Autonomia differenziata e tutela della salute: alcune riflessioni a partire dalle esperienze di governo delle politiche sanitarie

Francesca Angelini esamina la questione dell’autonomia regionale differenziata in materia di tutela della salute alla luce dall’esperienza delle politiche sanitarie e lo fa distinguendo due profili: il primo, procedurale, relativo alla determinazione dell’intesa che in base all’art. 116 Cost. definisce l’autonomia differenziata; il secondo, sostanziale, verifica la ‘desiderabilità’ di un’ulteriore differenziazione dei Sistemi sanitari regionali, valutandone le conseguenze sul piano della uniformità e della fondamentalità del diritto alla salute.
  1. La grande sfida della riforma ter del Servizio sanitario nazionale (SSN), nota come riforma Bindi, attuata con il d.lgs. n. 229/1999, fu quella di rilanciare la sua l’impostazione pubblicistica attraverso la valorizzazione del ruolo di coordinamento dello Stato nel rapporto fra soggetti istituzionali del SSN e soggetti privati accreditati. L’avvio, oggi, per le regioni Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna, del procedimento di attuazione del regionalismo differenziato, ex 116, co. 3, Cost., appare come la prova più evidente del fallimento di quel progetto. Il regionalismo differenziato, infatti, permettendo teoricamente il trasferimento della ‘tutela della salute’ alla potestà legislativa esclusiva delle regioni richiedenti, lascia allo Stato solo la determinazione dei livelli essenziali di assistenza, mentre le regioni ad autonomia differenziata potranno legiferare persino su quei principi generali sui quali fu istituito, con la l. n. 833/1978, il SSN.

Il riferimento al dato storico ci permette di assumere la prospettiva di analisi che si vuole dare a queste pagine, che – in mancanza del dettaglio sulle materie nelle ultime bozze di intese del febbraio 2019 (cfr. su: www.affariregionali.gov.it) -, guarda agli istituti e all’evoluzione sviluppati nell’ambito della tutela della salute per riflettere su due profili di rilievo trattati di seguito: il primo profilo, procedurale, è relativo alla determinazione dell’intesa che in base all’art. 116 Cost. definisce l’autonomia differenziata; il secondo, sostanziale, tenterà di verificare la ‘desiderabilità’ di un’ulteriore differenziazione dei Sistemi sanitari regionali (SSR), valutandone le conseguenze sul piano della uniformità e della fondamentalità, come recita l’art. 32 Cost., del diritto alla salute.

  1. L’amministrazione della salute ha avuto spesso un ruolo anticipatore di istituti del regionalismo italiano. Con riferimento alla riforma del 2001, ne sono esempi la determinazione dei “livelli essenziali delle prestazioni” dei diritti civili e sociali, che ha un precedente nei “livelli uniformi delle prestazioni” sanitarie, previsti nella l. n. 833/1978, e il potere sostitutivo dello Stato introdotto con il d.lgs. n. 229/1999 e oggi previsto dall’art. 120 Cost. I casi citati, testimoniano, fra l’atro, l’imprescindibilità, a fronte del riconoscimento di maggiore autonomia regionale, di strumenti di garanzia dell’uniformità dei diritti. Per rispondere a tali esigenze, negli ultimi anni, il governo della salute ha sperimentato forme di collaborazione che hanno assunto l’istituto dell’‘intesa’ fra enti alla base della garanzia dell’uniformità delle prestazioni. Proprio in considerazione di questa ampia esperienza, appare utile tornare a guardare al governo della salute come ad un “laboratorio” di riferimento anche per l’intesa prevista dall’art. 116, co. 3, Cost.

In assenza di leggi di attuazione, il Governo Gentiloni, nei primi accordi del febbraio 2018, si è riferito espressamente al procedimento consolidato in via di prassi, nell’approvazione delle intese fra Stato e le confessioni religiose, ex art. 8, co. 3, Cost.; la scelta è stata prontamente criticata dalla dottrina (M. Villone, il manifesto, del 12.2.2019) a causa della marginalità del Parlamento, cui spetterebbe solo di approvare o rigettare integralmente l’intesa, escludendosi la sua emendabilità. Tralasciando per ora la questione sul ruolo del Parlamento, preme sottolineare come, in questo caso, il Governo e le regioni “sono tenuti a procedere nel rispetto del principio di leale collaborazione” (Dossier n. 104/1, Servizio studi del Senato, www.senato.it,12) che mal si concilierebbe con il potere di emendamento, successivo all’intesa, del Parlamento. L’aspetto che appare, invece, più criticabile delle intese ex art. 8 Cost. consiste nella loro ‘stretta bilateralità’ che, ancorché comprensibile per le confessioni religiose, rischia oggi di mostrare limiti evidenti in considerazione delle ricadute che tali scelte avranno, sul piano dell’uniformità e universalità delle prestazioni sanitarie, su tutte le altre regioni.

Alla luce di quanto detto e fermo restando che dalla lettera dell’art.116, co. 3, Cost., l’“intesa” deve essere raggiunta fra “lo Stato e la regione interessata”, sembra auspicabile che si guardi alle prassi delle intese Stato-regioni oramai consolidate nel governo della salute. Si tratta, fra l’altro, di accordi che precedono l’adozione di decisioni spesso riservate allo Stato incidenti sulla determinazione quantitativa e qualitativa delle prestazioni sanitarie e sul loro finanziamento quali: l’adozione del ‘piano sanitario nazionale’, l’individuazione dell’elenco dei ‘livelli essenziali di assistenza’ (LEA), la quantificazione del ‘fondo sanitario nazionale’ e, dal 2005, la determinazione dei ‘patti per la salute’. L’importanza del coinvolgimento di tutte le regioni, in queste procedure è testimoniata anche dal fatto che spesso l’intesa è prevista persino in deroga alla legge o alla Costituzione. Così per il piano sanitario nazionale, che, in base alla l. n. 833/1978, doveva essere adottato con legge dello Stato e per i LEA, da adottarsi, in base all’art. 117 Cost., con legge dello Stato, ma in realtà affidati, sin dal 2001, al raggiungimento di un’intesa, in sede di Conferenza Stato-regioni, fatta propria dallo Stato con DPCM. Il rilievo dell’intesa, quale strumento pienamente attuativo del principio di leale collaborazione, è stato confermato dalla Corte costituzionale, che ne ha sottolineato i profili di garanzia rispetto agli interessi di tutti gli enti coinvolti e alle esigenze di uniformità e di equità nell’accesso ai diritti (cfr. Sent. n. 88/2003).

L’attuazione del regionalismo differenziato nelle tre regioni con il maggior gettito tributario e con i residui fiscali più alti non può essere realizzata – soprattutto rispetto alle esigenze di perequazione finanziaria – senza conseguenze sulla tutela dei livelli delle prestazioni delle altre regioni (cfr. Viesti, Verso la secessione dei ricchi?, Laterza, 2019; Giannola-Stornaiulo, Rivista econ. del Mezzogiorno, n.1-2, 2019). In particolare, per ciò che concerne il diritto alla salute, tale autonomia non dovrebbe prescindere, dunque, dalla realizzazione di un’intesa che, in attuazione del principio di leale collaborazione, coinvolga tutte le regioni nella quantificazione delle ricadute finanziarie su tutti gli enti delle nuove forme di autonomia. Sembra proprio questo il senso del richiamo, ex art. 116 Cost. al “rispetto dei principi di cui all’articolo 119”.

Da ultimo, invece, le bozze di intesa concluse nel febbraio 2019 fra le tre regioni interessate e il Governo introducono novità che solo in apparenza valorizzano la leale collaborazione mentre segnano un arretramento delle prerogative parlamentari. In base ai nuovi accordi, l’intesa, approvata dal Parlamento, affida la determinazione dei contenuti sostanziali relativi al finanziamento del regionalismo differenziato ad una Commissione Paritetica Governo-regione, nominata con DPCM.

Lo ‘sperimentalismo pericoloso’ di tale procedura, definita financo “eversiva” (R. Bin, www.lacostituzione.info, del 6.3.2019), appare evidente; la previsione di fasi successive all’approvazione parlamentare delle intese rimette la sostanza della decisione ad una sub-procedura e ad una fonte, il DPCM, che sfuggono controllo del Parlamento, delle regioni (la prima) e della Corte costituzionale (la seconda). Ugualmente critica si rivela la procedura individuata per il trasferimento delle “competenze legislative e amministrative attribuite alle regioni”, da effettuarsi sempre con uno o più DPCM, ma, in questo caso, con l’acquisizione dei “pareri” della Conferenza Unificata e delle commissioni parlamentari sugli schemi dei decreti. La procedura sembrerebbe recuperare la dimensione collaborativa, salvo che i “pareri” a differenza delle “intese” non sono vincolanti (si veda la sent. Corte cost. n. 251/2016). Altro aspetto critico è il ricorso all’effetto ‘compensativo’ fra lo svilimento del ruolo del Parlamento, ridotto ad approvare una intesa vuota di contenuti effettivi, e la previsione dei pareri che dovrebbero riequilibrare la maggiore libertà riconosciuta all’esecutivo, e che, come è noto, ripete lo schema non virtuoso e criticabile ampiamente sperimentato nella delega legislativa.

  1. Il processo di ulteriore regionalizzazione del SSN, avviato nel 1992, si è accompagnato al riconoscimento di una graduale autonomia finanziaria e tributaria delle stesse che si è spinta sino all’attuazione del federalismo fiscale a costituzione invariata con il d.lgs. n. 56/2000. Tuttavia, proprio a partire dal 2001, anno della costituzionalizzazione del federalismo fiscale (art. 119), ha avuto inizio un riaccentramento delle politiche fiscali, cui ha fatto seguito un’ulteriore svolta centripeta dovuta alla crisi economica che ha imposto politiche di rigoroso controllo sulla spesa pubblica. L’insieme di tali condizioni, da una parte, ha depotenziato la funzione statale di coordinamento del Ministero della salute, evidente nel ritardo di adozione dei nuovi LEA, attesi per più di 10 anni e approvati solo nel febbraio 2017, dall’altra, ha ridimensionato gli spazi consentiti alle regioni ordinarie nella definizione delle politiche sanitarie con un’azione di indebolimento modulata a seconda della situazione finanziaria di ciascun ente. Così, le regioni centro-meridionali, in condizioni di deficit elevato, si sono ritrovate strette dai piani di rientro che hanno pesantemente condizionato i loro SSR, con conseguenze sia sulle prestazioni, sia sull’autonomia delle forme organizzative e gestionali. Diversamente, le regioni del centro-nord hanno, in questi stessi anni, non solo hanno ristrutturato i loro SSR, utilizzando la normativa sull’autonomia organizzativa, rimasta intatta dagli anni ‘90, ma hanno cominciato guardare all’unica disposizione rimasta dormiente del Titolo V, l’art. 116 Cost., per divincolarsi dalla ricentralizzazione delle politiche di finanza pubblica e completare l’ampio ‘federalismo sanitario’ con un ‘federalismo fiscale’ di tipo competitivo, teso ad ancorare l’intero gettito fiscale al territorio e a sganciare il residuo fiscale regionale dai sistemi di perequazione fra enti.
  2. La valutazione generale sui progetti di autonomia differenziata, che molto ci dicono sui processi di trasformazione del sistema di welfare dell’intero Paese, non può trascurare l’emersione di una decisa spinta del regionalismo italiano a transitare da un modello ‘solidale’ ad un modello ‘competitivo’. Già qualche anno fa l’aumento delle differenze nelle prestazioni sanitarie, tra SSR del Nord e del Sud, era stato valutato “al di là di limiti coerenti e compatibili con il principio di uguaglianza” (De Ioanna-Fantozzi, Menabò, n. 19, 2015); a fronte di tale severa valutazione, le richieste di autonomia differenziata delle tre regioni con residui fiscali più alti appaiono non solo tutt’altro che neutrali rispetto alla perequazione, ma anche non desiderabili sul piano della tutela dell’uniformità dei diritti.

Il regionalismo differenziato non solo non sarà a costo zero per lo Stato, contrariamente a quanto previsto dall’art. 5 delle stesse bozze di intesa, dove si afferma che “dall’applicazione della presente intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” (cfr. G. Viesti, Menabò, n. 102, 2019), ma, con evidente eterogenesi dei fini, finirà per rappresentare un costo per le regioni più povere, si pensi ad esempio alla richiesta di istituire fondi integrativi regionali favoriti da misure di defiscalizzazione che ancora una volta smentirebbe la neutralità perequativa delle misure. Ma si pensi anche alle richieste di autonomia nei percorsi formativi, nel reclutamento e nella retribuzione delle professioni sanitarie che avrebbe conseguenze addirittura ‘anti-solidali’ nel suo spingere logiche di ‘accaparramento’ delle migliori professionalità dalle altre regioni.

La realizzazione di tali richieste costituirebbe un’evidente violazione dei principi affermati dagli artt. 3 e 53 Cost. Nel primo caso perché creerebbe nuove forme di discriminazioni fra cittadini basate sulla residenza e sul reddito; nel secondo caso poiché il richiamo al dovere di contribuzione alle “spese pubbliche”, nella disposizione è chiaramente riferito allo Stato ‘unitariamente inteso’. Altri evidenti limiti costituzionali, sia formali che sostanziali, sono rintracciabili nell’art. 119, nell’art. 120, in relazione al potere sostitutivo quando sono in gioco i livelli essenziali dei diritti, e più in generale nei principi fondamentali della Costituzione; limiti che hanno trovato conferma esplicita, è bene ricordarlo a conclusione di queste brevi riflessioni, anche nel referendum costituzionale del 2006 che ha respinto il progetto di devolution della tutela della salute, riconfermando il ruolo fondamentale dello Stato quale garante della universalità del SSN.

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