organismi Territoriali di Controllo (OTC) che ne rappresentano l’articolazione territoriale: l’ONC gestisce le risorse, accredita e controlla i CSV, ripartisce i finanziamenti, determina gli indirizzi strategici generali da perseguire tramite le attività finanziate con il Fondo Unico (che deriva dai versamenti delle Fondazioni), presiede alla determinazione di tutte le ‘regole del gioco’ in tema di bilanci, rendicontazioni, sanzioni amministrative. Alle Fondazioni è riconosciuto inoltre un cospicuo ‘credito di imposta’ per le somme versate: quindi una gestione ‘privata’ delle risorse controllata dai Consigli di Amministrazione delle Fondazioni, ma con una parte non irrilevante dei costi addossata in termini di ‘tax expenditures’ alla collettività. Siamo certamente di fronte ad un processo di accentramento e di forte centralizzazione del policy making rispetto alle autonomie territoriali, in cui i soggetti vincitori sicuramente appaiono le Fondazioni bancarie, mentre quel che ne deriverà per il volontariato appare molto più incerto.

Gli Enti del terzo settore sono chiamati a ‘co-programmare’ ed a ‘co-progettare’ con i soggetti pubblici, riallacciandosi così allo spirito della legge 328 del 2000, in un quadro tuttavia estremamente articolato. Le convenzioni in particolare, che rimangono lo strumento principale con cui costruire il welfare mix fra pubblico e volontariato organizzato, sono ‘ingabbiate’ in una intelaiatura a maglie strettissime: fra standard e procedure da rispettare, controlli e verifiche, requisiti richiesti e garanzie di qualità da fornire ex ante e valutare ex post, la singola organizzazione rischia di dover dedicare molto tempo al rispetto delle regole amministrative, schiacciata nella fornitura dei servizi, impossibilitata ad esercitare quell’azione di advocacy che dovrebbe accompagnare l’azione volontaria.

In conclusione ci sembra di poter dire che il volontariato organizzato rischia di uscire con le ‘ossa rotte’ e con il suo Dna modificato dai processi di implementazione della Riforma: mini salari ad una parte di volontari; CSV più lontani dai territori e con meno risorse; dominio del mondo delle fondazioni nell’impostazione delle grandi strategie; forte centralizzazione del controllo pubblico e irrigidimento delle regole che presiedono alle forme di collaborazione.

Il percorso di crescita del volontariato di questi decenni ed il suo ruolo di promozione della partecipazione socio-politica nel nostro paese avrebbero meritato ben altra attenzione e cura da parte del legislatore.

Figura 1. La partecipazione ad associazioni da parte degli italiani nel corso del tempo (percentuale di individui con almeno 14 anni che fa parte di vari tipi di associazioni): anni 1993-2015

Fonte: Ascoli e Pavolini (2017) su dati Istat

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