Austerità espansiva: in cerca di placebo e sofismi?

Massimiliano Tancioni esamina criticamente un recente lavoro del FMI, secondo il quale, in Italia, una manovra fiscale nel complesso restrittiva, ma con maggiori investimenti in infrastrutture, genererebbe espansione economica nel medio-lungo termine. Basandosi su un modello macroeconometrico simile a quello utilizzato dagli economisti del FMI, Tancioni giunge alla conclusione che i risultati espansivi sembrano dipendere da un’ipotesi estrema, non circostanziata e piuttosto “sospetta”, sulla relazione tra produttività e investimenti in infrastrutture.

Un recente working paper del Fondo Monetario Internazionale (FMI) dedicato all’Italia, curato da Andrle, Hebous, Kangur e Raissi offre un’ampia analisi della recente politica fiscale, derivandone una serie di prescrizioni con il duplice obiettivo di assicurare traiettorie di finanza pubblica compatibili con gli obiettivi di medio termine e favorevoli alla crescita economica.

Nella sostanza, si prescrive un pacchetto di riforme da attuare in 4 anni centrato su una ricomposizione delle poste di bilancio (di entrata e di spesa), nel segno di un consolidamento fiscale (contrazione) pari a circa 2punti di PIL. La manovra produrrebbe una leggera contrazione nel breve termine, principalmente per effetto delle riduzioni nei consumi pubblici e nei trasferimenti alle famiglie, ma – malgrado il consolidamento fiscale – determinerebbe nel medio termine un’espansione che nel lungo convergerebbe su valori prossimi al 2,5% rispetto al tendenziale. Una prospettiva certamente incoraggiante, ma quanto solide sono le basi su cui poggia?

La proposta fiscale, supportata da una simulazione del modello GIMF del Fondo (Global IntegratedMonetary and Fiscal Model), si sostanzianello spostamento del carico fiscale dalle imposte dirette (sul lavoro) alle indirette (IVA e patrimoniale) per 1,5 punti di PIL e nella contrazione di consumi pubblici e trasferimenti alle famiglie per 1,25 punti di PIL (nell’insieme, 2,5 punti), parzialmente compensata da un aumento degli investimenti pubblici per 0,5 punti di PIL.

Dato il consolidamento fiscale, gli effetti “growth-friendly” dovranno derivare dal diverso contenuto distorsivo della tassazione diretta e indiretta e dai diversi moltiplicatori delle leve fiscali. La dimensione di questi ultimi dipende da molti fattori, per lo più specifici alle ipotesi teoriche del modello e alla parametrizzazione adottata. Secondo gli economisti del FMI:

La risposa macroeconomica positiva è il risultato di una nuova struttura impositiva meno distorsiva, con cunei fiscali ridotti, di una spesa più produttiva, per effetto dell’(aumentato) investimento pubblico e dei ridotti costi del servizio del debito (…). La riduzione delle imposte sul lavoro ne stimola l’offerta. L’effetto netto della riduzione delle tasse sul lavoro e delle aumentate imposte in somma fissa (che nelle intenzioni definirebbero la patrimoniale) e indirette (IVA) è positivo per i consumi privati nel lungo periodo.

E’ quindi utile fornire qualche informazione sul modello di simulazione utilizzato, sulla mappatura delle ipotesi fiscali nelle sue relazioni strutturali, e sul ruolo della parametrizzazione.

Il GIMF, descritto nel dettaglio tecnico in un working paper del FMI del 2010 è un modello multi-country di larga scala, di ispirazione nuovo-keynesiana, caratterizzato quindi da concorrenza monopolistica nei diversi settori rappresentati (mercato dei beni domestici ed esteri e del lavoro). L’economia descritta è popolata da famiglie eterogenee nelle scelte di consumo e risparmio, da imprese all’ingrosso e al dettaglio del settore domestico e delle relazioni con l’estero, dal settore del credito e dai policy-makers.

Le proprietà dinamiche – quindi i risultati di simulazione – di un modello di larga scala come questo dipendono dalla parametrizzazione adottata. Per la politica fiscale, sono cruciali la quota di famiglie soggette a vincoli di liquidità (che stabilisce la dimensione dell’allontanamento dall’ipotesi di equivalenza ricardiana, quindi dei moltiplicatori fiscali), la frequenza di aggiustamento dei prezzi e il grado di attivismo della politica monetaria (dipendente, in una area valutaria, dalla dimensione relativa del paese).

Purtroppo, il contributo del FMI non fornisce alcuna indicazione al riguardo. L’unico riferimento sembra essere il working paper del 2010, dove si adotta una calibrazione valida per le cinque aree economiche rappresentate, tra cui l’euro-zona, verosimilmente riferibile all’applicazione per l’Italia.

Per una prima valutazione dei risultati del FMI abbiamo effettuato una simulazione delle stesse ipotesi fiscali, utilizzando una versione italiana del modello BeTa (sviluppato da chi scrive, insieme a Elton Beqiraj) e una parametrizzazione calibrata seguendo le indicazioni, valide per l’euro-zona, prodotte nel lavoro del FMI del 2010. Seguendo gli economisti del FMI, si assume una implementazione graduale della manovra, assumendo un approccio di simulazione di tipo deterministico, che nel contesto dei modelli con aspettative razionali stabilisce in sostanza che la manovra è perfettamente nota ed anticipata dagli agenti razionali che popolano l’economia descritta dal modello.

Il BeTa condivide i tratti teorici essenziali del GIMF, ma se ne differenzia nel rappresentare due aree simmetriche di una unione monetaria (Italia e resto dell’EZ, in questa applicazione) e per il fatto che le famiglie non soggette a vincoli di liquidità operano su orizzonti infiniti. Questa seconda differenza, in linea di principio, riduce gli effetti di breve/medio termine degli shock fiscali.

Al fine di sottolinearne la rilevanza, viene riproposta la simulazione della stessa manovra fiscale adottando una parametrizzazione stimata su dati italiani (per il settore domestico) ed europei (per il settore estero). Le maggiori differenze tra struttura stimata e calibrata riguardano proprio i parametri che definiscono i vincoli di liquidità e quelli che definiscono il grado di rigidità nominale, entrambi sensibilmente aumentati a seguito della stima.

La figura 1 mostra gli scostamenti attesi dal controllo (ossia dal tendenziale) di PIL (a); consumi privati (b); investimenti privati (c); saldo commerciale (d); occupazione (e); salari reali (f). Essendo la manovra fiscale definita in termini di punti di prodotto, lo scostamento del PIL fornisce la dimensione del moltiplicatore fiscale monetario dinamico. I periodi, rappresentati lungo l’asse orizzontale, sono trimestri dall’avvio della manovra.

Figura 1. Effetti della manovra fiscale (deviazioni % dal tendenziale)

Come si vede, gli effetti macroeconomici di breve e medio termine sono sensibilmente recessivi con entrambe le parametrizzazioni. L’espansione si manifesta solo dopo 8 e 12 trimestri (rispettivamente, per la parametrizzazione calibrata equella stimata). Più in dettaglio: i consumi privati,si contraggono molto, con picco negativo superiore al punto percentuale dopo quattro trimestri sotto parametrizzazione stimata, per poi convergere a valori pressoché nulli dopo 16 trimestri; gli investimenti privati si contraggono meno nel breve e medio termine, e poi si espandono convergendo a circa 0,4 punti percentuali all’orizzonte di simulazione; il saldo commerciale registra, grazie soprattutto alla riduzione delle importazioni collegata alla contrazione dei consumi privati una espansione che raggiunge circa 1,4 punti percentuali a cinque trimestri, per poi stabilizzarsi poco al di sopra del punto percentuale nel lungo periodo.

Per effetto della contrazione macroeconomica, l’occupazione (qui definita in termini di ore lavorate totali) è attesa in sensibile contrazione, più accentuata nel breve termine per effetto del forte grado di rigidità salariale, ed alquanto persistente. Il salario reale tende a seguire la dinamica del prodotto.

Nel breve-medio termine, questi risultati sono solo parzialmente diversi da quelli ottenuti dagli economisti del FMI. La simulazione GIMF indica, rispettivamente per PIL, consumi, investimenti e saldo commerciale variazioni di medio termine dell’ordine di -0,5, -1,2 e -1,3 e circa 0,8 punti percentuali, contro i circa -0,6, -1,1, -0,5 e 1,4 ottenuti dal BeTa.

Le differenze sul lungo termine sono invece macroscopiche: a dieci anni (40 trimestri per il BeTa), il GIMF prevede una maggiore espansione rispetto al BeTa dell’ordine di 1,8 punti percentuali per il PIL, di 0,4 punti percentuali per i consumi privati, di 2,5 punti percentuali per gli investimenti privati e di 0,1 per il saldo commerciale.

Queste differenze stupiscono, e la diversa struttura dei modelli GIMF e BeTa, stante la descrizione tecnica fornita nel working paper del FMI del 2010 può spiegarne solo una piccola parte.

Nella ricerca delle cause delle differenze, l’attenzione si è soffermata su questa affermazione degli economisti del FMI:

Nell’analisi basata sul modello, si assume che una maggiore spesa per investimenti pubblici e l’associato incremento di capitale infrastrutturale inneschi spillover positivi sulla produttività del settore privato“.

Nello studio si formula, quindi, l’ipotesi che la produttività sia endogena al capitale infrastrutturale pubblico, un’ipotesi che però è assente nella documentazione tecnica disponibile. E si tratta di una ipotesi che verosimilmente ha ottenuto un riscontro empirico formidabile: grazie ad essa, in un modello di ciclo certamente complesso ma sostanzialmente standard, nonché caratterizzato da moltiplicatori fiscali non troppo distanti da quelli presenti in letteratura, maggiori investimenti pubblici per 0,5 punti di PIL consentono una espansione di lungo periodo di circa due punti e mezzo di PIL, pur nel contesto di una manovra fiscale in contrazione di due punti di PIL.

L’informazione tecnica resa nota dagli autori non consente di stabilire la scientificità dei risultati alla base delle loro prescrizioni, ma è la logica complessiva dell’analisi che fa dubitare su quanto sia “friendly” la loro proposta di riforma fiscale. La necessità della ricomposizione e del contenimento fiscale deriva da un confronto ampio ma non molto approfondito della nostra struttura di entrate e spese con quella di altri paesi.

La concessione di mezzo punto di PIL in investimenti infrastrutturali, in questo contesto, sembra più voler addolcire la stessa medicina di un paziente esausto, per il quale la relazione “sospetta” inserita nel modello assume più i connotati di uno sperato effetto placebo, che non di una relazione fondata e centrale nelle preoccupazioni del FMI.

Ma assumiamo che quella relazione sia scientificamente valida, e che gli autori abbiano ritenuto che per trasmettere il loro messaggio principale fosse irrilevante provarne il fondamento. Ci sarebbe, allora, da chiarire perché, avendo a disposizione uno strumento fiscale capace di generare una leva compresa tra tre e cinque euro per ogni euro di spesa (sarebbe questo l’intervallo per il moltiplicatore fiscale dell’investimento pubblico tenendo conto dell’endogenizzazione adottata) occorra un programma di austerità che peggiora significativamente le prospettive economiche di breve termine di un’economia già fortemente depressa.

In questa prospettiva, se le persone che operano nelle economie reali sono altrettanto razionali degli individui che operano nelle loro rappresentazioni matematiche, è molto difficile convincersi che queste possano condividere le prescrizioni degli economisti del Fondo.

Ci sono diversi modi per prescrivere una medicina che ha mostrato di non funzionare. Come nel caso descritto, si può ricorrere alla complessità della tecnica, e forse a una buona dose di alchimia econometrica, allo scopo di addolcirla e di indurre buoni pensieri.

Oppure ci si può servire di ragionamenti sofistici, anche poco evoluti. Un esempio al riguardo è una idea recentemente apparsa nel dibattito sulla sterilizzazione dello scatto delle clausole di salvaguardia, a cui si deve l’aumento prospettico delle aliquote IVA per il 2019 (per un maggior gettito di circa 12,5 miliardi) e per il 2020 (circa 19 miliardi). L’idea è anch’essa “friendly”: dal momento che l’aumento tendenziale della spesa pubblica previsto nel DEF è all’incirca di 12,5 miliardi, le risorse necessarie ad evitare l’aumento delle imposte indirette nel 2019 potrebbero provenire dal blocco della spesa. Ma ciò presuppone di aver stabilito che tirare una riga orizzontale sull’evoluzione di tutte le voci di spesa pubblica sia un’operazione neutrale dal punto di vista fiscale.

Credo sia superfluo spiegare che un quadro programmatico è per definizione uno scostamento dal tendenziale, per cui se l’andamento di quest’ultimo è in crescita, un andamento piatto del primo equivale a programmare una contrazione fiscale, dal lato delle spese.

Possiamo interrogare il modello BeTa per sapere cosa accadrebbe, dal punto di vista macroeconomico, se le aliquote IVA aumentassero nel 2019 e 2020, o se volessimo sterilizzarle utilizzando le linee piatte.

Le tabelle 1 e 2 mostrano gli effetti delle due ipotesi su PIL, consumi, investimenti, importazioni, esportazioni, saldo corrente, massa salariale, occupazione e inflazione (al netto degli effetti di traslazione connessi alla variazione delle imposte indirette). Per facilitare la lettura dei risultati, anziché gli scostamenti percentuali dal controllo, le tabelle forniscono le variazioni attese in miliardi di euro a prezzi 2017 per i dati di pare reale, le variazioni in migliaia di unità standard di lavoro per l’occupazione, e la variazione percentuale per l’inflazione “purificata”. La colonna sotto “MF” definisce la dimensione del moltiplicatore fiscale.

Al netto dei sofismi, la sterilizzazione per linee piatte non sembra scongiurare il problema. Dunque, tra placebo e sofismi, il miracolo dell’austerità espansiva resta da spiegare.

 

 

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