Atterraggio di fortuna di Alitalia ridimensionata

I fatti di questi giorni sulla questione Alitalia, l’iniziale fallimento, dopo mesi di attesa e di promesse, delle trattative tra Cai, governo e parti sindacali, l’accordo in extremis sono l’epilogo di una vicenda viziata dalle forzature della politica, che ha tentato di piegare naturali scelte di mercato al proprio tornaconto propagandistico ed elettorale, senza offrire alcuna garanzia per la tutela dei diritti del lavoro. Un paradosso per chi si professa in questo paese portatore e garante del liberismo di mercato!

Il fallimento dell’accordo attorno al “piano Fenice” aveva aperto gli scenari di un verosimile fallimento societario della compagnia di bandiera e della sua messa in liquidazione. Improbabile sembrava infatti la soluzione di un possibile rilevamento o comunque impegno da parte di una compagnia straniera. E pensare che, sei mesi fa, una delle più solide compagnie aeree mondiali, cioè l’Air France, era pronta ad acquistare l’Alitalia, dando vita insieme a Klm, ad un grande gruppo europeo, un’operazione in grado di fornire molte più sicurezze di quelle improvvisate dalla “corazzata di cartone” reclutata in tutta fretta dal governo Berlusconi. Un atto di responsabilità dell’allora governo Prodi bollata come antitaliana. Ripercorriamo la storia recente di questo tentativo fallito.

A fine agosto è stata costituita “Compagnia aerea italiana”, una Srl presieduta da Roberto Colaninno, strumentale ai disegni dell’on. Berlusconi (che se ne atteggi a proprietario) con l’obiettivo di dare vita alla nuova compagnia di bandiera italiana. Sono 16 i soci che, al momento della sua costituzione, sottoscrivono quote paritetiche dal valore puramente simbolico di poche migliaia di euro. Oltre a Colaninno, figurano Marcegaglia, Bellavista Caltagirone (Acqua Marcia), Gruppo Benetton (Atlantia), Gruppo Gavio, Gruppo Toto, Davide Maccagnani, Tronchetti Provera e Intesa-Sanpaolo, quest’ultima con il ruolo di advisor della privatizzazione. Il capitale sociale complessivo ammonta ad un miliardo di euro.

All’interno del piano Fenice messo a punto da Intesa-San Paolo, si delineavano le principali caratteristiche strategiche per l’Alitalia, prevedendo al contempo la nascita di una newco che avrebbe ripulito a carico dello Stato, e cioè dei contribuenti, i debiti della vecchia Alitalia. Una nuova compagnia in scala ridotta quella che andava configurandosi, focalizzata sul breve e medio raggio. Un’ossatura assottigliata, con manutenzione pesante, call center ed informatica dati in outsourcing, mentre il cargo sarebbe stato venduto.

Anche il numero di destinazioni sarebbe dovuto scendere, dalle 195 circa del 2008 a 140 nel 2009. Il costo del lavoro ridotto del 40% nel 2009. Le ore lavorate per equipaggio in salita del 30% nel primo anno, configurando un netto peggioramento per la condizione dei piloti, seppure il piano faceva notare che «il network sbagliato penalizza l’efficienza degli equipaggi», in quanto la produttività dei piloti (posti offerti per milioni di chilometri) è di 27 a testa, il secondo peggior dato in Europa dopo Austrian e molto meno del 49 di Lufthansa[1].

Le cause che hanno portato alla situazione attuale di crisi hanno radici profonde nel passato recente e sono ancorate ai vizi di un sentiero gestionale di natura clientelare e per nulla profit oriented. Ma si vuole veramente cambiare?

L’ultimo esercizio chiuso in attivo dalla compagnia italiana è il 1998. Il declino ha una sua data di inizio: il 1992. La guerra in Kuwait ed il conseguente rincaro del petrolio avevano messo in crisi l’intero settore aereo europeo, mentre in quegli stessi anni l’Iri, da cui Alitalia dipendeva, veniva smantellata in seguito all’onda d’urto creatasi per gli scandali di “Tangentopoli”.

Inoltre, cominciava la “liberalizzazione dei cieli”, un processo internazionale di deregulation, conclusosi nel 1997, volto a spezzare il rigido protezionismo che vigeva nel settore aereo comunitario. Si crearono in quel periodo i presupposti del trasporto low cost, con la nascita e la graduale crescita di compagnie aeree private – organizzativamente snelle e votate ai criteri del mercato e dell’efficienza operativa – che traevano i loro profitti da attività ancillari ancor più che dal costo del biglietto aereo.

Proprio nel 1997, per fronteggiare il mutato scenario di mercato, Alitalia aveva raggiunto un accordo con la compagnia olandese Klm ed iniziato una nuova fase di ricostruzione che portava, nel 1998, Alitalia alla redditività aziendale mentre il titolo saliva in borsa anche dieci volte. Con l’apertura solo parziale di Malpensa, il caos organizzativo e la serie di scioperi che seguirono – rimasti nella storia come i “100 giorni” di Malpensa – gettarono le basi per una nuova crisi della compagnia.

Il 2000, invece dell’auspicata privatizzazione, vide la crisi, soprattutto a causa del “buco Malpensa”, mai decollata funzionalmente e fonte solo di disorganizzazione e “costi impropri”, mentre Klm sciolse l’accordo in modo non consensuale.

Seguì il 2001, l’anno nero per il trasporto aereo. L’11 settembre, di fatto, restrinse al minimo vitale il traffico aereo globale. Alcuni nomi storici dell’aviazione civile non hanno retto alla depressione dei traffici. Tra le compagnie di bandiera europee, le vittime più illustri furono la svizzera Swissair e la belga Sabena, costrette ad una riduzione delle attività prima ed al fallimento poi; mentre British Airways e l’irlandese Aer Lingus riuscirono a salvarsi soltanto grazie ad abili manovre di ristrutturazione aziendale. Alitalia si limitò a stringere un’alleanza (Sky Team) con Air France e Klm, mentre i vertici aziendali, privi di alcun indirizzo strategico, hanno amministrato la società grazie a continue iniezioni di denaro pubblico, peraltro a spese dei contribuenti, che hanno portato ad una nuova ricapitalizzazione nel 2002.

Balzando agli anni più recenti e dando un po’ di statistiche, nel 2007, la compagnia ha trasportato 26,6 milioni di passeggeri, ottenendo un fatturato di 4.847 milioni di euro e perdite per oltre un milione di euro al giorno. Nel primo trimestre del 2008, la quota di mercato interno è scesa del 5% rispetto all’anno precedente, toccando il livello del 40,8%, cioè il minimo tra le compagnie di bandiera europee. Se a ciò si aggiunge il consequenziale deprezzamento del titolo in borsa – che valeva 8,5 euro nel 2001, a fronte dei 0,4 euro di oggi – si ha l’esatta dimensione della crisi Alitalia[2].

Nel 2007, in un estremo tentativo di riduzione dei costi, venne chiuso l’hub di Malpensa e ridotto il personale di 258 unità (sugli oltre 11.000 dipendenti del gruppo) ma le perdite non accennarono a diminuire, ed i costi, rispetto all’anno precedente, subirono una flessione di appena l’1,5%, erodendo liquidità dalle casse aziendali ad un ritmo pari a 100 milioni di euro al mese.

Il piano Fenice ed i tentativi del Governo, è a tutti chiaro, non sono in grado di ridare dignità alla compagnia nazionale ed alle migliaia di operatori di volo e di terra, che “hanno esultato di fronte alla notizia del fallimento delle trattative” firmate solo da CISL e UIL: Quella operata dal governo è stata una forzatura, regolata con procedure prive di ogni trasparenza, rispetto alle convenienza ed alle opportunità dettate dal mercato, che – se accompagnate dalle opportune garanzie del lavoro – avrebbero salvato l’orgoglio di molti lavoratori, ora invece ferito. A tutto ciò si aggiungono le voci, più che consistenti, di un patto tra politica e imprenditoria, che avrebbe costituito il vero collante di questa operazione, riportandoci alle pagine più becere della politica di scambio, e che hanno fatto la fortuna di pochi a danno di molti.

Fortunatamente il no della CGIL, dei piloti e assistenti di volo ha costretto il governo a riaprire la trattativa sulla base di una riduzione degli esuberi, di un miglioramento contrattuale e del riconoscimento dello status dei piloti. Berlusconi e Sacconi sono scomparsi dalla scena sostituiti da Gianni Letta e con la mediazione del commissario straordinario Fantozzi è stato possibile un accordo con la CGIL e i lavoratori direttamente interessati.

La speranza, ora, sta nella “interessata attesa” di Air France e Lufthansa, ma Berlusconi ha di nuovo turbato il mercato con nuove condizioni allo “straniero”.

[1] La Repubblica, 28/08/2008.

[2] A. Giuricin, “Una vendita al(l)’italiana”, 2007.

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